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sabato 3 aprile 2021

Kwasniewski, Dottrina Sociale della Chiesa. La Religione nella Sfera Pubblica.

L'articolo che segue è apparso per la prima volta nell’edizione cartacea di settembre 2020 di Catholic Family News e ripreso il 25 settembre 2020 dal sito online della medesima testata. Potete trovare qui la parte I e II.

Venga il suo regno: La Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica
Parte VI – La Religione nella sfera pubblica


La Religione nella sfera pubblica

In questa serie di articoli ho avuto occasione più di una volta di parlare della concezione contemporanea dominante – che si può far risalire al cosiddetto Illuminismo – secondo cui la religione è una faccenda puramente privata, rispetto alla quale dovremmo accuratamente impegnarci perché non si riverberi in alcun modo nella sfera pubblica. La religione è in pratica come un cappello o un cappotto, da togliere e appendere quando si entra in un palazzo del governo o del mondo degli affari
La vocazione del cristiano non può essere rinchiusa o mutilata in questo modo. Non perché essa sia primariamente ​​politica, ma piuttosto perché si tratta di una visione totale della vita in ogni sua dimensione, naturale e soprannaturale, e ha così implicazioni per l’intero mondo in cui l’uomo vive.

Quando il Vangelo, affidato alla Chiesa, è entrato nel mondo 2000 anni fa, non esisteva alcun programma o piano volto a “prendere il controllo” dello Stato. Dal momento che Cristo era morto per la salvezza dei peccatori, e il battesimo nella Sua morte era l’unico modo per ricevere la benedizione della vita eterna, i cristiani cercavano non soltanto di seguire con zelo Cristo, ma anche di persuadere quanti più possibile dei loro concittadini a seguire “la Via” (At 9: 2; 19: 9, 23; 22: 4; 24:14, 22). Era l’amore (agapē, in greco; caritas, in latino) che spingeva i cristiani a cristianizzare il mondo che li circondava: anima per anima, famiglia per famiglia, città per città, nazione per nazione. Il Medioevo non fu un piano “quinque-secolare”, programmato e portato avanti da qualcuno; fu piuttosto il risultato organico delle tante generazioni di sacerdoti, religiosi e laici che avevano vissuto con passione la loro fede. Secoli di cittadini cristiani, che hanno trasformato il mondo mediante l’esercizio energico delle virtù morali e delle virtù teologali.

L’obiettivo dichiarato del Cristiano è conquistare anime per Cristo; l’obiettivo del Cattolico è rendere cattolico il mondo. Spinto dallo Spirito di verità e di amore, il credente deve essere irrequieto e addolorato fintanto che il mondo che lo circonda non è cristiano nei suoi atteggiamenti e nel suo aspetto, nei suoi desideri e azioni; e tanto più addolorato quanto più il suo mondo si oppone al sentimento che è in Cristo Gesù (cfr. Fil 2: 5). Talmente è ovvio che è dovere dei credenti “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1:10) – il motto e il programma di Papa San Pio X, Instaurare omnia in Christo (cfr. Enciclica E Supremi, n. 8) – che nemmeno il Concilio Vaticano II ha potuto fare a meno di reiterare in più occasioni, con un linguaggio che porta l’impronta di Leone XIII.

Dico ciò non perché non condivida le gravi perplessità riguardo al Concilio richiamate da Mons. Viganò e Mons. Schneider (tra gli altri), ma semplicemente per sottolineare che anche in questo contesto, pur nel mezzo di un golpe progressista, nondimeno risuonavano forti echi di questa dottrina tradizionale, dimostrando che essa non può essere ripudiata senza rigettare al contempo l’essenza stessa del cristianesimo. Mi viene in mente il fatto che persino i tomisti e i molinisti, che hanno dibattuto aspramente per secoli, a proposito di grazia e di predestinazione, erano d’altra parte totalmente d’accordo circa l’impossibilità di una separazione tra Chiesa e Stato. E ciò a dire quanto sia una conclusione scontata se partiamo dai dati del Deposito della Fede.

Instaurare omnia in Christo

Il progresso non consiste nel separare ulteriormente lo Stato dalla Chiesa, “che altro non significa se non separare la legislazione umana da quella cristiana e divina”, nelle succinte parole di Leone XIII (Au Milieu des Sollicitudes, §28; cfr. anche l’enciclica di Leone XIII sulla costituzione cristiana degli Stati, Immortale Dei). Il vero progresso, per i cattolici, avviene quando i laici infondono lo spirito del Vangelo nelle realtà temporali (Cfr. Foundations of a Catholic Political Order (1998) e The Catholic Milieu (1987), di Thomas Storck, disponibili in lingua originale sul sito www.thomasstorck.org). La Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel Mondo Contemporaneo, Gaudium et Spes, esorta i laici di retta e formata coscienza a “inscrivere la legge divina nella vita della città terrena” (“Ad ipsorum conscientiam iam apte formatam spectat, ut lex divina in civitatis terrenae vita inscribatur”, §43). Questo punto di vista suona come tutt’altro che laico o liberale: invece di privatizzare la religione, si insiste sul fatto che la verità su Dio e sull’uomo, come rivelata da Dio stesso, dovrebbe essere, come recita letteralmente il testo, “in-scritta” (inscribatur) nella società civile di quaggiù. San Tommaso o Papa Leone non l’avrebbero detta diversamente.

Il Decreto sull’Apostolato dei Laici, Apostolicam Actuositatem, mentre riconosce il “valore intrinseco” delle realtà temporali (§7), rileva tuttavia come queste possano essere facilmente pervertite a grave danno dell’umanità, e chiama i cristiani, in particolar modo i laici, a trasformare l’ordine temporale secondo il Vangelo; e ciò, inutile dirlo, senza aspirare a una mera fusione della società temporale e di quella spirituale, come è storicamente accaduto in diversi modi: il Cesaropapismo di Bisanzio, l’Erastianismo di qualche stato-nazione occidentale, il gallicanesimo e il giuseppinismo dell’epoca dei lumi. I cristiani di oggi, i “cattolici adulti”, tendono invece verso l’estremo opposto, a tenere le proprie convinzioni personali separate dalla vita pubblica, un atteggiamento pericoloso al quale la Dottrina Sociale cattolica si è costantemente opposta (cfr. la Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002).

La conclusione tratta da Apostolicam Actuositatem (§7) è inequivocabile:
“È compito di tutta la Chiesa aiutare gli uomini affinché siano resi capaci di ben costruire tutto l’ordine temporale e di ordinarlo a Dio per mezzo di Cristo. È compito dei pastori enunciare con chiarezza i principi circa il fine della creazione e l’uso del mondo, dare gli aiuti morali e spirituali affinché l’ordine temporale venga instaurato in Cristo”.
E, in effetti, l’unico modo per “ben costruire tutto l’ordine temporale” è precisamente quello di renderlo “ordina[to] a Dio per mezzo di Cristo”. I pastori, ugualmente, hanno la responsabilità di sostenere i laici nel loro sforzo per cristianizzare la società e il suo governo. Lo stesso documento definisce “apostolato dell’ambiente sociale” come “l’impegno nel permeare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui uno vive” (§13, corsivo aggiunto). I cattolici sono esortati a prendere parte attiva alla ricostruzione e al perfezionamento della società civile secondo i principi immutabili, di modo che tutti i cittadini possano essere preparati a ricevere il Vangelo (cfr. §14).

Passaggi del Vaticano II come questi non possono non far sorgere la domanda: perché l’attuazione del Concilio ha abbandonato così rapidamente questa dottrina tradizionale? La risposta non è difficile da trovare: perché il Concilio ha, al contempo, accettato il principio liberale della separazione tra Chiesa e Stato nella Dignitatis Humanae. Ironia della sorte, se pensiamo al fascino che esercitava ai tempi il Surnaturel di De Lubac: l’abbandono in DH della verità dell’intrinseco ordinarsi del naturale al soprannaturale – della città terrena alla Città di Dio, per conto del quale la Chiesa cattolica insegna e santifica – ha reso poi impossibile adoperarsi in modo serio ed efficace per realizzare i principi esposti in Apostolicam Actuositatem. La politica liberale, rilassata e mondana, sposata da un documento ha prevalso sugli echi dell’insegnamento tradizionale contenuti nell’altro.

La giusta relazione tra Chiesa e Stato

Sebbene la Chiesa rifiuti la separazione tra Chiesa e Stato, sostiene però la distinzione tra le due realtà: esse non sono lo stesso potere, né sono nelle stesse mani (eccetto in rari casi). Eppure, non possono agire separatamente perché operano sullo stesso soggetto unitario, cioè il singolo uomo che è sia cittadino che cristiano, figlio del suo popolo e figlio di Dio. In nessun modo la Chiesa ha mai invocato una teocrazia come forma ideale di governo; al contrario, nel corso della storia il potere spirituale, rappresentato dal clero, si è dovuto continuamente districare dalle distrazioni di affari gravosi che non erano propriamente i suoi.

In termini pratici, la questione dei rapporti Chiesa-Stato si può riassumere così: le leggi e i costumi di una Nazione, le consuetudini culturali di un popolo, dovrebbero riflettere e incarnare la verità cattolica, oppure no? Evidentemente, la risposta non può che essere sì. Se la Fede viene vissuta con passione e coraggio, è non solo possibile ma finanche probabile che un numero consistente di cittadini o di statisti sia pervaso da Essa, e ciò tenderà a influenzarne in meglio i giudizi pratici e lo stile di vita. Cercare di rimanere totalmente “neutrali” nella vita pubblica e praticare la Fede solo in privato, significherebbe giocare la parte dell’ipocrita e smentire le proprie convinzioni. Il politico cattolico, nelle sue decisioni, non può “mettere da parte” la sua fede: egli deve sempre guardare alle realtà temporali nella prospettiva eterna e divina della sua fede.

Se accettiamo la definizione di San Tommaso della legge naturale come partecipazione alla legge eterna – vale a dire, alla saggezza eterna, alla mente del Creatore stesso – allora anche l’atto razionale di esprimere giudizi “secondo la legge naturale” è un modo di applicare la misura divina alle realtà umane. Peraltro, come chiariscono molti documenti magisteriali, la Chiesa è custode e interprete della legge naturale nella sua purezza: senza ascoltare il suo insegnamento, per uno Stato sarebbe impossibile seguire la legge naturale in modo coerente e stabile. Trascurare il riferimento costante alla legge di natura non è soltanto una lieve mancanza, ma rappresenta piuttosto un totale fallimento nell’esercizio della virtù della prudenza e, soprattutto, della prudenza politica. Un governante non è affatto un governante (e men che meno un buon governante) se non si sforza continuamente di giudicare e legiferare nel campo della vita temporale secondo i principi immutabili della legge divina. Tali principi, secondo la posizione cattolica, possono e debbono includere tanto principi soprannaturali quanto principi naturali.

Il cattolico rifiuta qualsiasi concezione della politica che provi a eliminare o relativizzare i saldi principi di natura facendo della volontà di un dittatore o della maggioranza la fonte del diritto. La Germania nazista, la Francia contemporanea, gli Stati Uniti nella loro deriva liberale… sotto quest’aspetto fondamentale, non sono affatto diversi: tutti hanno permesso che a determinare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fosse la volontà umana, vuoi tramite il corpo elettorale, vuoi tramite uomini politici incontrastati. Lungi dall’essere “preconciliare”, questa posizione è esattamente quella che si ritrova nelle lettere encicliche Veritatis Splendor ed Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II (tanto che i liberali hanno subito bollato tali documenti come “retrogradi” e “oscurantisti”), anche se purtroppo il papa polacco non perde occasione per mescolare al tutto le sue opinioni liberali sulla libertà religiosa.

Tanto va ammesso: Giovanni Paolo II non era un secolarista puro e semplice, perché nessun secolarista avrebbe potuto esigere che gli Stati e le società si sforzassero debitamente per preservare e promuovere il bene integrale dell’uomo, che trascende l’ordine della creazione materiale e della vita in questo mondo, come il papa polacco ha incessantemente proclamato contro quei “gemelli siamesi” che sono il marxismo dialettico e il capitalismo materialista. Tuttavia sembra non sia stato capace, o sia stato riluttante a trarre – con Leone XIII – la conclusione che, dal momento che la prima e più alta virtù morale è la virtù di religione (intesa nel senso tomistico di virtù per cui offriamo a Dio il dovuto e giusto culto pubblico), lo Stato ha il solenne dovere di promuovere proprio questa virtù e il suo esercizio. Probabilmente, il Papa è rimasto invischiato nella moderna confusione tra confessionalismo (subordinazione politicamente riconosciuta dello Stato alla Chiesa) e teocrazia (esatta sovrapposizione tra Chiesa e Stato), e dal momento che rifiutava questa seconda impostazione (come anche Leone XIII), allora rifiutò anche la prima.

Inoltre, su un livello più pragmatico, Giovanni Paolo II, al pari di Pio XII, era oltremodo preoccupato per l’incompetenza dello Stato moderno a legiferare bene rispetto alla prosperità non solo materiale, ma anche spirituale dell’uomo. Chi potrebbe biasimarlo per il suo scetticismo? In un periodo di decadenza e disintegrazione sociale come questo, si può ben comprendere quell’atteggiamento anti-statalista, pratico e un po’ ruvido, tipico, ad esempio, del classico allevatore delle praterie americane: “datemi la mia pistola, il mio bestiame e poi lasciate me e mia moglie in pace, ad allevare i nostri figli da buoni timorati di Dio”.

Una visione cattolica per la vita sociale

La Chiesa, però, ha sempre sostenuto che l’ideale da perseguire sia qualcosa di più di questo minimalismo appena accennato. Infatti, il cattolicesimo dovrebbe essere una realtà socialmente privilegiata. E ciò cosa significa, all’atto pratico?

Le attività commerciali rimarrebbero chiuse la domenica e i giorni festivi (cosa che Giovanni Paolo II chiede espressamente nella sua Lettera Apostolica Dies Domini del 31 maggio 1998). Agli ospedali sarebbe vietato di eseguire pratiche non etiche. I medici e i farmacisti non potrebbero prescrivere o distribuire contraccettivi. Le sedute parlamentari si aprirebbero e si chiuderebbero con una preghiera, magari guidata da un cappellano ad hoc. Le proposte di legge potrebbero essere valutate da un consiglio di vescovi o di teologi morali da loro nominati (una disposizione del genere potrebbe lasciarci esitanti al momento, è chiaro, ma dobbiamo avere una visione più ampia delle cose, e sperare di vedere, un giorno, vescovi molto migliori di quelli che abbiamo ora). I film sarebbero soggetti a uno screening preventivo, e richiederebbero una sorta di “nihil obstat” prima di poter essere distribuiti. La costruzione di moschee, templi di religioni politeiste e simili dovrebbe essere proibita. Questi sono soltanto esempi, di cui alcuni più appropriati per nazioni a maggioranza cattolica, altri invece adatti a tutte.

Il dovere minimo dello Stato sarebbe quello di proteggere la “religione naturale”, così da proibire tout court e vietare il pubblico esercizio dell’ateismo e di ogni sua espressione (ad esempio, quella letteratura pseudo-scientifica che afferma un processo di evoluzione puramente materialistico), come anche di quelle assurdità metafisiche come le credenze New Age o le religioni politeiste pagane. Ciò perché in tali errori l’intelletto nega i primi principi, e quindi non si può dire che persegua la verità, ma si corrompa solo.

Lo stesso Giovanni Paolo II avrebbe dovuto, logicamente, tenere questa posizione, e lo dimostra quanto ha insegnato ripetutamente sulla cultura, come in questa celebre considerazione: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”; e il modo in cui un popolo si organizza e si governa politicamente non è forse un elemento immensamente importante della propria cultura, e particolarmente determinante rispetto a tutti gli altri aspetti della cultura? D’altra parte, è fin troppo ovvio – e i telegiornali ce ne danno notizia ogni giorno – che le persone possono organizzarsi politicamente in modi malvagi e anticristiani (cfr. il Discorso di Giovanni Paolo II alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Cultura, 12 gennaio 1990). Non ne consegue forse che i cristiani possono e debbono organizzarsi in modi buoni ed espressamente cristiani? Non è questo, allora, un terreno di missione prioritario, da evangelizzare e convertire? E se questo regno viene convertito, non maturerà forse in qualcosa di simile a quella “Cristianità” tratteggiata da San Tommaso d’Aquino nel De regimine principum? Una società gerarchica, governata da un principe cristiano, egli stesso soggetto al Papa e ai sacerdoti della Chiesa Romana (a fronte di questa “Cristianità consacrazionale”, Jacques Maritain e Charles Journet hanno cercato di articolare una “Cristianità secolare”, ma non sono del tutto convinto che i due non abbiano creato una chimera, una contraddizione in termini).

Allo stesso modo, nell’Esortazione Apostolica Ecclesia in Oceania (2001), Giovanni Paolo II ebbe a dire: “È vitale che la Chiesa si inserisca pienamente nella cultura e dall’interno porti avanti il processo di purificazione e di trasformazione” (§16). Ancora: “Animare l’ordine temporale in tutti i suoi molteplici elementi (136) è la chiamata fondamentale dei laici. […] In tal modo, la Chiesa diviene il lievito che fermenta l’intera «farina» (cfr. Mt 13, 33) dell’ordine temporale” (§43). Giustamente, egli lamenta che “la concezione cristiana del matrimonio e della famiglia viene contestata da una nuova visione secolare, pragmatica e individualistica che ha conquistato terreno nel campo legislativo” (§45). In altre parole, il concetto naturale e cristiano del matrimonio dovrebbe rivestire, o recuperare, una condizione pubblicamente riconosciuta sul piano legale. Questa è una richiesta che Giovanni Paolo II ha costantemente avanzato nei confronti degli Stati, certo di chiamarli ad assumersi un compito essenzialmente rientrante nella loro competenza. 

Desiderio della cristianità

Se a un certo punto del Medioevo i Papi, i Vescovi, il clero e i fedeli avessero deciso di rinunciare ai loro sforzi per costruire una società cristiana (e possiamo immaginarceli mentre, sospirando, si dicono l’un l’altro: “Che depressione! La peste, i barbari, gli edifici in rovina e i re corrotti! Perché non lasciamo perdere la giustizia e la pace in questo mondo, marcio fino al midollo, e non ce ne andiamo nelle foreste insieme agli eremiti?”), allora il Medioevo – l’età della Fede e della Cavalleria, delle Cattedrali e delle Summae – non avrebbe mai visto la luce.

Di fronte alla tentazione dello scoraggiamento di fronte al male, anche noi dobbiamo imparare la medesima lezione: se davvero amiamo Cristo, allora ameremo e nutriremo un desiderio ardente per la Cristianità, che è lo sbocciare della Sua grazia in questa valle di lacrime. Ciò significa che faremo tutto il possibile, come individui, per rendere questo mondo più accogliente per Cristo, per la Sua Chiesa, per il Suo Vangelo salvifico e per la sua potenza santificante. Solo questa potrà essere la soluzione a lungo termine per il nostro problema a breve termine, cioè il bisogno di statisti autenticamente cattolici. A questo bisogno possono provvedere – operando contro ogni previsione e calcolo umano – soltanto la fede, la speranza e la carità, ma ciò non prima che molti chicchi di grano siano caduti in terra e siano morti (cfr. Gv 12, 24). “Io ho piantato, Apollo ha annaffiato, ma Dio ha fatto crescere. […] Noi siamo infatti collaboratori di Dio […]” (1Cor 3, 6-9).

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