Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

domenica 14 dicembre 2014

E.M. Radaelli sul plurale maiestatis papale

Rilevavo ieri, dalle parole del papa sui Linementa per il Sinodo 2015, lo slittamento dal plurale maiestatis papale al plurale sinodale [qui]. Uno slittamento non da poco, se il primo riguarda un "Noi" che raccoglie misticamente l'Io di Cristo, cioè di Dio, e l'Io del suo Vicario e di tutti quelli che lo hanno preceduto e lo seguiranno mentre il secondo dice un "noi" che parifica il Vicario di Cristo al Collegio dei vescovi.
Mi sono ricordata che E.M. Radaelli ne ha parlato nel suo ultimo libro La Chiesa ribaltata [qui] e ne estraggo le parti relative (pagg. 60-68). Le riporto di seguito, per approfondire e condividere. 

(§ 19, p. 60-1). SUL PARTICOLARE E SPECIFICO 
PLURALE MAIESTATIS PAPALE.

Il plurale maiestatis, va ricordato, è quella figura retorica introdotta nella prassi del governo ecclesiastico nel IV secolo da quell’accorto Pastore che fu Papa san Damaso I (366-84), attraverso la quale un Sommo Pontefice ricorda (a se stesso, oltre che all’universo di fedeli cui si rivolge) che la propria locuzione di Dottore della Chiesa universale non germina unicamente dal proprio cuore, ma lo fa in unione intenzionale con il Dottore e Maestro soprannaturale della Chiesa, il Signore nostro Gesù Cristo, di cui egli è per sua grazia Vicario, così da dover necessariamente pronunciare un “Noi” che raccoglie misticamente, cioè realmente pur se non fisicamente, due Io: l’Io proprio e l’Io di Cristo, cioè di Dio.
Non solo: ma, rappresentando ed essendo la propria vicarietà in continuità temporale ininterrotta, tale da garantire la continuità di insegnamento veritativo come fosse un solo e unico insegnamento malgrado la sua estensione nei secoli e nei millenni, la sua locuzione ha per soggetto un “Noi” che raccoglie, oltre l’Io di Cristo e l’Io proprio, anche gli “Io” di tutti i Papi che quel singolo Io hanno preceduto e seguiranno, così da raccogliere la somma Autorità dei cento e cento Papi in un solo “Noi” puntiforme, che fa e che dà unità di voce all’universo intero in unione al suo Creatore.

In altri termini, quella piccola parola “Noi” del plurale maiestatis, così come pensato dalla Chiesa, non solo raccoglie il magistero di secoli e millenni in un singolo e minimo vocabolo, che è già molto, ma, nella semantica leggibile in quel minimo lemma, unisce tali secoli e millenni all’eternità, e questo è il soprannaturale “tutto” che va sottolineato nel “Noi”.
Il plurale maiestatico papale si distanzia dunque essenzialmente da ogni altro plurale della retorica, quali il plurale didattico, il plurale narrativo, il plurale impersonale eccetera, tutte figure necessitate da fini pratici e umani, al contrario della nostra, mossa da obiettivi sostanziali e soprannaturali: legare la parola umana alla divina; o meglio: ricordare che una certa parola umana – quella di un Papa – è a volte, in qualche modo tutto mistico, particolarmente legata alla parola divina.

Il pregio dell’uso del plurale maiestatis papale, come si può intuire, è infondere al documento che ne origina un’autorevolezza altrimenti impossibile, come visto, e, in secondo, una altrettanto impossibile – peraltro ancora ben intuibile – oggettività: tanto come l’“Io” afferma la soggettività di un pensiero, il “Noi”, allargando il soggetto come qui si è visto, e coinvolgendo in esso persino Dio, afferma la più fredda e distante oggettività, con ciò portando la più forte garanzia di verità, necessaria a convincere i cuori dell’immensa intenzione di bene, e di bene sicuro, che si ha nei loro confronti.

(§ 20, p. 62-5). CONTRO LA “BONOMIA” ESERCITATA DA PAPA GIOVANNI XXIII:
NATURA EXTRAGIURIDICA, ANZI: FORTEMENTE AMOREVOLE,
DEL LINGUAGGIO ASSEVERATIVO E GIURIDICO DELLA CHIESA.

Perché questo è il paradosso da scoprire in ciò che si sta dicendo intorno al “Noi” e alla sua carica formale di autorità e di oggettività: che, dietro l’apparenza glaciale, cool, si direbbe oggi, distaccata e “terribile”, di un pronome tanto potente da rappresentare persino, nel suo piccolo sé, il Padre soprannaturale di ogni verità, si cela un sentimento che più caldo, più tenero, più palpitante non si può, essendo esso il più accorato amore, la più vibrante e sentita preoccupazione, di dare le più ampie garanzie ai propri fedeli, alle proprie pecorelle, che tutto ciò che discende da quel “Noi” è sicuro, è vero, è buono, è garantito, perché è affermato all’unisono, in consonanza, in armonia, col Padre stesso della Verità.
Non si dirà e non si ribadirà mai abbastanza che il discorso formale, nella Chiesa, più riveste le forme giuridiche, algide e legali, più in realtà si arroventa d’amore, perché il linguaggio della Chiesa ha più di ogni altro l’incombenza di garantire che ciò che si sta dicendo è la pura verità, è tutta la verità ed è solo la verità, e tale estrema garanzia la Chiesa può darla solo cucendo la propria parola sulla veste più asseverativa, ferma e rigorosa offerta dal linguaggio.

Ciò va detto, in specie, contro la cosiddetta bonomia e la falsa benignità impresse al magistero della Chiesa da Papa Giovanni XXIII a partire dalla Gaudet Mater Ecclesia, atteggiamenti, questi, sulla cui indubbia problematicità ci si soffermerà, come necessario, più avanti (§§ 35-6), perché si sa che certe affermazioni, se proprio ci si sente in dovere di farle, come qui il caso, vanno giustificate e spiegate quanto meglio possibile, e con la più religiosa e ossequiente cura.
Tornando a noi, l’amore sotteso dal linguaggio giuridico della forma dogmatica è amore vero, denso, forte, ardente, non inficiato da secondi fini di nessun tipo, quali il desiderio di non turbare nessuno, di non scuotere nessuno, di mostrare a tutti, anzi, la bontà sorridente e disarmata con cui la verità di nostro Signore e della Chiesa si avvicina alle anime.
È stato già visto – e ancor più si vedrà – quanto tale machiavellica sub-intenzione sia nociva, deleteria, gravemente lesiva della forma della Chiesa, originalmente e insopprimibilmente dogmatica, e della stessa salus animarum cui essa è chiamata, e, specialmente, della giustizia sublime di Dio.

Sul plurale maiestatis ci sarebbero ancora molte altre cose da dire, ma qui si vuole solo evidenziare che la sua assenza infirma notevolmente il tono generale di una Lettera enciclica, privandola ab origine, almeno sul piano della percezione, di un requisito che parrebbe peraltro utile, se non sostanziale, al magistero papale, allorché esso voglia porsi su un livello significativo, non ordinario, per quanto esso voglia stendersi unicamente su un piano pastorale, dunque non vincolante, non irreformabile, non infallibile, ma solo sollecitativo e suggestivo di sante e universali indicazioni.
Si consideri una qualsiasi delle Lettere encicliche papali fino a Paolo VI compreso (la sua Humanæ vitæ è ancora in plurale maiestatis, non lo è invece già nessuna di quelle scritte da Giovanni Paolo II). Si prenda per esempio la Mystici Corporis, firmata da Pio XII, pubblicata il 29-6-1943. Anche sotto questo punto di vista, essa è davvero esemplare, giacché dalla sua lettura si percepisce subito, fin dalle prime parole, quanto la firma al plurale abbia influenzato e direi determinato tutto il suo costrutto: vi si respira immediatamente una serietà d’intenti, un rigore – religioso prima che intellettuale –, una determinazione alla verità e al realismo, infine una schiettezza pastorale, che infondono nel lettore la consapevolezza di star cogliendo, di toccare quasi con mano, nelle preziose parole da lì salenti, qualcosa di importante, di vitale, di risolutivo proprio per lui.
Il “Noi”, quel “Noi” lì, dice presto al lettore – insieme ad altri strumenti linguistici ben più presenti nella forma asseverativa del linguaggio germinante da quella peculiare fonte data dal plurale maiestatis papale – che i concetti espressi che si stanno via via cogliendo sono realtà da prendere ben sul serio: indubitabili, decisive. Al contrario, nella Lumen Fidei, il lettore-fedele si accorgerà invece che, in assenza del “Noi”, l’augusto Autore può gettare sulla bilancia del giudizio, oltre a luminose e semplici belle verità, malauguratamente anche l’indicazione di altrettanti ben precisi e pericolosi errori.

Ma se tutto ciò è vero, se tutto ciò ha quella rispondenza con la realtà che giustamente ci si aspetta allorché si parla al tempo presente di fatti angolari, netti, “pesanti”, ciò vuol dire che questo famoso “Noi” dovrebbe essere definito, oltre che plurale maiestatis, anche e ancor più plurale caritatis, plurale amoris: plurale di carità donativa e di altruistico amore, ossia plurale determinato dalla e finalizzato alla carità.
Perché è la carità il nerbo essenziale, il cuore del linguaggio asseverativo, come d’altronde sanno bene tutti i portatori sani d’amore: i padri e le madri, p. es., che insegnano con infinita attenzione i rudimenti della vita ai loro figlioletti, e gli innamorati, che al dunque, al di là di ogni linguaggio poetico, al di là di ogni segnale fascinoso più o meno portatore di simboli amorosi trasversali e di leggiadre figure evocative, chiuso il proscenio delle danze, delle musiche e dei canti, possono comunicarsi qualcosa di certo e di definitivo sul loro amore solo se si dicono, molto semplicemente e senza mezzi termini: “Io ti amo”, con annesso anathema: “Non dovrà esserci nessun altro che te lo dica in eterno”: se non usano queste formule basiche e asseverative non avranno mai nel cuore la certezza del loro sentimento, che è la prima, fondamentale e decisiva cosa da sapere intorno al loro legame.
                 
Certo, se non vogliono comunicarla, questa certezza, è altro discorso. Ma se lo vogliono, se vogliono vicendevolmente essere sicuri del loro amore, altro linguaggio, più sicuro, deciso e indubitabile di questo, non c’è. Ecco perché dico (si veda il mio Il domani…, Radaelli 2013, pp. 113-7) che il linguaggio asseverativo, “dogmatico”, del presente indicativo e dalle affermazioni inequivocabili, è il linguaggio per eccellenza dell’amore, tanto che il Profeta esclama: « Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità: la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore » (Ger 15,16), perché è una parola che annuncia l’evento, e la gioia che circonda un evento può essere descritta solo da parole (altro è il sorriso, o la luminosità degli occhi ridenti: essi “dicono” la gioia, ma la sua descrizione la dà solo la parola).

Come si può notare, è sufficiente la lettura “linguistica” di una Enciclica per entrarvi e carpirne tutta la sostanza.

(§ 21, p. 65-8). ASIMMETRIA TEOLOGICA TRA LA SCELTA
DI PAPA SAN DAMASO – UTILIZZARE IL PLURALE MAIESTATIS –
E QUELLA DI PAPA GIOVANNI PAOLO I – ABBANDONARLO –.

La scelta di suggellare con firma singolare invece che plurale i propri atti di magistero e di governo, stante le considerazioni fatte sulla semantica del plurale maiestatis in uso presso tutti i Sommi Pontefici dal IV al XX secolo, in calce a quei loro documenti e atti di magistero di particolare valore, come sono le Lettere encicliche (gr. enkyklos, “in giro”, “in circolo”, cioè universali), uso che si era presto esteso anche agli atti di magistero privato e persino agli atti personali, è scelta che offre forti e ragionevoli motivi di perplessità sia sulla certezza veritativa del contenuto di un magistero così miserevolmente, così “umanamente” suggellato, sia sulla reale portata di ‘amore di dedizione’, di caritas, instillato da quei Pontefici in quei loro documenti: saranno o non saranno essi ancora ripieni di quella sostanza veritativa soprannaturale invece tanto più chiaramente e quasi arditamente esposta, quasi a “metterci la faccia” dell’Altissima e Divinissima Trinità, data dall’aureola (= piccola aura) del pronome di prima persona plurale formulato col “Noi”? e se tale scelta, al contrario, come sostengono i suoi fautori, in nulla infirma tale certezza veritativa, perché mai il magistero bimillenario di Santa Romana Chiesa per secoli ritenne bene adottare tale aurico costume, includendo nel suo numinoso carisma non solo gli atti di magistero, ma la persona stessa del Papa, tutto ciò motivando, appunto, con gli argomenti riportati?

C’è da considerare, infatti, che, teologicamente parlando, la decisione presa nel IV secolo da Papa san Damaso – accendere l’aureola del plurale maiestatis – non è affatto simmetrica a quella del tutto opposta presa nel XX da Papa Giovanni Paolo I, poi mantenuta e avvalorata dai Papi successivi – spegnere l’aureola del plurale maiestatis –: la prima, infatti, non faceva altro che esplicitare un concetto fondante del magistero – la “Logoscrazia” che regna sulla storia di cui parlo in Radaelli 2008 –, per il quale, esprimendosi esso, in specifiche situazioni, a nome (orizzontalmente) dell’universalità dottorale della Chiesa – ossia di tutti i vescovi del mondo – e parlando (verticalmente) a nome di Dio, l’Io di quell’uomo eletto Vicario di Cristo, chiunque fosse, nella successione Apostolica petrina veniva a trovarsi in quell’intima relazione con l’Io collegiale della Chiesa e con l’Io divino, tale da poter essere espressa solo dall’aura di un “Noi” anche in quei secoli in cui – dal I al IV – era stata di fatto espressa solo da un “Io”: nel quale “Io” la raggiera del “Noi” già irradiava però la sua luce tutta implicitamente sfolgorante.

La seconda decisione invece, quella di Papa Luciani, che rigettava il “Noi” e riprendeva l’uso dell’“Io” singolare, con ciò stornava proprio quel concetto di unione mistica (che non vuol dire irreale, ma, per quanto unione sommamente reale, vuol dire, per il carattere soprannaturale di uno dei due componenti, “misterica”), di legame ideale e intenzionale (orizzontale e verticale), sì da ridurre, rattrappire l’augusto Parlante alla singola persona di quel Papa lì, slegandolo e rendendolo avulso dal contesto ecclesiale e divino che si è detto avrebbe dovuto invece come un’aureola sempre circondarlo, quasi facendolo parlare anzi, se così si può dire, per suo tramite. Ma così facendo ha svuotato la Logoscrazia di se stessa.

Dunque la decisione presa da Papa san Damaso I dopo il 366 (anno della sua elezione), non faceva altro che raccogliere ed esplicitare la consapevolezza, la coscienza della realtà divina delle cose, realtà divina fino ad allora comunque presente egualmente alla mente di tutti, fossero stati san Pietro o il più umile dei fedeli, ma non ancora espressa apertis verbis, non ancora manifestata con la bocca in ciò che era nel cuore. È adombrato qui il classico principio di Lérins, che dà a una dottrina un valore di credibilità magisteriale vicino al dogma: « Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est », “[Noi crediamo solo a] ciò che sempre, in ogni luogo e da tutti è stato creduto”: prima implicitamente, ora esplicitamente. La decisione di Papa Giovanni Paolo I e successori invece, proprio per la sua natura negativa, per la sua natura autoprivativa, non può più essere letta come implicante quella realtà divina, quella Logoscrazia, ora tralasciata, ma come un suo chiaro se pur non esplicitato rigetto, forse persino come una sua silente smentita.
Con ciò non si vuol dire che questa fosse l’intenzione di chi fece quella scelta, giacché i motivi potrebbero essere anche altri, per esempio la ricerca di una certa semplicità, o di una qualche umiltà di esposizione, tale da togliersi di dosso, in qualche modo, quelli che si vollero ritenere, se pur inopinatamente e certo erroneamente, paludamenti inutili – persino dannosi! – alla verità con cui presentare la Chiesa.

Resta il fatto che la scelta fu fatta, e fu fatta e approvata in successione e da uno, e da due, e da tre, e da quattro Pontefici. E se qualcuno ritiene che essa fosse motivata al fondo da motivi non strettamente religiosi, cioè teologici, ma “ideologici”, “di convenienza comportamentale”, ossia, come dice Livi in Vera e falsa teologia, attraverso filosofie falsificate, come le succitate, da machiavellismo utilitaristico (v. Livi 2012, p. 118), resta ben possibile che questo qualcuno avesse ben ragione a crederlo, giacché essa va di pari passo con altre scelte analoghe, che si vedranno in seguito.
Fu una scelta de-dogmatizzante? Certo contribuì a smussare l’auctoritas, ad allontanare la potestas del dogma dalla personalitas del Papa: la figura del Papa-Dogma iniziava anche con ciò a essere scalfita, e il ferreo, cristico, soprannaturale chiavistello veritativo che serra i polsi al Mistero d’iniquità certo subiva qui una prima significativa limatura (vistosa, sì, ma, in apparenza, teologicamente non davvero rilevante).

13 commenti:

Anonimo ha detto...

Ecco il tipo di musica che Bergoglio ha fatto entrare la Basilica di San Pietro...


https://www.youtube.com/watch?v=e4wiGgYneEc


lacrime, no di gioia!

Romano

Josh ha detto...

@Romano:
che orrore....
la tizia che canta avolta in pizzi aderentissimi bluette sembra pure la Kirchner

Rr ha detto...

Josh,
la Kirchner è più carina e femminile.e soprattutto più coperta.
Ma il più sconvolgente è il suonatore di chitarra. Mi ha ricordato gli Intillimani, "che noia mortale", come cantava anni, anni fa Venditti.
Pasaran, oh, se pasaran...

Unknown ha detto...

Non era Venditti a cantare che gli Intillimani erano noiosi, ma Vecchioni nell'unica canzone bella del suo repertorio, cioè '' Voglio una donna ''.

Gederson Falcometa Zagnoli Pinheiro de Faria ha detto...

Mic,

Nel prossigo gordo 31, la Lettera Encíclica Casti Conubii di Pio XI, farà 84 anni. Sarà che lei può aiutare in qualquer modo con Il Sínodo?

Anonimo ha detto...

“cattolici del new age”

una lettura tutt’altro che spirituale, anzi nemmeno pastorale, bensì solo politica dell’esperienza di fede.

http://www.riscossacristiana.it/francia-e-caccia-grossa-ai-pastori-conservatori/

Anonimo ha detto...

https://www.youtube.com/watch?v=e4wiGgYneEc

Vi sembra eccessivo parlare di "abominio della desolazione nel Tempio della cristianità?
Dopo la Sistina affittata alla Porche?

La cantante "merlettata" con una corona del rosario al collo e nella sede dell'orchestra, se non sbaglio, si notano degli scalini ricoperti dai colori della bandiera arcobaleno...

Sembra un incubo. E chi dovrebbe non fa una piega.
Ho appena letto in un blog di cerchiobottisti chi si vanta di non essere né tradizionalista né progressista. Stiamo ancora a mettere etichette, quando è tutto uno sfacelo?

anonimo n,4 ha detto...

E questo " circo "sarebbe adatto ad accompagnare
Nostro Signore che viene spintonato sul Golgota per essere crocifisso per i peccati nostri ??? Chi c'e' dietro le quinte , chi ne e' l'ispiratore ? Non eravamo gia' sazi di abusi ?
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/6962

Questo spettacolo (o preghiera se vi fa piacere ) andava bene nella sala Nervi perche' di fatto e' uno show !!

RAOUL DE GERRX ha detto...


A Buenos Aires, le même zèbre faisait danser le tango lors des cérémonies prétendument eucharistiques qu'il présidait.
Pourquoi ne ferait-il pas danser la gigue, la samba, le rapp, le houp-là houp-là, que sais-je encore, dans ce "Temple de l'Universalité" qu'est Saint-Pierre de Rome ?

Allez, encore un coup, mignonne !
Plus fort ! On t'entend pas !

Et clap, et clap, et clap !
Et zim boum-boum, zim boum-boum, zim boum-boum !
Les cardinaux se mettent à danser !

Pour le prochain show de Noël on fera venir les "dominicains" de Cracovie et les "franciscains" d'Assise qui ont une riche expérience de ces animations pastorales de haut niveau.
Avec eux, vous allez voir, ça va péter le feu dans la crèche ! Comme à Jérusalem !
Pas vrai, Jorge ?
Mais si, ne fais pas le modeste !
Tu sais bien que le monde n'a désormais d'yeux (Dieu ?) que pour toi !
Grande bête, va.

Anonimo ha detto...

"abominio della desolazione"
http://www.cristomaestro.it/vrt_teologali/speranza/comparsa/comparsa.html

Luisa ha detto...

Che desolazione, anche la bandiera arcobaleno è entrata in San Pietro!
E che dire di quel rosario al collo della cantante?
Non è un segreto che Bergoglio non abbia grande interesse per la Liturgia e la sacralità in generale, quella dei luoghi sacri in particolare, ma San Pietro non gli appartiene, riuscirà ad introdurre il tango come a Baires?
Possible che la Basilica San Pietro, madre di tutte le chiese,diventi ostaggio delle voglie dissacranti di un uomo, fosse anche il papa?

Qui il video e l`omelia di Benedetto XVI nella
solennità della B.V.M. di Guadalupe, Basilica Vaticana 
Lunedì, il 12 dicembre 2011

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20111212_america-latina_it.html

Marco P. ha detto...

Per tornare al tema del post e premesso che concordo con Silente che in un post precedente riteneva necessario il ritorno al plurale majestatis per le ragioni esposte dal prof. Radaelli e presentate riportate ora sul blog,
mi pare si possa osservare, come corollario alla tesi del prof. Radaelli, come conseguenza, che la scelta "involutiva" di ritorno all'io singolare in luogo del "noi" aureolato - scelta sulle cui intenzioni non ci si pronuncia però osservandone le conseguenze, i fatti - si può osservare che tale scelta è coerente con la visione storicista, idealista, moderna. Infatti l'io personale di "quel Papa lì" presenta una visione delle cose che gli è propria e legata a quel contesto storico e/sociale e da questo o questi derivante e traducentesi in indicazioni "pastorali" mutevoli buone oggi ma non domani e neppure ieri; ma mutevole è la visione, la percezione della realtà e della Realtà che le presuppone perché, appunto, guarda al divenire della storia come fosse l'assoluto cui riferirsi, prendendo in ciò un abbaglio colossale, direi l'abbaglio per eccellenza.
L'io singolo che parla a nome personale parla guardando alla storia e non si vuole compromettere, perché non può farlo sciogliendosi nel "noi aureolato", perché non sta presentando una esplicitazione della Rivelazione valida semper ubique e pro omnibus, ma la sua visione delle cose, che pur bella, pur grande, pur appagante che possa apparire è sempre striminzita e rachitica rispetto alla Verità.

Anonimo ha detto...

la statua della Madonna di Fatima è stata ricevuta a Roma pochi mesi fa prima da benedetto, forse è un caso, o forse no (lo vedremo più avanti).