Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

domenica 23 gennaio 2011

Convegno di Roma sul Concilio. P. Serafino Lanzetta, La recezione teologica del Vaticano II - Status quaestionis

Non è il testo integrale della Relazione di p. Lanzetta, ma è più di un semplice estratto, perché mi sembra troppo importante per chi con appassionato interesse sta acquisendo queste autorevoli e approfondite riflessioni.

Già durante l'ascolto ed ora, nel ripercorrerlo e meditarlo con gioia e gratitudine, questo lavoro mi ha aperto molti nuovi 'usci' e piste di riflessione per meglio comprendere e inquadrare le complesse e tormentate vicende di pensiero e d'azione che hanno attraversato la nostra Chiesa nell'ultimo cinquantennio. Lo ritengo una tappa ineludibile per il proseguimento del percorso, così bene sintetizzato dalle parole di p. Lanzetta: «Il nostro convegno non è chiuso con la fine dei lavori. Anzi ora si apre il dibattito, che ci auguriamo possa essere proficuo per una presa sul serio di tutte le problematiche legate al Concilio Vaticano II. Ne parliamo perché si dilegui finalmente quella coltre di silenzio irrispettoso, che spesso ha affossato la fede in nome del Concilio. Vogliamo riscoprire la fede e così il vero Concilio: ciò che veramente quest’assise guidata dallo Spirito Santo voleva essere per il bene della Chiesa. Solo questo abbiamo a cuore».

Il Vaticano II: un concilio e i teologi

Senza dubbio i teologi ebbero al Concilio Vaticano II un ruolo notevolissimo. Battista Mondin asserisce questo dato con forte rilievo:
«A far emergere i teologi in tutta la loro grandezza fu il Concilio, del quale essi furono i principali artefici e protagonisti. La loro presenza al Vaticano II fu massiccia. I periti ufficiali e privati erano più di duecento. Come i Vescovi anche i teologi provenivano da tutte le parti del mondo, e questo contribuì a dare al pensiero “teologico” del Concilio quella cattolicità che gli consentì di superare gli orizzonti ristretti della teologia curiale. L’apporto dei teologi ai lavori del Concilio fu sostanziale, costante e decisivo: i loro pareri furono continuamente ascoltati e le loro proposte accolte. A loro fu affidata la stesura di tutti i testi conciliari che poi furono approvati dai padri. In definitiva si può dire che la teologia del Vaticano II è quella dei teologi che vi hanno partecipato (Parente, Colombo, Congar, Daniélou, Rahner, Ratzinger, Chenu ecc.) […] Il Concilio rappresenta la felice conclusione del grande rinnovamento che aveva avuto luogo nella teologia cattolica dopo la seconda guerra mondiale».
Per R. Laurentin, il problema fondamentale da risolvere nella teologia post-conciliare, in ragione delle istanze del Concilio è la teologia, atrofizzatasi, in quanto lentamente aveva perso il contatto con le fonti della Rivelazione e con la vita, ed era diventata una collezione di un sistema di tesi.
«Il rimedio – dice – veniva dai teologi stessi che lavoravano accanitamente nell’ombra. Il Vaticano II ha dato un riconoscimento di diritto alle acquisizioni di questa corrente che assume in un solo movimento le fonti rivelate e la realtà vivente della salvezza».
In questa conferenza, ci proponiamo di verificare l’apporto dei teologi al Vaticano II. Escludiamo comunque che il Concilio sia risolvibile nel dato teologico, di elevata enfasi o di critica: il Concilio è magistero della Chiesa. È innegabile però il grande ruolo della teologia al Vaticano II, sia in riferimento ai teologi che furono periti e che guidarono le discussioni e in qualche modo le stesse votazioni, sia per il notevole impatto del Concilio nella ricezione teologica post-conciliare. In questa sede, ci limiteremo ad individuare e a studiare sei posizioni, da noi ritenute tipiche e in qualche modo riaffioranti nelle numerose indagini teologiche sul nostro tema. Non pretendiamo così di esaurire lo status questionis del problema, ma unicamente di offrire dei modelli di riferimento ermeneutico molto rilevanti, nel Concilio e dopo, in modo da poter anche derivare degli elementi-chiave per una nostra riflessione finale. Abbiamo scelto sei posizioni teologiche, in modo che si veda, da un lato l’apporto dei teologi-periti, dall’altro la recezione del dato conciliare.

1. Card. Pietro Parente (1891-1986): il Concilio per una Weltanschauung cristiana

In una conferenza tenuta nel 1961 sull’imminente Concilio Ecumenico, Mons. Parente, allora assessore della S. Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, tratteggiò gli auspici del Santo Padre Giovanni XXIII, auspici volti a far risplendere di nuova bellezza il volto della Chiesa e più che di un punto o dell’altro della dottrina e della disciplina, trattavasi di ridare valore e sostanza al vivere umano e cristiano (Disc. 14 nov. 1960). Dopo aver tracciato una veloce panoramica sui 20 Concili Ecumenici precedenti, Mons. Parente si soffermò anche sulle finalità e le prospettive del prossimo Concilio,
«condizionate dalla profonda analisi della realtà del mondo moderno. Una guerra brutale e un dopoguerra snervante hanno seminato negli uomini scetticismo e disprezzo per ogni ideologia o istituzione del passato e un senso avventuroso di novità in tutti i settori dello scibile e della vita. In tal modo è scossa la fiducia nella Chiesa, nella verità, anche rivelata, nella legge morale, nella vecchia struttura sociale. Di questo stato d’animo in subbuglio si è avvantaggiata un’ideologia materialistica concretata in una struttura politico-sociale, in cui i valori spirituali sono sostituiti dalla tecnica […]».
Ad una Weltanschauung materialistica e ateistica, a giudizio di P. Parente, il Concilio avrebbe dovuto opporre una «Weltanschauung cristiana opposta a quella materialistica, perché l’umanità divisa e smarrita riprenda la via del suo vero progresso e del fine supremo, a cui l’ha destinata la Somma Sapienza e il Primo Amore».

In un altro saggio, a vent’anni dalla chiusura dell’assise conciliare, scriverà Parente:
«La causa determinante di un Concilio generalmente è una crisi o della Chiesa o del mondo o di ambedue. Il Vaticano II risponde alle esigenze di una crisi interna alla Chiesa e di una crisi del mondo moderno».
Il Cardinale Parente vede il Vaticano II come approfondimento teologico della dottrina cristiana, precisando che le distorsioni della dottrina del Concilio non sono del Concilio ma di una certa teologia nuova, i cui prodromi sono riconducibili agli anni ’40 del 1900.
Così affronta le dottrine conciliari, che si presterebbero all’equivoco, ma che ad un’interpretazione autentica, sia teologica che magisteriale, rientrano nel loro giusto ordine.

a. Il Vaticano II non avalla il cambiamento della sostanza dei dogmi

I documenti del Concilio non autorizzano e non portano in sé all’affermazione di uno sviluppo dogmatico inteso come mutazione sostanziale del dogma e della fede.
«Ora questa affermazione è arbitraria – dice Parente, in riferimento a questo problematica –, perché il Concilio riafferma tutto il contenuto essenziale della dottrina cristiana fondata sulla Rivelazione divina e maturata per secoli, sotto l’azione dei Padri e dei Teologi, sotto l’azione dello Spirito santo e il controllo vigile del Magistero della Chiesa».
L’identità e la perennità del sacro Deposito sono espresse chiaramente nella Dei Verbum (nn. 7-8). Qui si asserisce l’origine divina della Rivelazione la divina, l’ispirazione dei libri sacri, e la necessità di trasmetterla fedelmente. Il n. 8 di DV parla di un progresso della Rivelazione, richiamandosi a S. Vicenzo di Lerins, citato dal Vaticano I. Così dice DV 8:
«Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio».
Da queste parole, spiega Parente nessun lettore saggio e attento potrebbe ricavarne un’ammissione di una evoluzione intrinseca della verità rivelata e delle stesse formule dogmatiche. Eppure, scrive Parente,
«certi Teologi progressisti sostengono che il Vaticano II ha riabilitato l’evoluzione del domma, già condannato al tempo del Modernismo sotto Pio X. […] In conclusione possiamo affermare che le deviazioni post-conciliari sono abusi di lettori disattenti e poco leali, che cercano di giustificare con l’autorità del Concilio i loro errori e le loro incontrollate tendenze. Questo abuso di nota anche per altri punti del Concilio, che a prima vista colpiscono come assoluta novità in contrasto con la Tradizione; ma un’attenta riflessione rimette le cose a posto».
b. La singolarità della Religione cattolica
Anche su questo dato il Concilio presenta delle affermazioni che si prestano a discussioni, specialmente di fronte al carattere singolare della religione cattolica, di cui noi in ragione della Rivelazione divina riteniamo che sia l’unica religione salvifica,
«con diritto divino a guadagnare tutta l’umanità al Regno di Dio e al Vangelo che ne è il codice. Questo giusto sentimento determinò nel Medioevo linguaggio, uso e atteggiamenti, che oggi urtano le coscienze; si pensi alla frase “Cattolicesimo religione di Stato”, con la conseguenza che la Chiesa godeva di ogni privilegio, mentre le altre religioni erano “tollerate” senza facoltà di pubblica professione».
Parente, fa notare, che il soggetto della religione è l’uomo cosciente e libero, che ha diritto di pensare e di scegliere autonomamente il proprio credo, salvo il rispetto dell’ordine sociale e della pubblica moralità. Così il Concilio mette in evidenza un dato oggi irrinunciabile che è la libertà religiosa e la libertà di coscienza. «Gli abusi dell’Inquisizione non si possono giustificare solo col ricorso al diritto divino dell’unica Religione vera, senza considerare la psicologia umana, in cui domina la religione e la libertà».

c. La collegialità

Un altro dato, che al dire di Parente desta scandalo tra i conservatori, è la collegialità, la quale «sarebbe una novità disastrosa che colpisce il Primato del Romano Pontefice!». Invece Parente, che questo tema lo conosceva molto bene, in quanto anche relatore in sede di Commissione dottrinale risponde semplicemente col dire che essa nel suo senso più genuino fu voluta dallo stesso Cristo che fondò il Collegio apostolico con Pietro e gli altri apostoli come membri, i quali partecipano, subordinatamente a Pietro, tutta la Sacra Potestà di Cristo. Il Primato di Pietro non è un dispotismo ma un primato paterno d’amore e di realizzazione della comunione. Il Sacro Romano Impero con la figura di un Imperatore che impersonava tutto il potere del mondo occidentale influì certamente sulla Chiesa, creando una sorta di assolutismo del Romano Pontefice. Questa ecclesiologia, alquanto mortificata durò fino a Pio XII, che nella Mystici corporis, richiamava l’autentica natura della Chiesa e la sua compagine soprannaturale. Il Vaticano II, mentre confermò la dottrina del Vaticano I sull’infallibilità del Pontefice, ne ammorbidì l’assolutismo – per una ragione teologica – facendo luce sulla dottrina della collegialità, richiamando direttamente il concetto di gerarchia intesa come principio sacro della comunione ecclesiale di tutto il popolo di Dio. In questo modo il Concilio favorisce anche l’approfondimento teologico del ruolo dei laici nella Chiesa e la loro partecipazione liturgico-sacramentale alla vita e alla missione della Chiesa, in ragione del loro sacerdozio comune. Così il Vaticano II, richiamandosi direttamente all’esempio di Cristo, mette in luce il concetto di servizio dell’Autorità per edificare la comunione di tutte le membra.

d. Ecumenismo e missionarietà
Il Concilio sul piano ecumenico e missionario tiene ferma la dottrina dell’unicità della Chiesa di Cristo che è la Chiesa Cattolica. Al contempo, però, richiama la necessità di non condannare e rigettare i fratelli da essa separati ma ad instaurare un dialogo con loro al fine di edificare l’unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa. I separati appartengono a Cristo, sono anch’essi sue membra (anche se non in modo pieno).
«Pertanto non solo la S. Sede, ma ogni Chiesa particolare, ogni cristiano deve sentire il dovere, anzi il bisogno, di partecipare al movimento ecumenico e missionario per guadagnare tutti alla vera Fede e al Cuore di Cristo».
Il Concilio voleva essere una fucina di responsabilità missionaria per i fratelli da salvare. Un gesto divino per una Chiesa più viva e più consapevole della sua missione unica e santificatrice per realizzare nel mondo il Regno di Dio

2. Karl Rahner (1904-1984): il Concilio, «l’inizio dell’inizio»
K. Rahner fu un teologo molto influente in tutto il ‘900 teologico ed ebbe un ruolo di grande importanza nel Concilio. Prima, nel 1961, fu nominato solo consultore della Commissione della disciplina e dei sacramenti, poi durante il Concilio fu perito e teologo del Card. König.
Nella conferenza di Rahner tenuta in occasione della solenne cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II nell’Herkules-Saal a Monaco di Baviera (12 dicembre 1965), Rahner anzitutto esalta il ruolo del «consiglio episcopale» e dice:
«è […] difficile prevedere se oggi il principio sinodale-collegiale della Chiesa assumerà anche in futuro esattamente la figura concreta di questo o di precedenti concili, trovando in essa la sua efficace realizzazione, o se invece il consiglio episcopale di recente istituzione riuscirà, qualora non si limiti ad un’azione puramente consultiva, a fare proprie le funzioni e le forme, tanto complesse da non essere quasi ormai più tecnicamente controllabili, dei concili del passato, diventando, nella sua essenza teologica, un vero e proprio concilio, tenuto anzi con frequenza maggiore».
Così Rahner chiarisce anche il suo pensiero teologico del Concilio in relazione alla fede:
«Fu un concilio tenuto nella libertà e nell’amore. Certo in quella libertà che in tutti i Padri si sapeva legata all’inviolabile credo a Dio, a Cristo, alla sua grazia e con ciò ai dogmi che la Chiesa ha fino ad oggi proclamati perennemente validi e, nello stesso tempo, storicamente evolventisi nella concezione della fede. Fu però un concilio nella libertà».
Libertà è per Rahner la capacità che il Concilio ha dato a tutti di sostenere la propria tesi e di arrivare così all’unità (ai consensi) ma nel rispetto della libertà, e tutto questo considerando il Concilio «alla luce della storia dello spirito». Infatti,
«Dappertutto, persino nel campo della teologia, si può ai giorni nostri avere la deprimente impressione che la libertà non abbia la sufficiente consistenza e che ogni opera grande di pensiero e di azione si debba conquistare con la forza».
Rahner riconosce che il primato della libertà teologica dovette trionfare sulle scelte già determinate e sugli stessi schemi e risultati delle commissioni preparatorie. Si volle un concilio ecumenico che Rahner definisce «della liturgia e delle missioni».I temi che stavano più a cuore al Concilio, dopo un’attenta cernita, sono elencati dal Nostro in questo modo:
«[…] il principio sinodale della Chiesa, l’importanza dell’elemento carismatico in essa, la comunità locale come Chiesa, la possibilità di salvezza dei non cristiani, la “gerarchia” di importanza anche tra le verità definite, la Scrittura al cui servizio stanno la Chiesa e il suo magistero, il sacerdozio universale, il pluralismo delle varie teologie con pari diritto all’interno dell’unica Chiesa, la personale libertà di fede, l’importanza e l’esistenza di una teologia storico-critica, la infondatezza di una teoria secondo la quale esisterebbero nella Chiesa una morale ed una santità di pregio diverso collocate su due piani differenti, il rilievo dato al servizio di Dio nella parola, ecc.».
Ciò che ha fatto il Concilio rimane per Rahner solo «l’inizio dell’inizio». Questo inizio dell’inizio, che è letto da Rahner anche come «nuovo cominciamento» della Chiesa, è inteso da Rahner in questo modo:
«che Cristo e la Chiesa incontrino veramente il tempo di oggi e di domani. Dunque inizio dell’inizio per una Chiesa della grazia di Dio liberamente concessa, per una Chiesa del nostro Signore e Salvatore, del Verbo di Dio, della fratellanza, della speranza, della carità umile […]».
Resta tutto da fare in una Chiesa che col Concilio ha voluto dare un nuovo inizio. Resta da trasformare in forma concreta le direttive sulla liturgia, da istituire i diaconi permanenti, da riformare il Codice di Diritto Canonico, iniziare il dialogo ecumenico con coraggio e speranza, il dialogo con l’ateismo e con il bisogno impellente di fede nel mondo di oggi, ecc. C’è bisogno, però, più d’ogni altra cosa di «una teologia degna del Vaticano II e degli impegni da esso indicati», affinché diventi più dinamica e più acuta per penetrare le profondità di Dio e del tempo. Rahner così si fa promotore anche delle nuove esigenze che attenderanno al teologia post-conciliare:
«[…] parlare di Dio e del suo essere al centro dell’esistenza umana con parole realmente comprensibili agli uomini di oggi e di domani; annunciare Cristo nella visione evolutiva che si ha oggi del mondo, di modo che la parola dell’uomo-Dio, dell’incarnazione del Logos eterno in Gesù di Nazareth, non risuoni come un mito al quale non è più possibile prestare seriamente fede; determinare il rapporto tra i progetti e le ideologie dell’uomo circa il suo futuro e l’escatologia cristiana; impedire, nell’eschaton della redenzione già avvenuta, che l’uomo ricada nella condizione interiore di colui che era vissuto nell’AT, nel continuo timore cioè di restare, dopo la morte, lontano dal Dio della vita; capire come l’amore a Dio e al prossimo formino sempre, ma presto anche in maniera affatto nuova, una assoluta unità […]».
Pertanto anche i compiti che attendono la Chiesa sono diversi. Il prossimo futuro, infatti,
«non domanderà alla Chiesa la precisione particolareggiata dei suoi ordinamenti costituzionali, la strutturazione più attraente della liturgia, nemmeno, in primo luogo, dottrine di più precisa distinzione nella teologia della controversia di fronte alla dottrina dei non-cattolici, né un governo più o meno perfetto della curia romana. Il prossimo futuro domanderà invece se la Chiesa è in grado di testimoniare la vicinanza, che guida e appaga, di quel mistero ineffabile al quale diamo il nome di Dio […]».
Sempre alla luce di questa libertà che è come il cuore della teologia di Rahner, bisogna leggere la sua riformulazione della teologia pastorale, intesa come teologia della prassi, teologia anche politica e perciò «principio organizzativo intrinseco ed estrinseco di tutta la teologia». La pastorale in quanto scienza della ragion pratica, ovvero della libertà, ha una priorità rispetto al dogma. Scrive Rahner:
«Se si riconosce alla ragione pratica (ragione non emozionalità o arbitrio, al quale viene dato il nome di libertà!) una priorità, per il fatto che essa è la sussistenza riflessa di quell’azione che significa salvezza e che si concepisce solo e totalmente in se stessa, non in base a qualcos’altro, allora si può conferire alla T.P., intesa come la rappresentante dell’autoriflessione di questa ragion pratica nella chiesa, una priorità nella teologia globale. Questo non dovrebbe in sé meravigliare. Si dovrà pur riconoscere all’amore libero (e alla speranza) una certa proprietà nei confronti della fede dogmatica».

3. René Laurentin: un Concilio tra limiti, ambiguità e speranze
Un altro testimone scelto per verificare l’impatto del Vaticano II negli immediati anni post-conciliari, è il mariologo francese R. Laurentin, prima membro della Commissione preparatoria del Concilio e poi perito dei lavori conciliari. Un anno dopo la chiusura del Concilio, Laurentin traccia un bilancio dell’eredità pastorale e dottrinale lasciata ai posteri dal Concilio. Questi, nota un paradosso:
«Il Vaticano II, Concilio pastorale, è diventato paradossalmente il Concilio di un rinnovamento dottrinale. I teologi vi hanno trovato un’udienza senza precedenti. “Concilio degli esperti si è detto fin dalla prima sessione, con una nota critica giustificata per ciò che c’era di eccessivo: ma il fatto aveva una sua giustificazione».
La giustificazione ravvisata da Laurentin, in una necessaria revisione della teologia e in un suo aggiornamento, si amplia nel suo bilancio, fino a mettere in evidenza, i limiti del Concilio, i silenzi e le indecisioni, le incompletezze e le ambiguità e finalmente i compiti che spettano alla Chiesa post-conciliare. Tra i limiti, Laurentin ravvisa soprattutto le mancate decisioni in materie scottanti come:

1) i matrimoni misti: ....
2) La regolamentazione delle nascite, ...
3) Il problema del celibato dei sacerdoti, .....
[...]

Di qui Laurentin arriva al dato più scottante, con parresia e parole chiare, delle «incompletezze e ambiguità» di alcuni documenti conciliari. Quest’ambiguità è al dire di Laurentin, «quella della vita in via di sviluppo» che però «non toccano il Concilio ma costituiscono un rischio per molti cristiani»
Tra queste bisogna annoverare:
1) l’ambiguità dell’ecumenismo segnalata anche da O. Cullmann: «Quando ritorneremo nelle nostre file, dovremo combattere, soprattutto tra i laici la falsa sentimentalità ecumenica». Per Laurentin questa ambiguità non è del Vaticano II ma è «uno dei rischi della sua rapida espansione post-conciliare. Bisogna anche mettere sull’avviso contro un trionfalismo ecumenico […]
2) Un’altra ambiguità è l’aggiornamento, anche denunciato da Cullmann. Alcuni, infatti, lo leggono come adattamento al mondo moderno, mentre il Concilio vuole rischiarare l’attività umana con la luce del Vangelo. I rischi, afferma il Nostro, «sono legati all’ambiguità del termine “mondo”, che ha formato oggetto di esame da parte del Concilio».
3) Oltre a queste due, c’è n’è un’altra«che ha toccato il Concilio stesso: quella legata al termine “pastorale”». Riportiamo una citazione più lunga, per lasciare a Laurentin descrivere questo punto, che anche a nostro giudizio, riveste un nodo storico e teologico molto serio:
«Questo aggettivo (pastorale) lanciato da Giovanni XXIII ebbe fortuna. Esso risponde indubbiamente ad un’intuizione profonda: il bisogno di restaurare il legame tra vita e verità, tra dottrina e salvezza. Il suo uso però restò vago e prammatico nel corso della prima sessione. Ma con la seconda sessione alcuni caddero nell’errore di considerare il termine “pastorale” come contrario a “dottrinale”; così la “collegialità” gerarchica e l’amore matrimoniale appartenevano al campo “pastorale”, non a quello “dottrinale”. Si voleva trovare in tal modo una via di soluzione alle opposte tendenze: il campo pastorale sfuggiva all’esigenza di rigore proprio della dottrina: sarebbero bastati termini e parole approssimative. Fin dall’inizio della sessione il cardinale Silva si meravigliò che tale principio avesse trovato posto perfino nella spiegazione ufficiale degli emendamenti dello Schema 13. La rottura tra teologia e vita fu una delle deficienze più gravi di questi ultimi secoli. Sarebbe illusione voler rimediare a questo fatto, creando un tipo di vita zeppo di dottrina: illusione più dannosa della prima».
A parere di Laurentin, il Vaticano II è posto tra Scilla e Cariddi: tra il timore di affrontare i problemi e gli abusi della libertà; la libertà di ricerca proclamata dal Concilio ha sempre con sé i suoi rischi. Si è parlato molto delle vessazioni subite da teologi progressisti, meno invece si è parlato del proliferare di cripto-eresie di destra e di sinistra, come i funghi che si scoprono a volte nelle parti più oscure. Infatti, «se le restrizioni e le chiusure suscitano segrete rivolte, anche la libertà mal compresa può sprigionare forze negative: la superficialità, l’eresia, lo scandalo». Pertanto, dice Laurentin, «il Vaticano II, che è un concilio di ritorno alle fonti, deve conservare il contatto con tutta la Tradizione». Ci sono degli aggiornamenti, certo, ma sono stati letti e fatti alla luce dell’apertura a Dio e del desiderio di arrivare al mondo, prendendo atto dei mutamenti così accelerati che lo segnavano. La Chiesa ha riconosciuto l’autonomia dei valori terrestri e l’autenticità del progresso umano. Così, «il Vaticano II, senza abbandonare l’esigenza di assoluto che ispirava il Sillabo, ne ha superato lo spirito di sfiducia e la rigidità».

Certo se dal Concilio la Chiesa è uscita perdendo un certo tipo di sicurezza, ha sviluppato il senso della ricerca, liberandosi anche dal verbalismo. Ha ritrovato il senso dell’essenziale, ovvero il disegno del Padre. Ha infine ritrovato posto il “grande sconosciuto”, lo Spirito Santo, che a dire di Laurentin, mentre era stato riconosciuto nei primi secoli per la sua preminenza nella Chiesa, aveva poi perso la sua importanza fino ad essere dimenticato. Il Vaticano II, «apparirà – a giudizio del mariologo francese –, davanti alla storia, come prima tappa della riscoperta dello Spirito Santo».

L’avvenire della Chiesa, dunque, dovrà essere segnato dalla messa in atto di queste iniziative pastorali-dogmatiche, in modo da avere realmente una Chiesa post-conciliare, di cui Laurentin disegna il modello, nel vescovo post-conciliare, il laico, il sacerdote, e infine la teologia post-conciliare, ancora ai primi balbetti ma promettente data la mole di rinnovamento proposta dal Concilio. Così il Concilio deve essere come una “creazione continuata”, cercando di stabilire con UR 12 quell’ordine o gerarchia delle verità in ragione al loro rapporto col fondamento della fede e mettendo meglio in evidenza il suggerimento proposto inizialmente da Giovanni XXIII, di distinguere tra “sostanza” e “formulazione” della dottrina della fede, ma non trattato né dal Pontefice né dal Concilio. In chiusura, per il mariologo francese, tutto il Concilio è, per così dire, nel post-concilio.

4. Hans Küng: il Concilio via alla riunificazione

Küng rappresenta per i lavori conciliari e per la sua emblematica posizione di rottura, un autore molto interessante, la cui disamina mette in evidenza la portata di un’ermeneutica che, quando separata dal contesto vivente della Chiesa, ovvero isolata in un lavoro solitario del teologo, porta ad una necessaria rottura con il Soggetto-Chiesa. Küng ha ormai celebrato questa rottura con la Chiesa, in ragione, a suo modo di vedere, soprattutto dei tradimenti del Concilio da parte dello stesso Magistero.

Küng ebbe un ruolo molto importante al Concilio come perito e poi come teologo per l’applicazione del post-concilio. Uno dei temi da lui più approfonditi e visto come speranza per una vera unità della Chiesa con i protestanti è stato quello ecumenico. È interessante riportare la testimonianza del Card. W. Kasper, che fu suo assistente alla cattedra di teologia fondamentale:
«All’inizio c’erano molte cose che affascinavano di Hans Küng: il suo modo giovanile e fresco di porsi, la sua visione spontanea e non convenzionale della chiesa e anche molte idee riformatrici. Il suo libro Concilio e riunificazione, divenuto rapidamente un bestseller, dava espressione alle attese che molti riponevano nel Concilio; esso divenne anche una sorta di catalizzatore, sul quale molti spiriti si dividevano. Anche il mio maestro Geiselmann corrugava la fronte».
Un tema fontale ed imprescindibile per capire anche la posizione ecumenica molto speranzosa quanto frettolosa di Küng, è quello della Tradizione della Chiesa, nel contesto della discussione che fu affrontata nella Commissione dottrinale per la formazione dello Schema che porterà alla promulgazione poi della Dei Verbum, schema che aveva evitato di riproporre il problema della duplicità delle fonti della Rivelazione. Un autorevole studioso del problema, che le tesi di Küng presuppongono, è J. R. Geiselmann. Questi sosteneva, riprendendo il tema tridentino e l’accusa di Lutero alla Tradizione (accusa piuttosto al ministero nella Chiesa), che il Concilio Vaticano II abbandonò la tesi del partim (parte della rivelazione contenuta nelle Scritture e parte nella Tradizione) per accontentarsi della sua particella et. Da qui Geiselmann deriva che l’idea della duplicità delle fonti della Rivelazione fu abbandonata dal Vaticano II o per lo meno non espressamente definita. Così deriva la sua idea, secondo cui, in fondo anche un cattolico può approdare senza problemi alla concezione della sufficienza materiale della Scrittura (tutte le verità rivelate sono contenute nella Scrittura) e che sempre come cattolico si può sostenere che la Scrittura ci consegna in maniera sufficiente la Tradizione. In questo modo però scompare il concetto cattolico di Tradizione come canale della Rivelazione e conoscibilità della stessa insieme alla Scrittura. Si può subito immaginare l’esultanza e i consensi che una tale tesi riscontrò tra coloro che si affaticavano per un sereno dialogo col protestantesimo, offrendo possibilità del tutto nuove ad un nuovo incontro tra cattolici e cristiani evangelici in particolare. Tra i Padri conciliari si segnalò particolarmente il Card. Döpfner, che in Concilio disse che la Sacra Scrittura e la Sacra Teologia non erano da venerare con la medesima pietà.

Küng si era messo in questa scia; rinuncerà in modo sempre più marcato al concetto cattolico di Tradizione, considerando gli interventi della Chiesa semplicemente come un riflesso di un determinato momento storico, e così svuoterà dall’interno il contenuto normativo della Tradizione. Questo suo incedere teologico, inaugurerà un nuovo modo di prospettare il movimento ecumenico, quale chiamata all’unità: imperativo del Vaticano II.

Questo modo nuovo ad esempio si vede già nel suo libro – che al dire del Card. Kasper fu un vero bestseller in questo senso, che trascese di molto anche le aspettative di Geiselmann –, sul Concilio e l’unità (della Chiesa?): qui il rinnovamento del Concilio è visto come chiamata all’unità (sottotitolo suggeritogli da K. Barth). Küng si chiede: «Come possiamo incontrarci cattolici e protestanti»? E risponde indicando la via inaugurata da Giovanni XXIII, ovvero quella del «rinnovamento interno della Chiesa in vista del ritorno all’unità». Questo per Küng significa: «Non un semplice, inefficace richiamo a rientrare nell’unità della nostra Chiesa»; «Non semplicemente conversioni individuali»; «Non soltanto una riforma morale», perché la divisione della Chiesa non appartiene all’ordine dei vizi capitali e quindi ai vizi eterni dell’umanità, ma siccome è avvenuta storicamente «[…] può quindi – ben diversamente dai vizi capitali – aver fine con la grazia di Dio». Ecco dunque che per Küng il rinnovamento deve avvenire nella Chiesa cattolica, che partendo dalla sua essenza originaria (come diceva Barth), attui poi il vero spirito del Vangelo. E così sintetizza in modo emblematico il suo pensiero riguardante questo necessario rinnovamento:
«La protesta dei protestanti contro la Chiesa cattolica deve, nella misura in cui essa possa essere giustificata, poter perdere il suo oggetto, per opera della Chiesa cattolica stessa. La Chiesa cattolica, è vero, in quanto Chiesa di uomini e di uomini peccatori, rimane sino alla fine dei tempi Ecclesia reformanda».
Così Küng in definitiva vede il suo programma di rinnovamento: la Riforma protestante è quella giusta ed umana aspirazione alla riforma, che dà alla Chiesa cattolica il modello di un vero ritorno al Vangelo, e noi cattolici ritornando al Vangelo, in questa logica storico/storicista della riforma, ritorniamo all’unità con i protestanti. Ma si potrebbe chiedere: un’unità dove? In quale Chiesa? Di quale unità, in fondo, Küng sta parlando? Col passare degli anni, però, dagli osanna entusiasti a Giovanni XXIII, come traspare nella prefazione di questo libro, che lo animava a galoppare l’onda del rinnovamento conciliare e del nuovo ecumenismo,, passerà ad una contestazione qualificata del Magistero, e accuserà la Chiesa di aver tradito il Concilio.

5. Card. Leo Scheffczyk (1920-2005): aspetti della Chiesa nella crisi
Leo Scheffczyk, dogmatico tedesco, amico e collega di J. Ratzinger, elevato alla porpora cardinalizia per i meriti teologici, è un testimone della teologia di non poco conto, in ragione – come gli riconosce J. Ratzinger nella presentazione alla sua opera italiana che esamineremo –, della «sua conoscenza straordinaria delle fonti, del suo sguardo acuto per i problemi e i compiti del presente, come anche della sua profonda fedeltà, radicata nella fede, al Magistero».
Per Scheffczyk il problema della crisi post-conciliare è riconducibile ad una crisi ecclesiologica, ovvero ad una ricerca sulla “Chiesa” ritenuta per diverse ragioni già esaurita, in un’epoca di forte irrazionalismo del post-moderno che contiene in sé gli elementi del post-cristiano. Così,
«ignorando questa situazione – scrive – e considerando la fraternizzazione avventata e non critica del cristianesimo con lo spirito del tempo, è facile prevedere che anche all’interno della chiesa si introducano le tendenze dell’irrazionalismo postmoderno, quali una religiosità vaga e una presunzione gnostica, coinvolgendola così nell’intreccio della “lieve cospirazione”».
Queste riflessioni sono formulate dall’autore,
«nel bel mezzo di un fermento rivoluzionario, alla comprensione di ciò che nella chiesa è permanente […]. Il possibile rischio è che in un prossimo futuro possano ritornare attuali le tragiche parole dell’epoca dei disordini ariani: “Geme l’orbe terrestre e si meraviglia di essere divenuto ariano”. Tutti i cristiani veramente preoccupati per la Chiesa dovrebbero trovare nel Concilio Vaticano II un punto d’incontro».
Scheffczyk, nel suo saggio sugli Aspetti della Chiesa nella crisi. Per la scelta di un Concilio autentico, come suonerebbe una traduzione più letterale del suo volume sugli aspetti della crisi post-conciliare, si concentra sul tema “Chiesa”, tratteggiando una teologia rinnovata alla luce del Vaticano II ma senza tradire o adulterare il dato dogmatico acquisito dalla Tradizione e dalla precedente riflessione teologica. La crisi è per Scheffczyk una crisi della Chiesa in quanto mistero. Può sembrare strano, dato l’accento ecclesiologico posto nello sviluppo post-conciliare, eppure il vero nodo teologico è riconducibile, per il nostro cardinale, allo smarrimento di un concetto metafisico di partecipazione del mistero-Chiesa. Le passioni antiecclesiali della fine dell’‘800 e del ‘900, provocate in gran parte dal protestantesimo liberale, quali le rivendicazioni di democratizzazione, di abbandono dell’autorità, di libertà dai dogmi, di liberalità e di parità – quasi tutte accolte dalla Chiesa evangelica – continuano a sfidare il concetto cattolico di Chiesa. Per il protestantesimo un dato è certo, dice il Nostro: «Si può reagire alla crisi non con cambiamenti esteriori, bensì solo attraverso un mutamento interiore del nucleo di fede». E così i dissidi interni al protestantesimo e il calo esteriore sono molto più estesi e perniciosi di quelli presenti nella Chiesa cattolica. In ambito cattolico, invece, dice Scheffczyk ,
«la vera cesura nello sviluppo della coscienza della chiesa ha avuto luogo dopo il Concilio Vaticano II, alle cui legittime aspirazioni di riforma si sovrapposero tendenze di una ristrutturazione pensata in altri termini. Esse si ripercuotono oggi sia nell’ambito evangelico che in quello cattolico e si rendono visibili in primo luogo negli aspetti esteriori».
Un dato però è certo: la dottrina ecclesiologica del Vaticano II è da leggersi come progresso e continuità. La Lumen gentium designa la Chiesa come mysterium, ricollegandosi così chiaramente alla Tradizione. La Chiesa è mistero del Dio Unitrino, diventando in Lui segno della vita divina tra gli uomini. Di qui si passa ad un’altra definizione della Chiesa: «La Chiesa è sacramento, definizione questa ancorata alla Tradizione, ma trasportata qui in una nuova dimensione». Lumen gentium 1 dice che la Chiesa è «in Cristo come il sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Questa formula, fa notare Scheffczyk, con la quale la Chiesa è designata come «l’indissolubile sacramento dell’unità» è presente già in Cipriano di Cartagine († 258), secondo il quale la formula è da riferirsi
«all’unità interna della chiesa e significa soprattutto l’unità con il legittimo vescovo. Per questo coloro che non sono inclusi in questa unità sono “al di fuori della Chiesa”. Rivolgendosi agli eretici, Cipriano sottolinea in questo contesto che l’unità con la chiesa è necessaria per la salvezza delle anime».
Così Scheffczyk, fa notare che, nonostante il Concilio non citi la formula classica di Cipriano «al di fuori della Chiesa non c’è salvezza», tuttavia permane nel Vaticano II la stessa immagine di Chiesa, in cui si evidenziano i tratti sacramentali dell’unicità, della necessità di salvezza e della pienezza di salvezza in Cristo e nello Spirito Santo. Questa è «l’unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica» (LG 8).

Questo concetto di Chiesa-sacramento permette al Concilio di passare adagio dal sacramento Cristo al sacramento Chiesa, la cui radice cristologica più profonda è
«l’immagine del corpo di Cristo. […] Pio XII riconobbe in esso la “definizione più significativa e più divina della sostanza della Chiesa”. Anche il Concilio Vaticano II tiene in grande stima questa immagine, quando considera la chiesa “per una non debole analogia… paragonata al mistero del Verbo incarnato” (LG 8)».
In questo modo il Concilio non porta nessuna innovazione formale nel pensiero ecclesiale. Ha dato solo ad un’idea biblica e fondata nella Tradizione, un ulteriore riconoscimento. Infatti già il Vaticano I aveva definito la Chiesa come «il segno innalzato tra i popoli», facendo riferimento ad Is 11,12. Quindi «riconoscendo alla chiesa questo suo carattere di segno si garantisce la diversità tra Cristo e la chiesa e si riconosce quest’ultima come realtà che esiste a partire dalla sua relazione con Cristo». La Chiesa è «di fronte» a Cristo e non si identifica con Lui. Il rapporto giusto Cristo-Chiesa è fondamentale per capire anche la portata salvifica di Cristo nella Chiesa e sempre attraverso la Chiesa. Cristo ha fondato la sua Chiesa e la conserva nell’essere. È presente nella sua Chiesa ma la sua presenza non «si esaurisce nella Chiesa, ma resta al di sopra: Cristo abita nella chiesa e ne è superiore allo stesso tempo; la Chiesa è compresa da Cristo, mentre essa non lo può contenere in modo completo». In questo senso la Chiesa è sempre strumento e organo di Cristo.

Accanto al concetto di «sacramento», il Concilio utilizza anche il concetto di «popolo» per designare la Chiesa. Questa immagine profondamente biblica, esprime il dato secondo cui la Chiesa è una comunione vivente di fratelli e sorelle esprimendo la sua natura comunionale, dinamica e storica. Certamente la missione di questo popolo di Dio non è di ordine politico o sociale, ma dice Gaudium et spes 42 «il fine […] che le ha prefisso (Cristo) è di ordine religioso». Non sono mancate però le interpretazioni politiche e sociali di questo lemma Chiesa-popolo. Principiando dall’odierno concetto di popolo come emerso dal Romanticismo, lo si è collegato allo spirito del popolo, alla sovranità popolare, al popolo come forza primitiva che determina il diritto e gli usi. Così qualcuno ha gridato: «noi siamo il popolo», «wir sind die Kirche». Ma, nota Scheffczyk,
«il Concilio non offre alcun fondamento a questa interpretazione, poiché esso comprende nell’immagine del popolo la comunità sacramentale del “corpo di Cristo”, che è composto non solo di “popolo”, bensì di un capo e di un organismo sacramentale composto di membra. Nel frattempo, nell’era postconciliare, in cui si vorrebbe proseguire il concilio solo secondo il suo “spirito”, senza attenersi al senso e al contenuto espressi da esso, il concetto di “Popolo di Dio” è stato ripetutamente mal compreso e interpretato secondo un modello democratico».
Un altro concetto centrale dell’ecclesiologia conciliare è il concetto di communio, purtroppo anch’esso divenuto equivoco e contraddittorio nel post-concilio. Questo non svaluta però il suo retto significato attribuitogli dal Vaticano II, secondo il quale, «sono incorporati veramente nella società della Chiesa coloro che… sono congiunti a Cristo mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione» (LG 14). Qui la comunione è nel suo insieme trinitaria e gerarchica (ha cioè un’origine sacra) e perciò è una comunione gerarchica o una gerarchia per la comunione della Chiesa.

Infine, Leo Scheffczyk, appura la continuità della Tradizione in altri due dati dell’ecclesiologia conciliare: il fatto che la Chiesa Cattolica sia l’unica Chiesa di Cristo e il fatto che fuori della Chiesa non c’è salvezza. Si tratta di due problemi diversi, uno ecumenico e l’altro riguardante il dialogo interreligioso.

Il Vaticano II non parla mai di una restaurazione dell’unità della Chiesa, ma solo dei cristiani. Se si dovesse restaurare l’unità della Chiesa in sé, significherebbe che Cristo ha ritirato, per così dire, da essa la sua incarnazione e smentirebbe la sua promessa di restare in essa fino alla fine dei tempi. Il problema più delicato che è stato posto è come mai il Concilio per designare l’unica vera Chiesa si sia richiamato al concetto di sussistenza: la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica (cf. LG 8) e non che essa è la Chiesa cattolica. Qui si vede l’apertura teologica al concetto di ecumenismo e si vuole radicarlo in una teologia degli elementa Ecclesiae. Ci sono certamente elementi ecclesiali presenti anche in altre comunità cristiane o Chiesa particolari separate da Roma, ma dice Scheffczyk,
«“ecclesialità” non è ancora “chiesa”, come (per fare un esempio) le caratteristiche e le connotazioni particolari di un popolo non formano ancora uno Stato, anche se per uno Stato esse rivestono un grande significato».
È da pensare, perciò, in modo corretto l’unità e la molteplicità, il mistero della Chiesa universale (precedente in modo ontologico e cronologico) e quello delle Chiese particolari. L’unità della Chiesa precede la molteplicità: è la sua misura e il suo scopo. La molteplicità, infatti, «non coinvolge l’essenza, bensì le modalità esteriori; non la sostanza, bensì la forma, non la verità bensì la sua espressione (come la teologia e la devozione) […]».

L’altro dato importante, ma anch’esso fortemente e volutamente frainteso è il dialogo interreligioso e la salvezza dei non cristiani che non può realizzarsi se non nella Chiesa e mediante la Chiesa. Anzitutto Scheffczyk appura che la dottrina del Concilio non rinnega l’assioma classico di origine patristica secondo cui «al di fuori della Chiesa non vi è salvezza», che del resto è comprensibile solo a partire dalle condizioni storiche del periodo in cui ha avuto origine. Sin da Origine e Cipriano, fa notare Scheffczyk, era diretto contro le divisioni e le lacerazioni della Chiesa e si voleva contestare alle Chiese particolari il diritto di presentarsi come organizzazioni salvifiche accanto all’unica vera Chiesa. Però, dice il Nostro,
«persino nei Padri della chiesa, giudici rigorosi, che sostennero questo principio non mancano accenni ai “santi nascosti” del paganesimo e alle possibilità di salvezza dei non cristiani, poiché la grazia viene offerta ad ogni uomo e ogni uomo di buona volontà può riconoscerla».
Anche un altro dato è da tener ben presente: il fatto che la Chiesa abbia condannato la frase giansenistica secondo cui «fuori della Chiesa non c’è grazia». Quindi dice Scheffczyk,
«la chiesa […] anche ripetendo fino a ieri il principio tradizionale, non contesta in alcun modo la possibilità di salvezza per coloro che ne sono al di fuori, così come essa, d’altro canto (è importante osservare questo), non garantisce al singolo cristiano la salvezza sulla base della sua appartenenza alla chiesa».
Pertanto non è il Concilio ad avallare le nuove interpretazioni secondo cui tutte le religioni, essendo fatti obiettivi, sarebbero vie di salvezza e basterebbe che ognuno si sforzasse di essere ciò che è: un bravo musulmano, un bravo induista, ecc. Ad esempio Küng, vuole che le religioni si impegnino «alla ricerca comune della verità». è vero che il Concilio,
«non chiarisce le difficili questioni riguardanti il rapporto del cristianesimo con le altre religioni. Ma vi è una decisione fondamentale le cui conseguenze è bene osservare. […] con l’avvenimento di Cristo è oggettivamente successo qualcosa (comprensibile solo nella fede del cristiano), che equivale a una critica fondamentale, ad un aumento e (sia in senso negativo che positivo) a un’“abolizione” delle religioni nella pienezza di Cristo» E poiché i raggi di verità presenti in qualche modo nelle religioni, «sono ora raccolti nella chiesa donata da Cristo, l’azione del donare la grazia al di fuori della chiesa non avviene senza la chiesa e neppure al di fuori di essa. La chiesa rimane il sacramento universale di salvezza dal quale proviene la grazia e verso cui la grazia si dirige».
6. La Scuola bolognese: il Concilio come “evento storico”

Un grande ruolo nell’ermeneutica e nella recezione del Concilio ha svolto la Scuola di Bologna, fondata da G. Dossetti con la creazione di un Istituto di Scienze Religiose, guidato da G. Alberigo, direttore della poderosa Storia del Concilio Vaticano II, raccolta in 5 volumi. Opera di respiro internazionale, i cui criteri ermeneutici del Concilio sono riconducibili anzitutto alla storicità stessa del Concilio, categoria che permette di vedere il Vaticano II come “evento” con una grande partecipazione e amplificazione mass-mediatica. Dalla storicità si coglie bene poi l’impronta pastorale-ecumenica fontale dell’evento conciliare e questo permette in definitiva di esaminare in maniera trasversale, con una notevole opera di cesello, anche gli aspetti più reconditi del Concilio. Questi aspetti non si esauriscono nella celebrazione dell’evento in quanto tale, ma in ragione di uno spirito, il Concilio si può leggere come una legge della “conciliarità” – tema dominante nella lettura bolognese dell’ermeneutica conciliare – sempre presente, in modo che il Vaticano II sia anche in futuro quello che voleva essere nel passato. Questo ad esempio lo vediamo nella disamina storica che fa Alberigo a quarant’anni dalla celebrazione del Vaticano II e al termine della pubblicazione dei 5 volumi della storia del Vaticano II. Scrive Alberigo: «La storicizzazione del Vaticano II apre la possibilità di una “svolta ermeneutica”». Alberigo, nota anche che «non è improprio ritenere i movimenti della prima metà del XX secolo (liturgico, ecumenico, biblico, per la promozione del laicato) un autentico “preconcilio”. Come all’opposto, ha avuto effetti “ritardanti” la diffidenza post-modernista nei confronti della ricerca teologica».

Comunque la lettura del Vaticano II come evento è necessaria per superare il momento problematico della celebrazione dell’evento e della sua recezione, della diatriba tra dottrina e pastorale. Scrive sempre Alberigo nell’introduzione al primo volume della Storia del Vaticano II:
«Attardarsi in una visione del concilio come la somma di centinaia di pagine di conclusioni – frequentemente prolisse, talora caduche – ha sinora frenato la percezione del suo significato più fecondo di impulso alla comunità dei credenti a accettare il confronto inquietante con la Parola di Dio e con il mistero della storia degli uomini… È sempre più attuale riconoscere la priorità dell’evento conciliare anche rispetto alle sue decisioni, che non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso. La carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con l’Evangelo, l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini, che hanno caratterizzato il Vaticano II, non sono aspetti folkloristici o comunque marginali e transeunti. Al contrario, questo è lo spirito dell’evento conciliare, al quale la sana e corretta ermeneutica delle sue decisioni non può che fare riferimento».
Il post-concilio deve essere il momento della storicizzazione del Concilio, la quale si risolve operando appunto «una storicizzazione del Vaticano II non per allontanarlo, relegandolo nel passato, ma per agevolare il superamento della fase controversistica della sua recezione da parte delle Chiese». Ciò sarà possibile solo nella misura in cui si farà affiorare «lo spirito e la dialettica che hanno caratterizzato l’assemblea». Questa disamina, al dire di Alberigo, è interessante perché fa emergere «un gap, tra l’evento conciliare come fatto collettivo e le decisioni finali dall’assemblea». Questo ancora una volta sottolinea che «l’evento conciliare sia irriducibile al corpus, pure molto ampio delle decisioni: la collegialità conciliare ha avuto una densità molto maggiore di quella enunciata in Lumen gentium. Le costituzioni e i decreti non rispecchiano tutte le virtualità che si sono espresse durante la vita del Concilio». Così si apre la possibilità di una ricerca trasversale che porti
«alla luce la presenza ricorrente e spesso determinante dei fattori cruciali dello spirito conciliare: il rinnovamento liturgico ed ecclesiologico, al di là dei limiti delle due costituzioni corrispondenti; l’ansia ecumenica, più ricca ed articolata di quanto non dica il decreto Unitatis redintegratio; la riscoperta della Parola di Dio, che non emerge solo da Dei Verbum; l’irrinunciabilità della libertà religiosa, che i padri conciliari hanno progressivamente acquisito, anzitutto come dimensione del loro statuto cristiano».
Per la Scuola bolognese, il criterio della pastoralità del Concilio è indispensabile per distinguere un livello delle forme contingenti e storiche e un livello dei principi di fede, senza tuttavia che i due livelli appaiano in discontinuità tra loro, per il fatto che il lavoro del teologo e del magistero prende l’avvio da quello dello storico e l’apparente storicità contingente delle forme pastorali, sarebbe suffragata da un lato dalla gerarchia delle verità di UR 11 e dall’altro da un nucleo dottrinale che nel suo interno rimane comunque lo stesso pur nel divenire frammentario. La fede qui è subordinata alla storia; altrettanto le dichiarazioni del magistero, ormai non più proponibili come condanne ma, le stesse condanne di prima, superabili in ragione della loro storicità e della nuova pastoralità.

Pastoralità, poi, è in un certo modo, sinonimo di ecumenicità. Infatti, a dire di C. Theobald,
«i rappresentanti del segretariato per l’unità, il card. Bea, mons. Smedt e mons. Volk, che la momento cristallizzano l’opinione di tutti coloro che si oppongono agli schemi preparatori, colgono il legame interno tra la forma pastorale e la forma ecumenica dei documenti conciliari da comporre».
La visione pastorale della Scuola bolognese che riesce a saldare in unità l’evento con la dottrina, ovvero il dato di fede con la sua comunicabilità è riconducibile, crediamo, a questa espressione di Theobald:
«[…] si tratta veramente, nel rapporto tra tradizione e Scrittura, di un problema di verità o di punti contenuti nel “deposito”? La dottrina non è piuttosto un modo di porre, in contesti diversi, delle condizioni perché all’interno della tradizione stessa l’evento cherigmatico o pastorale possa avvenire realmente e in tutte le sue dimensioni? È sicuramente a questo che aveva mirato Giovanni XXIII parlando della “forma pastorale della dottrina o del magistero”».
Sul versante della storicità del Vaticano II si colloca anche B. Forte. Questi definisce il Vaticano II «il Concilio della storia», nel senso che,
«il Vaticano II ha avviato una “storia del Concilio”, un itinerario di ricezione attraverso il quale la promessa risuonata nell’evento conciliare potesse prender corpo nella vita degli uomini».
In questo modo il Vaticano II assume la «storia nell’autocoscienza della fede», mettendola in rapporto alla verità. Il documento più importante del Vaticano II è per Forte la Dei Verbum,
«il più incisivo contributo che la riflessione magisteriale abbia dato al problema della mediazione storica della rivelazione. Il superamento della dottrina delle due fonti, Scrittura e Tradizione, in quella dell’unica traditio Verbi ex fide in fidem, che ha il suo momento normativo nella parola registrata nel testo sacro, ma che vive in permanente novità di racconto e di interpretazione sotto l’azione dello Spirito Santo nel tempo…».
Sulla linea della pastoralità intesa come storicità, si colloca pure il vescovo testimone del Concilio, uno di più giovani partecipanti al Vaticano II, L. Bettazzi. Proprio in ragione della pastoralità del Concilio, si può superare, in qualche modo, quella discontinuità provocata, invece, dai precedenti concili in quanto dogmatici. Il Vaticano II sarebbe sempre attuale/storico perché pastorale.

Rilievi conclusivi

A questo punto del nostro itinerario teologico, che ci ha portato a verificare alcune posizioni sul Concilio Vaticano II, da noi scelte perché ritenute alquanto esemplari, possiamo ora ricavare dallo studio d’insieme del problema alcuni elementi-chiave. Questi elementi, a nostro giudizio, sottolineano, da un lato la complessità del dato teologico che si presenta nel suo insieme quale “Concilio Vaticano II”, dall’altro, riescono a far emergere i nodi delle problematiche che via via si sono presentate, riassumibili in tre posizioni: 1) Il Vaticano II è intrinsecamente compromesso? 2) Il Vaticano II nasconde una carenza metafisica fondamentale? 3) Gli asserti teologico-fondamentali quali chiavi per interpretare il Concilio.

1. Il Vaticano II è un “testo compromesso”?

Il tema si fa alquanto delicato e scottante, anche se abbiamo visto che anche Laurentin non ha timore di denunciare le imprecisioni dei documenti del Concilio. Un caso alquanto singolare e certamente privo di sospetti è quello di O. H. Pesch che – a dire il vero in modo alquanto pungente e sarcastico – accusa il Concilio di essere un testo compromesso: «Non di rado – dice – in casi estremi si ha a che fare con “il compromesso del pluralismo contraddittorio”». Per pluralismo contraddittorio Pesch intende ad esempio il fatto che, gli schemi, molto spesso, erano formulati come un do ut des: se accetti il mio testo io approvo il tuo. Questo si presenta nelle votazioni in sede di Commissione, per quanto riguarda, ad esempio, la collegialità episcopale: prima si fanno delle grosse aperture, poi per una minoranza conservatrice, si fanno dei passi indietro, moltiplicando i riferimenti alla potestas del Romano Pontefice: questo lo si appura, al dire di Pesch, soprattutto nel risultato finale.

A Pesch, su questo dato, risponde P. Hünermann, che critica questa posizione estrema per il fatto che i documenti del Concilio non sono da vedere come documenti di una costituzione umana e civile. La possibilità di parlare di “pluralismo contraddittorio” applicata a Lumen gentium, esisterebbe «solo se si partisse da un testo conciliare che possedesse, a motivo del genere, la forma di giudizio o di legge». Per Hünermann, in linea con l’idea della Scuola di Bologna, bisogna valutare rettamente il genere dei testi del Concilio soprattutto nel loro processo ricettivo, tenendo conto della genesi e dello svolgimento del Concilio. Il Vaticano II, infatti, si inserisce nella tradizione di Trento e del Vaticano I, ma a differenza di questi, non fa delimitazioni in termini di definizioni. Il senso del Vaticano II, di natura pastorale, è da vedersi soprattutto nella volontà dei Pontefici, e in particolare nel lavoro della prima sessione. Questo faciliterà il fatto che si recepisca «il corpus dei testi del Vaticano II come norma durevole. Solo se il testo del Concilio non adempie a delle funzioni una volta e basta, ma lo si consulta continuamente per i problemi del momento e per la loro elaborazione, allora veramente si afferma il suo carattere». Per Hünermann, comunque, «si potrà indicare il genere dei testi del concilio Vaticano II come “costituzione della vita ecclesiale di fede” o, in breve, come “costituente della fede”».

Così, ci chiediamo, si risolverebbe il problema del “pluralismo contraddittorio”? Crediamo di no, per il fatto che i documenti di un concilio in genere non costituiscono la fede, la esprimono, la definiscono in modo solenne. Potrebbero costituirla solo in un ambito dogmaticamente pastorale, visto da un’angolatura storica come vuole la Scuola bolognese. Ma il Concilio non fu questo, né vorrebbe esserlo.

Crediamo, anche, che un certo pluralismo contraddittorio appaia ed era inevitabile per diverse ragioni, innervate però tutte nella mancanza di chiarezza dei confini tra ciò che è pastorale e ciò che è dogmatico. Le due dimensioni dell’unica teologia sono equivalenti? Si distinguono? L’una è subordinata all’altra? Pertanto, non si potrebbe dare una risposta esaustiva alla domanda formulata e neppure si potrebbe verificare a livello teologico la continuità/discontinuità delle dottrine del Concilio con la Tradizione della Chiesa, senza richiamarsi ad altri due livelli, che indicheremo di seguito.

2. Il Vaticano II come problema metafisico: un problema di sostanza e di forma?
Il problema “Vaticano II”, più che un “pluralismo contraddittorio”, è quello di una non chiara precisazione della sua natura e di conseguenza del tenore dei suoi documenti, nella cui ottica, sono da leggere le cosiddette “aperture” o meglio approfondimenti teologico-magisteriali. Se rimane fermo che la natura del Concilio è pastorale (non nel senso storicista inteso da Rahner: attingere i presupposti teologici dalla prassi e dalla scienze profane, ma nel senso teologico inteso dal Magistero) e che il tenore del Magistero è autentico ordinario, infallibile solo nella misura in cui reitera i dati già definiti o definitive tenenda della Tradizione, allora i miglioramenti e gli approfondimenti del Concilio, che potrebbero dar adito anche a dei regressi a causa della rottura teologica, sono da verificare alla luce del sano metodo teologico. La teologia che illumina il Magistero dovrebbe verificare lo status di questi approfondimenti e fornire al Magistero un criterio per un pronunciamento (magari anche ordinario) volto a dissipare tutti gli equivoci accumulatisi. Il Magistero in tal modo, potrebbe dire in modo autorevole che solo la continuità è l’ermeneutica giusta da applicare al Concilio e che le innovazioni sono da leggersi in questa continuità della Tradizione, le cui discontinuità non sono dogmatiche (nel senso che feriscano il dogma o lo cambino; più che altro lo spiegano o tentano di spiegarlo) ma teologiche. Nel Vaticano II come rapporto diadico di “concilio-mistero” non si insinua il modernismo. Sarebbe blasfemo il solo pensarlo. Questo magari era presente in alcuni periti e teologi, ma il Concilio è cattolico, convocato e approvato dal Romano Pontefice, i suoi documenti rimangono, natura sui, un insegnamento magisteriale obbligante.

3. Alcuni principi teologico-fondamentali nel Vaticano II

Per ultimo, è necessario individuare alcuni principi, che potremmo definire teologico-fondamentali, enunciati dal Concilio, dalla cui applicazione e lettura, dipende, in gran parte, la visione d’insieme del Vaticano II, come Concilio (evento/celebrazione solenne) e, di conseguenza, la giusta/errata interpretazione delle dottrine conciliari. A nostro giudizio, questi principi potrebbero essere riassunti in tre: 3.1 pastoralità/aggiornamento; 3.2 la distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione; 3.3 il principio “gerarchia delle verità”. Esaminiamoli brevemente, per sottolinearne la cogenza, auspicando il conforto di altri studi di approfondimento.

3.1 La pastoralità del Concilio intesa come aggiornamento e viceversa
Nell’intenzione di Giovanni XXIII il Concilio doveva provocare un aggiornamento, inteso come apertura al mondo e quindi come modo per dire al mondo, hic et nunc la fede della Chiesa. Si volle un modo pastorale d’approccio per far sì che si scegliessero i mezzi più adeguati ed anche il linguaggio della modernità, quando necessario, per parlare all’uomo di oggi, profondamente diverso da quello del Vaticano I, per le nuove condizioni storiche e anche teologiche. Al Concilio si intrecciano e si ingarbugliano due livelli: la fede doveva progredire, ma il Concilio non voleva assumere un carattere dogmatico, perché sarebbe stato anacronistico. Il progresso doveva essere visto come un aggiornamento ma l’aggiornamento non doveva essere dogmatico (come definizione di nuovi dogmi) bensì pastorale ma riguardante propriamente la dottrina. Era chiaro che si arrivasse all’aggiornamento della dottrina: una pastorale ha come cuore la dottrina, ma il Concilio voleva procedere in modo pastorale, ovvero con un magistero ordinario autentico. Lasciando in una sorta di wavering generale i lemmi implicati, e utilizzando nel complesso un linguaggio piuttosto discorsivo e non metafisico, presto “pastorale” è divenuto per Rahner il metro della teologia in quanto tale, sicché sussumendo da un’antropologia profana e da una rivelazione intesa come storia le categorie teologiche, la teologia stessa, nel suo insieme diventa pastorale, e la pastorale non deriverà più dalla teoria teologica, bensì dalla prassi. Qui il mondo con la sua concupiscenza entra nella dogmatica e la trasforma.

3.2. La distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione (sostanza e forma?)
Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura dell’11 ottobre 1962 aveva detto:
«Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto».
Il Pontefice qui invita la teologia a distinguere tra sostanza della fede e suo rivestimento; tra sostanza e forma esteriore o apparente. Si tratta di un problema di linguaggio? Il pontefice ci dice che bisogna adottare una nuova filosofia del linguaggio per superare il momento fatidico dell’in sé e di ciò che viene espresso, passando per le maglie di un forte soggettivismo di colui che dice e quindi già di una sua interpretazione? Crediamo che Giovanni XXIII non si riferisse ad un problema di linguaggio, ma in modo molto semplice volesse dire a tutti che la sostanza della fede non cambia, ma può esser meglio adattato ai tempi il linguaggio per comunicare la fede. Infatti UR 11 dirà:
«[…] la fede cattolica va spiegata, con maggior profondità ed esattezza, con un modo di esposizione e un linguaggio che possano essere compresi anche dai fratelli separati».
La teologia stava già da tempo coniando un nuovo linguaggio, accantonando per lo più quello metafisico-scolastico, per fare posto a quello più moderno, che diventerà poi, in alcuni teologi, l’adottare una filosofia esistenzialista e fenomenica. Questo principio, dunque, si è prestato a svariate letture, anche contraddittorie: da una teologia rinnovata basata sulle fonti del sapere rivelato, ad una teologia rinnovata, diventata pluralista in ragione del pluralismo filosofico, ebbra nel recepire il dato della modernità e senza troppe remore circa la sua fedeltà alla Rivelazione di Dio. Gran parte della teologia è divenuta un’antropologia. La Chiesa si è mondanizzata, secolarizzata. Sembra strano, ma il grimaldello è stato in gran parte la teologia: quella che in larga misura ha fatto il Concilio.

3.3. La gerarchia delle verità (UR 11) o piuttosto analogia delle verità?
Qui si entra in un discorso molto delicato. Il principio della gerarchia delle verità è enunciato da UR 11 che dice:
«Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana».
Il testo, letto nel contesto teologico ormai acquisito da così lungo tempo, si protende più verso un’analogia delle verità che verso una subordinazione di alcune verità ad altre fino a farle scomparire. Le verità rivelate hanno tutte pari dignità perché ci sono dette per la nostra salvezza e tutte promanano dall’unico Autore, Dio. Gerarchia o ordine, dovrebbe essere qui letto nel suo senso etimologico originario come origine sacra delle verità da Dio e nel loro rapporto analogico col fondamento della fede che è lo stesso Dio rivelantesi come verità, distinguendo tra fides qua e fides quem. A nessuno che legge il Concilio nella Chiesa e in linea con la sua Tradizione, verrebbe in mente di strumentalizzare le verità di fede, riconoscendone alcune – normalmente quelle che non piacciono al teologo – inferiori e di secondaria importanza rispetto ad altre. Questo però è stato fatto. Si pensi ad esempio ad H. Küng che vede in questo principio il punto di partenza per un dialogo ecumenico volto non più al ritorno dei fratelli separati nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ma ad una conversione di tutti principiando dal dato storico inequivocabile di una giusta e motivata istanza portata dalla Riforma: quella di una spiritualizzazione e conversione della Chiesa. Un mero andare verso gli altri. Anche la Scuola bolognese vede in questo principio il punto di partenza per una mentalità veramente “conciliare”, che metta tutti insieme, diventata presto un programma politico, o forse già lo era.

Come si deve leggere dunque il principio della gerarchizzazione delle verità? Siamo al punto di partenza. Ma questo evidenzia che, se non si fa una lettura vera e teologica, nel senso alto di questa parola, di questi principi-primi del Vaticano II, tutto il resto facilmente risulta falsato. Risulterebbe, pertanto, veramente utile per i fedeli e per i teologi, un documento (metafisico) dogmatico del Magistero, per spiegare la retta origine e la retta interpretazione di questi principi, così da orientare poi il Popolo di Dio e i maestri della fede in primis, in una lettura corretta del Concilio, facendo vedere, in modo autentico, che l’unica ermeneutica giusta, che porta frutti, è quella della continuità e del progresso nella verità dell’unica Traditio Ecclesiae. È vero che il Magistero si è già pronunciato per dirimere i vari errori di interpretazione attestatisi, talvolta, proprio sui temi a cui abbiamo fatto riferimento. Questo però ancora non risolve il problema, per il fatto che, col prevalere di una certa visione di “conciliarità”, facilmente si è passati, in larga parte, ad un “neo-conciliarismo”: ci si continua ad appellare al Concilio e si dimentica, scorrettamente appunto, che il Magistero non si è congelato col Concilio. Il Papa è al di sopra del Concilio e pertanto solo lui può indicare in modo definitivamente dirimente quale è la giusta ermeneutica del Vaticano II.

p. Serafino M. Lanzetta, FI

giovedì 20 gennaio 2011

Convegno di Roma sul Concilio. Don Florian Kolfhaus: Il magistero pastorale del Concilio Vaticano II

Il titolo completo della relazione di don Florian Kolfhaus è: "Insegnamento pastorale motivo fondamentale del Vaticano II. Ricerche su Unitatis redintegratio, Dignitatis humanae e Nostra aetate". Egli parte dalla considerazione che "Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale". Tuttavia, proprio questo "concilio pastorale" – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato "come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili". Del resto, è ormai chiaro che molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II - che non mancano -, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. È per questo che si registra una sorta di timore di un arretramento rispetto al Concilio e di una sua arbitraria svalutazione. Il nostro contesto e le nostre riflessioni non vogliono arrivare a questo, ma solo far luce sugli eventi, sulla loro portata e significato e su dove ci stanno portando...

In effetti, quello che finora è l’ultimo concilio può essere rettamente compreso solo se rimane inserito nel magistero vivo di tutti i precedenti. E tuttavia, è innegabile che esso non è riconducibile a nessun precedente. Su questo tutti possono convenire, sia pure da diverse posizioni e valutazioni. Nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; ma, ferma restando la sua legittimità ed autorità, la centralità della problematica che ne deriva sta nella tensione creata dal concetto di "Concilio pastorale" o di "Magistero pastorale", per effetto del nuovo tipo di concilio introdotto sul piano della prassi anziché su quello concettuale.

Non viene messo in discussione il carattere vincolante del Magistero, che esige consenso e obbedienza -sia pure non vincolante- anche quando non si tratta di dogmi, ma piuttosto il fatto se il Magistero, inteso come esercizio del "munus determinandi", sia riconoscibile in tutti i documenti. Don Kolfhaus così esprime il quesito: "Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del Papa nelle sue encicliche?", e così risponde: "Nei decreti e nelle dichiarazioni non si tratta dell’affermazione magisteriale di verità, bensì dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale […]. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi "moderni" un atteggiamento conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono "nuove" verità. Il Concilio stesso non voleva questo".

Ed è proprio questo il grande problema che deve essere affrontato e risolto. È ora ineludibile mettere ordine e delineare le diverse terminologie per fare, innanzitutto, un distinguo fra "magistero dottrinale", "magistero disciplinare", "magistero pastorale" e dunque definire il "Concilio pastorale", l’unico della Storia della Chiesa... Molto chiara la distinzione tra le diverse categorie di documenti, che ci riallaccia ai differenti "livelli" di mons. Gherardini. Insomma secondo la efficace sintesi di p. Lanzetta: "le principali dottrine del Vaticano II, quelle riguardanti il dialogo interreligioso, l’ecumenismo e la libertà religiosa, che sono poi quelle che hanno maggiormente catalizzato l’attenzione, non dovrebbero definirsi propriamente “dottrine” ma piuttosto “insegnamenti” (sono decreti e dichiarazioni) pastorali (come precisato dagli stessi padri conciliari) per i quali siamo ancora in ricerca di una categoria teologica per qualificarne il magistero, che sicuramente non è né dogmatico né disciplinare. Don Kolfhaus propone la qualifica di munus praedicandi: un insegnamento che, come ad esempio un’omelia, riguarda temi dottrinali, ma il tenore e la stessa proposizione sono di indirizzo eminentemente pastorale, vincolanti ma non infallibili".

Interessante la notazione iniziale, a braccio, che la scienza e anche la teologia si fa sine ira et studio, invece il problema del Concilio viene trattato cum ira et studio... Interessante anche notare che nella distinzione tra le differenti categorie di documenti possiamo cogliere una novità che non consente di considerare il Concilio come un blocco.

Di seguito il testo della Relazione:
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Recentemente ha preso avvio una nuova discussione sull’interpretazione del Concilio Vaticano II; oggetto del dibattito è fino a che punto i testi conciliari si collochino effettivamente nella continuità del Magistero. Lo stesso papa Benedetto, nell’ormai famoso discorso natalizio alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, ha affermato che il Concilio Vaticano II può essere adeguatamente compreso solo nel contesto dell’intera tradizione della Chiesa. Non ci fu alcuna “rivoluzione copernicana”, alcun nuovo inizio, alcuna rottura con tutto ciò che i papi e i concili precedenti avevano insegnato. Oggi si pone, tuttavia, la pressante domanda di come abbiano potuto svilupparsi, nella ricezione del Concilio, certe teologie (e non pochi dei loro autori ne fanno motivo di vanto) che rappresentano proprio un “nuovo inizio”, per superare le strette guide dogmatiche del Magistero. Sembrerà paradossale, ma uno dei motivi di questa rottura con la tradizione è una modalità del tutto “tradizionale” di lettura del Concilio Vaticano II come concilio dogmatico.

Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Tuttavia, proprio questo “concilio pastorale” – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili». Noi tutti lo constatiamo giorno per giorno: molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II, che senza dubbio ci sono, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. In effetti, non mancano oggi forti richiami che mettono in guardia da un arretramento rispetto al Concilio e da una sua arbitraria svalutazione. Ciò è fuori discussione, non si tratta di questo. Al contrario: quello che finora è l’ultimo concilio può essere rettamente compreso solo se rimane inserito nel magistero vivo di tutti i precedenti. E d’altra parte, il Vaticano II è stato un concilio come mai ve ne erano stati prima. Questa affermazione troverà d’accordo tutti, per quanto differenti possano essere le valutazioni su di esso. Nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità. Cosa significa, però, “ermeneutica della continuità”?

Un concilio come nessun altro prima

Il problema centrale, alla cui soluzione ho voluto fornire un modesto contributo con la mia tesi dottorale, è la tensione creata dal concetto di “concilio pastorale” o di magistero pastorale. Il Vaticano II ha introdotto, non sul piano concettuale, ma su quello della prassi, un nuovo tipo di concilio. Qui non è in discussione il carattere vincolante del Magistero, che, anche quando non si tratta di dogmi, ovvero di definizioni infallibili della dottrina rivelata, si pronuncia in questioni di fede e morale con autorità, cioè esigendo consenso o obbedienza. Si tratta piuttosto della questione se il Magistero – inteso almeno come esercizio del “munus determinandi” – sia affatto presente in tutti i documenti. Cosa significa, quindi, che un concilio si esprime in termini non dogmatici, ma pastorali o – per dirla con le parole del cardinal Ratzinger – «a un livello inferiore»?

Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del papa nelle sue encicliche? Certamente, nelle costituzioni viene esposta della dottrina (come ad esempio nella Lumen Gentium, in cui si afferma esplicitamente per la prima volta la sacramentalità dell’ordinazione episcopale), mentre nei decreti e nelle dichiarazioni non si tratta dell’affermazione magisteriale di verità, bensì dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale, e proprio questo conduce spesso alle interpretazioni del Concilio sopra menzionate. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi “moderni” un atteggiamento conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono “nuove” verità. Il Concilio stesso non voleva questo. Per esempio, a proposito della dichiarazione sul dialogo interreligioso, il 18 novembre 1964 il relatore del Segretariato per l’unità dei cristiani affermava nell’aula conciliare: «Per quanto concerne lo scopo della dichiarazione, il Segretariato non vuole emanare alcuna dichiarazione dogmatica sulle religioni non cristiane, bensì presentare norme pratiche e pastorali» (cfr. Acta Synodalia (AS) III/8. 644). Quanti teologi, invece, richiamandosi alla Nostra aetate, da questi principi miranti alla prassi del dialogo hanno elaborato una teologia delle religioni che vede nelle religioni non cristiane vie di salvezza autentiche e indipendenti da Cristo e dalla Chiesa? Quanto spesso si è sostenuto, citando la Unitatis Redintegratio, che il Vaticano II avrebbe rinunciato alla “pretesa di assolutezza” della Chiesa, la quale dovrebbe comprendersi finalmente come una tra molte chiese? Chi legge gli atti, resta sorpreso. Nel decreto sull’ecumenismo si dichiara espressamente che le sue asserzioni non toccano nel modo più assoluto la verità dell’assioma “Extra Ecclesiam nulla salus” (cfr. AS III/7. 32) e che non v’è alcun dubbio che solo la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo («Clare apparet identificatio Ecclesiae Christi cum Ecclesia catholica … dicitur … una et unica Dei Ecclesia» AS II/7. 17.)

Le intenzioni del Concilio Vaticano II

Nella comunicazione del segretario generale alla 123ª Congregazione Generale del 16 novembre 1964 si afferma che ci si trova davanti a dottrina rivelata “de rebus fidei et morum” solo quando ciò è definito esplicitamente. Tale dichiarazione [esplicita] non ha mai avuto luogo. Per tutte le altre asserzioni sono determinanti l’oggetto trattato (“subiecta materia”), le regole classiche dell’interpretazione teologica (“ratio secundum normas interpretationis theologicae”) e l’intenzione del Santo Sinodo, la “mens Sanctae Synodi”. Proprio su quest’ultima vale la pena di soffermarsi con più attenzione. Gli atti pubblicati riportano un’immagine chiara di come l’intenzione pastorale dei Padri si è sviluppata lentamente e con fatica. Non di rado, tuttavia, e precisamente nella rappresentazione del Concilio di Giuseppe Alberigo, si trasmette l’impressione che Giovanni XXIII avesse fin dall’inizio – per di più contro la resistenza della Curia Romana – stabilito una chiara rotta pastorale del Concilio, la quale potrebbe riassumersi nella sfuggente parola d’ordine “aggiornamento”, che del resto il Papa aveva utilizzato non per il Concilio, ma per la riforma del Codice. Così però si fa finta di non vedere che Giovanni XXIII volle e approvò gli schemi preparati dalla curia. Le sue stesse direttive su cosa dovesse intendersi per “pastorale” non erano univoche. All’inizio del Concilio, ad esempio, egli pose l’accento sulla chiara presentazione della dottrina e diede alla Chiesa come “intenzione del Santo Padre” per l’ottobre 1962 la preghiera che il “magistero infallibile del Concilio” potesse difendere efficacemente la fede contro pericoli ed errori. Lo speciale “carattere pastorale” del Vaticano II rappresentò anche per i Padri conciliari una novità. Questo nuovo “stile” si manifesta anzitutto nel desiderio di comporre dei testi in una lingua facilmente comprensibile e di argomentare biblicamente. Non si volevano né definizioni da teologia di scuola, prima, né definizioni magisteriali, in seguito; tuttavia la dottrina cattolica doveva essere ovviamente presente e determinante sempre e in tutti i testi. I Padri adunati per il Concilio avevano tutti i manuali scolastici dei loro anni di studio in testa (o almeno nella cartella portadocumenti dei loro consulenti teologici). Questa dottrina essi non volevano cambiare, ma esporre più chiaramente. Chi conosce a memoria le risposte del catechismo può usare con la coscienza tranquilla immagini ed espressioni nuove, quando si tratta di utilizzare la dottrina cattolica nella pratica e in un modo conforme ai tempi. La pastorale poggia sulla dottrina, la prassi presuppone la retta dottrina. Il rovesciamento di questo ordine porta troppo facilmente a far sì che con “una nuova realtà pastorale” si sviluppi una “nuova” dottrina. Esempi di ciò ve ne sono in abbondanza nella vita quotidiana delle comunità ecclesiali. Questo vale anche per molti teologi che – sorridendo delle semplici verità del catechismo – considerano le affermazioni pastorali conciliari alla stregua di asserti dottrinali, per poi sviluppare di qui nuove posizioni (personali).

Differenti categorie di documenti

Il Vaticano II, in contrasto con i due concili precedenti, utilizza tre diverse categorie di documenti (costituzioni, decreti, dichiarazioni), per ponderare in tal modo il suo discorso. Questa evidente realtà spesso non viene presa in considerazione. Accanto alla “Lumen Gentium”, la costituzione sulla Chiesa e il documento dottrinale centrale del Concilio, si trova la costituzione sulla divina rivelazione “Dei Verbum”. Altri documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come “Unitatis Redintegratio” sull’ecumenismo, “Nostra Aetate” sulle religioni non cristiane e “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete. Queste vengono di regola rinviate ai direttori che dovrebbero essere redatti dopo il Concilio. Decreti e dichiarazioni non sono allora, detto molto in generale, né dottrina né disciplina. In questo sta la grande novità del Vaticano II: contrariamente a tutti gli altri concili, che esponevano dottrina o disciplina, esso supera queste categorie. Si tratta di un insegnamento, che non vuole tuttavia dare definizioni o delimitazioni in funzione contraria a degli errori, ma è rivolta all’agire pratico condizionato dal tempo. Questo avviene senza che si emanino concrete norme disciplinari. La teologia finora non ha a disposizione alcun concetto appropriato per questa nuova forma di Magistero pastorale. Un errore ampiamente diffuso nell’interpretazione del Concilio consiste proprio nel leggere decreti e dichiarazioni sullo stesso piano delle costituzioni del Vaticano II – quindi come documenti dottrinali. Che questo non possa essere vero lo mostra già uno sguardo attento alle categorie dei documenti. Così può sembrare provocatoria la constatazione oggettiva che “Unitatis Redintegratio” detiene la stessa qualifica formale del decreto sui mezzi di comunicazione sociale “Inter mirifica”. A entrambi i testi si dovrebbe perciò addire la medesima qualifica formale. Ma nessuno presume che “Inter mirifica” sia un testo dogmatico! Qui si tratta di prassi, non di dottrina. Senza dubbio il dialogo ecumenico è una sfida più importante della rapida crescita dei mezzi di comunicazione sociale. Entrambi i temi sono svolti all’interno della stessa categoria di documenti; non perché siano ugualmente significativi, ma perché ad essi è comune l’orientamento alla prassi. Nei due documenti non si tratta di una dottrina nuova, bensì di una prassi nuova, o meglio, rinnovata. La differenza tra le affermazioni dottrinali e quelle orientate alla prassi è sostanziale, poiché le seconde poggiano sulle prime e non possono porsi in contrasto con queste, se realmente vogliono essere una pastorale cattolica. Questa distinzione tra dottrina immutabile e agire conforme ai tempi si riferisce alla questione di cosa sia dunque un concilio pastorale in ultima analisi. Anche i Padri conciliari si trovarono a confrontarsi con questo importante punto, come vorrei mostrare nell’esempio seguente tratto dai documenti.

Cambiamento della “legge fondamentale” o riforma del “regolamento”?

Il fatto che in Gran Bretagna si guidi a sinistra non si trova nella costituzione inglese e potrebbe essere facile, da un punto di vista giuridico, adattare questa regola alla prassi europea continentale – anche se il cambiamento potrebbe costare fatica e provocare alcuni incidenti. Modificare le regole di circolazione – norme pratiche – non significa in alcun modo intaccare la costituzione e i valori fondamentali in essa ancorati. Se si applica questo paragone al Concilio – le disposizioni costituzionali starebbero in questo caso per le verità dogmatiche e i principi di diritto naturale – può suonare provocatorio considerare i grandi temi del Vaticano II al livello della circolazione stradale. Tuttavia, proprio questo esempio impiega il vescovo De Smedt in uno dei suoi ultimi discorsi relativi alla dichiarazione sulla libertà religiosa. Egli vuole rendere chiaro che la “libertà civile dall’obbligo statale”, della quale il Concilio parla, non collide con la dottrina tradizionale, poiché non si tratta di una “discussione costituzionale”. “Tanto poco le regole di circolazione dispensano dal dovere morale, di muoversi con intelligenza e attenzione sulle strade, quanto poco la protezione giuridica della libertà religiosa solleva gli uomini dagli obblighi della “legge morale oggettiva” e, se sono cattolici, dalle leggi della Chiesa (AS IV/5. 100.). Altrove De Smedt parla ancor più chiaramente di tale “legge morale oggettiva”, che non viene toccata dalla “nuova” prassi della libertà religiosa: «È certo che nell’ordine morale tutti gli uomini, tutte le società e ogni autorità civile sono obbligati a cercare la verità e non è loro consentito di difendere il falso. Valga il dovere morale di tutti gli uomini nei confronti della Chiesa di approvare le sue dottrine e i suoi comandamenti. Nessuna istanza umana possiede una libertà di scelta morale oggettiva nell’approvazione o nel rifiuto del Vangelo e della vera Chiesa. Ad una più attenta osservazione anche questo obbligo è soggettivo» (AS IV/1. 433). Naturalmente, una “nuova” prassi pone anche nuove domande alla dottrina. A queste domande la “Dignitatis Humanae” non vuole però rispondere, ma le affida – così dice espressamente De Smedt il 21 settembre 1965 - «al Magistero ordinario della Chiesa».

Non infallibile, ma nemmeno non vincolante

A questo punto appare necessario occuparsi più approfonditamente della già menzionata questione della peculiarità di un magistero pastorale. Nella scolastica si è parlato di due forme di magistero. Partendo dall’autorità di colui che ammaestra Tommaso d’Aquino conosce il “magisterium cathedrae pastoralis” del vescovo e il “magisterium cathedrae magistralis” del teologo. Oggi si intende per magistero esclusivamente quello dei vescovi e del papa. Il vescovo per la sua diocesi, il papa e il collegio dei vescovi riunito sotto di lui per la Chiesa universale, sono portatori di questo magistero nel senso in cui il termine viene oggi utilizzato. I concetti finora disponibili per la qualificazione dei testi dottrinali sono in parte sorprendentemente recenti: nel 1835 Gregorio XVI impiega per la prima volta in “Commissum divinitus” il concetto di “magisterium” in un documento dottrinale, laddove egli parla di una “potestas magisterii” accanto ad una “potestas regiminis”. Egli fu anche il primo ad utilizzare la forma dell’enciclica per l’esercizio del suo magistero. Nel 1964, nella “Lumen Gentium”, appare per la prima volta nell’uso del magistero l’espressione “munus docendi”. Entrambi i concetti – “magisterium” e “munus docendi” - si pongono in stretta relazione ma, nonostante siano frequentemente utilizzati come sinonimi, non sono equivalenti. “Munus docendi” designa – generalizzando e semplificando – l’insegnamento vincolante a carattere dottrinale da parte della legittima autorità e l’annuncio del Vangelo da parte dei ministri ordinati ed autorizzati grazie alla “missio canonica”; “magisterium” – come parte del “munus docendi” – punta invece alla definizione di problemi dottrinali, normalmente come chiarimento autorevole di questioni controverse.

Poiché la distinzione effettuata nei concili precedenti tra affermazioni dottrinali e disciplinari non è appropriata per il carattere peculiare del Vaticano II, risulta che per la terminologia della teologia, la quale distingue tra asserzioni dottrinali infallibili e non infallibili, deve essere trovata una ulteriore categoria. Su tale questione il Concilio stesso tace. Accanto ad asserzioni dottrinali che vogliono difendere e mettere in chiaro delle verità, troviamo nel Vaticano II e in seguito ad esso asserzioni dottrinali che vogliono motivare una determinata pastorale e regolare una prassi. Bisogna poi ricordare che il Concilio non rinuncia in linea di massima all’esercizio del magistero, ma lo fa in un modo nuovo. Davanti a questo sfondo si concretizza la domanda sulla forma magisteriale dei documenti e sulla gradazione, o meglio, sull’intenzione con cui questi sono stati prodotti.
Manca, come già si è detto, il concetto per un “magistero pastorale”. Così resta difficile dire cosa sia realmente un concilio pastorale. È necessario, però, distinguere tra “dottrinale” e “pastorale”. Ugualmente, “pastorale” non può essere messo sullo stesso piano di “disciplinare”, dato che non si tratta semplicemente di norme concrete di natura giuridica. Queste, infatti, sono state consapevolmente delegate dai Padri a specifici direttori che dovevano essere realizzati solo dopo la chiusura dell’assemblea ecclesiale. Se un magistero pastorale non è né dottrinale né disciplinare, che cosa è dunque?
In un’enciclica papale, in una buona omelia domenicale, nelle parole di incoraggiamento ben ponderate dopo una confessione viene ogni volta annunciata la fede cattolica, e tuttavia con modalità e scopi molto differenti. Se nel primo caso si tratta anzitutto di chiarire questioni dottrinali, gli altri due momenti sono interamente orientati alla pastorale. Tutt’altro che non vincolanti, l’omelia e le parole di incoraggiamento vogliono muovere a un determinato agire – a una vita “nuova” secondo la fede. Perché tale annuncio abbia un buon esito, esso deve prendere in considerazione il tempo e il luogo, la formazione e l’età, la maturità spirituale e l’apertura religiosa dei destinatari. Pastorale significa “tradurre” la dottrina in prassi – non apportare modifiche alla dottrina. Per essere chiari, torniamo ancora una volta al decreto sull’ecumenismo. I Padri non volevano pronunciare alcuna definizione di dialogo ecumenico, perché erano coscienti che questa prassi pastorale può e, se vuole essere efficace, deve assumere forme molto diverse. Essi hanno chiaramente messo da parte le questioni dottrinali, a cui “Unitatis Redintegratio” per l’appunto non doveva rispondere: il decreto tace esplicitamente sulla controversia riguardo all’appartenenza alla Chiesa, sul problema della bona fides, sulla chiara valutazione di quali comunità al di fuori della Chiesa cattolica siano Chiesa in senso teologico, sul tema della definizione del rapporto tra Scrittura e Magistero, sulla descrizione dettagliata del primato papale come su una rappresentazione differenziata delle diversità dogmatiche tra cattolici e ortodossi (AS III/7. 675ss.).

Una nuova pastorale pienamente inserita nella tradizione

Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa. Naturalmente alla domanda sulla natura di un concilio pastorale se ne collegano altre, che richiedono un più preciso chiarimento relativamente a dottrina e prassi: la pastorale è soltanto una tecnica di comunicazione della dottrina o pone anche delle domande al Magistero? Il Vaticano II con il suo “essere un concilio diverso” ha effettivamente creato una nuova forma di magistero? Otto Hermann Pesch dice in modo provocatorio e, senza dubbio, troppo esagerato: «non si è ancora riflettuto abbastanza su forme e condizioni attraverso cui la Chiesa possa fare anche in futuro quel che essa ha fatto per la prima volta con molto coraggio nel Concilio: parlare in forma temporanea, provvisoriamente, con la prospettiva di un superamento, e fare questo con piena coscienza, per propria ammissione» (Das Zweite Vatikanische Konzil, 379). Dichiarare una dottrina, anche quando essa non riveste un carattere di infallibilità, suscita l’esigenza che essa sia fidata, vera e valida. Questo vale a maggior ragione per affermazioni dottrinali definite solennemente: i dogmi non sono “provvisori, superabili, temporanei”; risposte a urgenti problemi del momento orientate alla prassi devono essere date volta per volta, per essere adatte alla situazione politica, sociale e culturale. Nel rispondere poi a tali questioni non si tratta di mettere in gioco dottrina e prassi l’una contro l’altra, di intendere “pastorale” come sinonimo di “non vincolante” o di “discrezionale” e di vedere la cura d’anime costantemente in conflitto con il Magistero. Il Vaticano II voleva salvaguardare la dottrina e rinnovare la cura pastorale. Sarebbe richiesto di colmare finalmente questa lacuna nell’apparato concettuale della teologia che si è aperta dal Vaticano II in poi. La mia proposta sarebbe – e questo non può essere niente più che un modesto contributo ancora da discutere – di denominare la sfuggente espressione di magistero pastorale “munus predicandi”, ben delimitata rispetto al “munus determinandi”. Si tratta, infatti, di un “munus” cioè dell’insegnamento della legittima autorità, e “predicare” non significa per niente che detto insegnamento non sia vincolante, ma richiama il fatto che l’omelia è il luogo privilegiato di esporre la dottrina cattolica già definita e di applicarla per la vita concreta per la vita dei fedeli. Questo significa: Annuncio del Vangelo ed insegnamento della dottrina, non definizione dottrinale; legato al tempo e conforme al tempo, non immutabile e non sempre uguale; vincolante, ma non infallibile. Il Concilio, almeno nei suoi decreti e dichiarazioni, non vuole esporre dottrina, e men che meno cambiare la dottrina trasmessa. Con elementi della dottrina cattolica – così come era e così come rimmarrà – il Vaticano II insegna la fede e le nuove direttive pastorali derivante da essa.

Nessuno può negare le tensioni di questo magistero pastorale. Purtroppo non mancano teologi che con il cambiamento della prassi fondano una rottura con la dottrina tradizionale. Forse i Padri conciliari furono sotto certi aspetti troppo ottimisti quando rinunciarono a definizioni dottrinali e condanne solenni, volendo tuttavia conservare e difendere il dogma. Della loro intenzione di fare ciò, non c’è peraltro da dubitare. In questo senso Paolo VI, nella seduta di approvazione dei due documenti conciliari sulla Chiesa “Lumen gentium” e sull’ecumenismo “Unitatis Redintegratio” ha affermato: «Questo sembra essere il più significativo commento alla promulgazione di questi documenti; quanto Cristo ha voluto, lo vogliamo anche noi. Quel che era, tale rimane. Quel che la Chiesa ha insegnato nel corso dei secoli, proprio questo insegnamo anche noi» (AS III/8 911.).

Cfr. anche: Florian Kolfhaus: Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, “Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate”. Münster 2010. LIT-Verlag. ISBN: 978-3-634-10628-5. Si tratta della prima pubblicazione della nuova collana di tesi dottorali prodotte a Roma: “Theologia Mundi ex Urbe”.

martedì 18 gennaio 2011

Lettera aperta di padre Serafino Lanzetta in risposta a padre Giovanni Cavalcoli

Padre Giovanni Cavalcoli, OP, in data 13 gennaio 2011, ha rivolto una lettera aperta a Padre Serafino M. Lanzetta, FI, esprimendo riserve di ordine teologico in ordine alle questioni sviluppate dal convegno organizzato dai Francescani dell'Immacolata sul Concilio Vaticano II. Padre Lanzetta gli risponde il 16 gennaio, con una Lettera aperta, che pubblico di seguito ringraziandolo per avercela messa a disposizione. Egli ricorda che le difficoltà sono riconducibili al modo di intendere il concetto di infallibilità del magistero e quindi all'esercizio magisteriale del Vaticano II, inteso come unicum e declinato nei suoi 16 documenti. Si tratta di un'occasione importante per l'allargamento della discussione, che non mancherà di portare i suoi frutti. E' bene che si continui a parlarne, ma soprattutto che se ne traggano piste di riflessione e di approfondimento, che non mancherò di sviluppare nei prossimi articoli.

Carissimo P. Giovanni,

la ringrazio per la lettera aperta che ha voluto indirizzarmi, la quale mi dà modo di approfondire i temi a cui allude e di spiegarmi meglio. Non dico che la rottura è stata causata dal Concilio: per sé il Vaticano II non può causare la rottura e la continuità allo stesso tempo, «per la contraddizion che nol consente». Dico che alcuni teologi hanno letto i testi come rottura e altri nella continuità. Questo evidenzia due cose:
  1. che si danno due letture teologiche del Concilio (contraddittorie) per il fatto che i testi si lasciano leggere in modo duplice, dato il loro tenore fontalmente pastorale e non definitorio;
  2. questo richiede, pertanto, un criterio ermeneutico a priori corretto per leggere, di conseguenza, correttamente il Concilio: questo criterio è la Tradizione ininterrotta della Chiesa. Quando viene espunta la Tradizione si verifica la rottura. Porto un esempio recente.
Il padre Paolo Cortesi, missionario passionista in Bulgaria, esultava sul suo blog (cf. http://cosebulgare.blogspot.com/2010/12/e-arrivato-il-vaticano-ii-finalmente.html), perché finalmente era giunta in Bulgaria la traduzione dei documenti del Vaticano II. E fin qui tutto bene. Ma, il motivo vero della sua esultanza, consisteva nel fatto che, dopo l’affaccendarsi critico-conservatore di chi pretende di buttare il Concilio nel Tevere (forse si riferisce a noi), in Bulgaria invece era arrivato il vero Concilio. Dopo aver ricordato che il Vaticano II è un dono dello Spirito Santo, il padre passionista si attesta sulle sue peculiarità: «Il Concilio ci educa ad essere non una Chiesa padrona e paladina della verità, ma un Popolo di Dio che cammina nella storia insieme a tutta l'umanità». «Il Concilio ci insegna che la liturgia non è assistere alla ripetizione sacrale dei gesti che compie la casta sacerdotale, ma la celebrazione della salvezza da parte di tutto il Popolo di Dio». «L'ecumenismo non è ricondurre all'obbedienza pontificia i disgraziati scismatici, ma la ricerca di comunione da parte di tutti i cristiani». Infine, ci vien ricordato che il Concilio ha scoperto la Parola di Dio. E tutto quello che la Chiesa era prima? La sua dottrina, la sua vita? Il Vaticano II sarebbe, in realtà, il vero volta-pagina. Qui si vede – è un esempio tra tanti – che una carenza spaventosa del concetto di Traditio Ecclesiae, fa scadere in una visione stranamente dogmatista del Vaticano II. Eppure quegli ambiti rammentati dal padre Cortesi sono quelli che oggi maggiormente soffrono a causa della secolarizzazione.

Ma veniamo nuovamente a noi. Il nostro convegno si è attestato non sulla verifica delle nuove dottrine del Vaticano II, ma su un approccio (iniziale e a modo di status quaestionis) di tipo storico filosofico teologico. Quello teologico lo si potrebbe definire “fondamentale”, volto a verificare la natura del Concilio e vederla riflessa nei vari documenti (non in tutti ma nei principali), che sono 16 e sappiamo esser divisi in Costituzioni (di cui solo due godono dell’appellativo “dogmatiche” e presentano un insegnamento dottrinale: Lumen gentium e Dei Verbum), Decreti e Dichiarazioni, con accenti e per un esercizio eminentemente pastorali. C’è una cosa comunque che unisce la diversa tipologia magisteriale del Vaticano II (diversa già in ragione di una distinzione tripartita che compare in questo modo solo nel Vaticano II), ed è il tenore dei documenti: un tenore fontalmente pastorale, di annuncio della fede e non di una sua definizione, che esprime così il fine stesso del Concilio. Così volle Giovanni XXIII, così confermò Paolo VI.

Da quanto lei dice, emerge un dato fondamentale, che è il problema-chiave del Vaticano II: qual è l’esercizio magisteriale (complessivo) del Concilio? Lei vede il Vaticano II come un unicum, giustamente, perché un concilio, ma, a mio modo di vedere, si spinge più in là del concilio, quando entra in merito all’infallibilità, non distinguendo nel tutto le sue parti, ovvero i diversi livelli magisteriali del Concilio (stabiliti egregiamente da Gherardini).

Mi spiego riassumendo schematicamente lo status quaestionis sull’esercizio magisteriale del Vaticano II, riconducibile a 5 posizioni teologiche:
  1. esercizio del magistero straordinario solenne;
  2. esercizio del magistero ordinario universale;
  3. esercizio del magistero autentico;
  4. esercizio di un magistero omiletico;
  5. esercizio di un magistero differenziato.
Tra questi teologi ve sono anche alcuni insospettabili di conservatorismo o di tradizionalismo (cf. F. Kolfhaus, Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate” [tesi dottorale presso l’Università Gregoriana], Lit, Berlin 2010, pp. 23-34).

Fin qui la teologia, che verifica, pur con accenti diversi, un magistero sì solenne (quanto alla forma) ma ordinario (quanto al normale esercizio). Il Magistero stesso, specialmente nella persona di Paolo VI, ha riassunto l’intera portata magisteriale del Vaticano II, definendolo magistero ordinario autentico (cf. Allocuzione del 7 dicembre 1965 e Udienza Generale del 12 gennaio 1966). Ora, il magistero ordinario non è infallibile perché è magistero, sia pur di un concilio, ma solo quando è reiterato e quando appura la definitività di una dottrina di fede o di morale, anche se non definita ma definitiva. L’infallibilità nel Vaticano II è solo di riflesso rispetto a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive; questa infallibilità, sussiste poi solo in alcune dottrine ma non nel Concilio in quanto tale, altrimenti sarebbe stata inutile la precisazione del Segretariato del Concilio per la giusta lettura di Lumen gentium, posta come Nota previa. Riporto i due punti salienti di detta nota che ci riguardano: «Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica» (AAS 77/1 [1965] 72).

L’infallibilità si rivela solo nel magistero obbligante tutta la Chiesa, che richiede un atto di fede teologale, in ragione appunto della irreformabilità della dottrina. Per le altre dottrine bisogna tener conto dello spirito (della natura e del fine) del Concilio, e vedere in unità la materia trattata e il modo di esprimersi. Credo sia fuori luogo attribuire sic et simpliciter la definizione di infallibile alle diverse dottrine/insegnamenti del Concilio. Il magistero ordinario perché autentico però rimane vincolante e richiede l’ossequio dell’intelletto e della volontà, pur essendo soggetto ad eventuali revisioni con l’ausilio della teologia, in ragione di una comprensione accresciuta dei dati (si veda su questo il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum veritatis, del 24 maggio 1990, nn. 22-24).

Dire comunque che il Vaticano II ha una natura pastorale non è squalificare il Concilio e non significa non riconoscere i suoi insegnamenti dogmatici, ma prevenire un abbaglio, oggi diffuso sia tra i progressisti che tra i tradizionalisti, che porta a leggere il Vaticano II alla stregua del Concilio di Trento o del Vaticano I. Non ci si accorge della peculiarità del Vaticano II, ovvero della sua natura, del suo fine e del diverso tenore magisteriale dei suo documenti, e si finisce col dogmatizzare tutti i suoi insegnamenti. Questo però è fatale: così, o si fa iniziare la Chiesa dal Vaticano II o si cestina il Vaticano II per far vivere la Chiesa. Il problema rimane fino a quando non ci si decide a tralasciare questa ermeneutica rigidamente tradizionale di approccio al Vaticano II, iniziando a vedere che il nostro concilio è sui generis: inaugura un “nuovo” modo di insegnare e di esser concilio per la Chiesa, modo che darà un’impronta caratteristica al post-concilio: una scelta più pastorale per dire la dottrina di fede della Chiesa. È su questo che ci dobbiamo interrogare.

E vengo così ad un ultimo punto, alle novità dottrinali di cui parla. Non sono d’accordo sul fatto che le novità in quanto tali farebbero avanzare la Tradizione. Semmai la comprensione della fede su un piano teologico, ma per il progresso dogmatico è necessaria la definitività della dottrina. Qui leggo un dato simile all’infallibilità: per lei le novità dottrinali sono per sé un avanzamento della Tradizione e pertanto bisogna collocarsi ora dopo di esse per riconoscere la Tradizione nel suo stadio avanzato in ragione del Concilio. Sembra allora che la verifica delle innovazioni non serva o che, se occorra, si pregiudichi la bontà del Concilio. E questo per il fatto che le innovazioni sarebbero infallibili.

Invece, a mio modesto giudizio, bisogna collocarsi anche qui su un piano diverso. Non sono le innovazioni che, in quanto tali, fanno avanzare la Tradizione. È piuttosto la Tradizione, che progredendo in ragione del nuovo, in uno sviluppo omogeneo, dà alle cose nuove lo statuto teologico di dottrine o di insegnamenti, in ragione di quanto detto poc’anzi in riferimento al magistero, statuto che può ascendere fino al grado ultimo di irreformabilità. È la Tradizione ovvero la Chiesa-mistero, che accoglie le innovazioni ma al contempo le precede nel suo esserci già, a livello ontologico e cronologico. Questo può apparire un pensiero fissista, ma è quanto dire: c’è prima la Chiesa e poi la sua comprensione, prima Dio e poi l’uomo. Non è per il fatto che siamo di fronte ad un assise conciliare insegnante in modo solenne che avanza necessariamente la Tradizione. Questo certo lo impariamo col Vaticano II, ma neppur possiamo troppo esulare questo concilio dalla tradizione storica dei concili ecumenici. Infatti, anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), non definì alcun dogma ma emanò solo pochi decreti disciplinari. Non di meno però è un concilio ecumenico (difeso dal Card. Brandmüller), ma non per questo si può definire infallibile.

È proprio sul concetto di infallibilità da lei esposto che non mi ritrovo. Lei dice che per avere l’infallibilità «basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico». Allora dovremmo anche dire che, ad esempio, Presbiterorum ordinis insegna in modo infallibile, mentre, in verità al n. 16 c’è una svista storica notevole: sembra che non conosca il dato antichissimo “continenza-celibato”, e mette sullo stesso piano la tradizione latina e la deroga al celibato per i presbiteri della Chiesa greca, deroga nata dopo il trullano, ma in seguito ad un vero imbroglio. Ormai la ricerca storico-teologica è progredita e si dovrebbe provvedere a perfezionare questo passaggio. Faccio anche un esempio al contrario: se Sacrosanctum concilium fosse infallibile, l’attuazione della riforma liturgica, avvenuta spesso e con facilità in deroga allo ius divinum della liturgia, e andando molto al di là di quanto previsto da detta costituzione, sarebbe un’eresia. Si potrebbe dire questo? No, per il fatto che Sacrosanctum concilium non è infallibile ma è una costituzione con una natura pastorale, che apre ai possibili adattamenti.

Lei cita poi la Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, definendolo un testo infallibile, dunque dottrinale. Invece, si tratta di in testo che non è né dogmatico né disciplinare, ma contiene norme pratiche di comportamento in materia di libertà religiosa. Questa dichiarazione vuole dare delle norme pratiche e non intende affatto allontanarsi dalla dottrina cattolica sulla libertà religiosa (cf. AS IV/1, 433). Gli abusi, spesso, hanno fatto leva proprio sulla sua infallibilità per accentuare il concetto di libertà religiosa soggettiva, fino a scadere in un relativismo religioso, contro il perenne insegnamento della Chiesa circa il dovere morale di riconoscere la verità e di professarla solo nella Persona del Verbo incarnato. Certo, la libertà religiosa di cui parla il Vaticano II è uno sviluppo del concetto stesso di libertà, che tiene conto del dato della modernità, ma non esaurisce il contenuto della dottrina classica: è un di più, che però necessita della Tradizione per essere compreso, dato il suo fine volto al dialogo con gli uomini.

Vedo una certa frizione tra dottrina e prassi in materia di libertà religiosa, proprio nella sua esecuzione pastorale di Assisi. Non si può dire che Assisi cambia la dottrina della Chiesa in materia di libertà religiosa. Assolutamente no. Ma è una scelta pastorale che deriva dal Vaticano II, da questa dichiarazione e soprattutto da Nostra aetate, per affermare il rispetto e la verità della libertà religiosa di ogni uomo. Al contempo però questa adunanza porta in sé un dato dottrinale: qual è la vera religione? La pastorale che è il fine di Assisi e della Diginitatis humanae, qui, come sempre, incontra la dogmatica: solo Cristo è la verità. Come coniugarle? Il Vaticano II non ce lo dice, ma lascia spazio ad interventi successivi. Il Pontefice opta ora di nuovo per Assisi, pur conscio delle notevoli problematiche sincretiste che ad esso furono connesse in ragione dello “spirito d’Assisi”, da lui denunciato perché funesto quanto lo “spirito del Concilio”. Nessun però potrebbe dire che Assisi cambia la fede della Chiesa nella verità di Cristo unico Salvatore. Se Dignitatis humanae fosse infallibile, non si avrebbe neanche più una certa libertà nella sua attuazione pastorale, il cui giudizio prudenziale spetta al magistero.

In questa tensione tra dogmatica e pastorale nel Concilio, si nasconde, a mio modo di vedere, tutto il problema ermeneutico del Vaticano II. Io per infallibile intendo non-fallibile, irreformabile: allora ben poche sono le dottrine che si possono dire tali.

Direi allora che bisognerebbe leggere “infallibile” nel senso più rigoroso e classico della teologia, mentre il Concilio Vaticano II, quale unicum magisteriale, in modo più flessibile ed articolato, distinguendo i diversi piani, in ragione del progresso teologico verificatosi grazie allo stesso Vaticano II. Gli atti del nostro convegno, che pubblicheremo, ci aiuteranno sicuramente per un discorso più accurato.

Le rinnovo i sensi di stima ed amicizia nei nostri Santi Padri Francesco e Domenico

p. Serafino M. Lanzetta, FI

Firenze, 16 gennaio 2011

domenica 16 gennaio 2011

Convegno sul Vaticano II. Mons. Athanasius Schneider, Il primato del culto di Dio come fondamento di ogni vera teologia pastorale

Proseguiamo nell'analisi delle relazioni del Convegno di Roma sul concilio. Quella ora proposta è di Mons. Shneider, che è stata in questi giorni ripresa con ampio risalto anche da Sandro Magister , che la connota come "la richiesta di un nuovo Sillabo per il XXI secolo.

In effetti, Mons. Athanasius Schneider, dopo un lungo e articolato excursus di taglio teologico pastorale sulle "luci del Concilio" - che si collocano in quel livello, citato da Mons. Gherardini, nel quale il concilio riprende le verità già definite - ha affermato che la 'rottura' si manifesta nella svolta antropocentrica e nel campo Liturgico, mentre nella Sacrosantum Concilium non ce n'è traccia, ed è individuabile nel chiasso ermeneutico delle applicazioni contrastanti e nei gruppi eterodossi. In conclusione, egli ha invocato un "sillabo" con valore dottrinale, con completamenti e correzioni autorevoli in campo liturgico e pastorale. Ma, prima di questo, tutta la sua trattazione è una sintesi mirabile e magistrale della missione e della realtà della Chiesa, operata riprendendo e tracciando il filo conduttore fornito dai testi selezionati del Concilio stesso e dei pronunciamenti dei Papi, seguendone il filo aureo attraverso citazioni puntuali e rivelative; il che non toglie valore alla invocazione conclusiva, evidentemente mossa dagli effetti, ormai sotto gli occhi di tutti, delle applicazioni sconsiderate che hanno vanificato quel vero spirito che animava i papi del Concilio e certamente la pars maior et sanior dei Padri Conciliari.
Segue il testo della relazione:
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Proposte per una corretta lettura del Concilio Vaticano II.
Athanasius Schneider, Il primato del culto di Dio come fondamento di ogni vera teologia pastorale. Conferenza tenuta a Roma il 17 dicembre 2010. L'autore è vescovo ausiliare di Karaganda.

I. Il fondamento teologico della teologia pastorale

Per parlare correttamente della teoria e della prassi pastorale è necessario prima essere consapevole del loro fondamento e del loro scopo teologico. Lo scopo della Chiesa è lo stesso scopo dell’Incarnazione: “propter nostram salutem”. Così la fede e la preghiera della Chiesa s’esprime: “Qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de caelis et incarnatus est et homo factus est”. Questa salvezza significa la salvezza dell’anima per la vita eterna. In ciò consiste anche la finalità di tutto l’ordinamento giuridico e pastorale della Chiesa, come ci dice l’ultimo canone del Codice del Diritto Canonico: “prae oculis habita salute animarum, quae in Ecclesia suprema semper lex esse debet” (can. 1752).

giovedì 13 gennaio 2011

La Tradizione: soluzione alla Crisi della Chiesa

Ho ripreso nel titolo, togliendo l'originario punto interrogativo, la conclusione cui è pervenuto il Convegno tenutosi a Parigi il 7-8-9 gennaio scorso, a ridosso quindi del recente Convegno di Roma, di cui stiamo analizzando le relazioni per trarne elementi di riflessione e approfondimento.

L'intervento, acquisito grazie a Messa in Latino e che pubblico per tenere desta l'attenzione e aggiornare chi legge su ciò che accade nella e alla nostra Chiesa, è della Dr.ssa Cristina Siccardi, nota anche per aver scritto una ottima biografia di Mons. Lefebvre. Esso ci dà un interessante e rapido excursus sui vari interventi dai quali viene delineato sia pure per sommi capi lo status quaestionis e ci offre molti indicatori della direzione in cui si sta andando. Tuttavia ci lascia un po' a bocca asciutta, perché illustra tendenze e considerazioni già note nelle linee principali, facendo crescere l'interesse per avere a disposizione e meditare gli interventi citati, di cui speriamo non tardi l'accessibilità... Acquisiamo quindi l'informazione e restiamo in attesa di più polposi testi da assimilare e far fruttificare, nel nostro piccolo.
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Il decimo Congresso Teologico del Courrier de Rome, dal titolo "La Tradizione: una soluzione alla crisi della Chiesa?", svoltosi a Parigi il 7-8-9 gennaio 2011 alla Maison de la Chimie (28 rue Saint-Dominique), ha avuto un notevole successo di pubblico, un pubblico attento e qualificato, che ha seguito i lavori proposti di giorno in giorno da docenti, studiosi, intellettuali di varie nazionalità. La sintesi del Congresso, di altissimo livello storico, filosofico, teologico e di precisa ponderazione sullo stato attuale della Chiesa, si può riassumere nel volgere il suo titolo dalla forma interrogativa a quella affermativa, mutando l’articolo indeterminativo in quello determinativo: la Tradizione è la soluzione alla crisi della Chiesa.

La prima giornata, dopo aver precisato lo stato della questione (padre Alain Lorans), ha analizzato la crisi ariana (padre Laurent Biselx), quella protestante (padre Nicolas Portail), quella susseguente alla Rivoluzione Francese (professor Jean de Viguerie), quella modernista (padre Claude Boivin) e quella postconciliare (padre Niklaus Pfluger). È emerso come, in tutti i casi in cui la Chiesa è uscita dalla sua crisi, lo ha fatto soltanto con un ritorno alla Tradizione precedente al momento drammatico affrontato. Questo ritorno non è stato un semplice riportare indietro le lancette dell’orologio della storia (operazione dannosa, oltre che impossibile), ma da esso è sempre scaturito un progresso, che ha reso la dottrina cattolica più capace di rispondere alle false obiezioni a lei poste dai movimenti ereticali all’origine di ogni singola crisi.

Sempre alla storia della Sposa di Cristo si può applicare il consiglio che sant’Ignazio di Loyola, nei suoi esercizi spirituali, dà ad ogni singolo fedele: "In tempo di desolazione non si deve mai fare mutamento ma restare fermo e costante nei propositi e nella determinazione in cui si stava nel giorno precedente a tale desolazione, o nella determinazione in cui si stava nell'antecedente consolazione. Come infatti nella consolazione ci guida e consiglia di più il buono spirito, così nella desolazione il cattivo, con i cui consigli non possiamo prendere la giusta strada" (Regola 318). I progressi ed i mutamenti avverranno quando la crisi (desolazione) sarà passata e la Chiesa sarà tornata alla Tradizione (consolazione) precedente.

Nella seconda giornata si è esaminato in che modo la Tradizione possa curare i mali della crisi presente. Si è partiti dal confronto razionale tra Tradizione e pensiero moderno (padre Jean-Michel Gleize), approfondendo le radici teologico-dottrinali dell’irrazionalismo contemporaneo ed il loro affondare nella negazione del giusto ordine trinitario, conseguente alla negazione del Filioque (il procedere dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio), vale a dire negando la necessaria precedenza della verità rispetto all’amore, approfondimento e spiegazione di quanto detto in merito da Romano Amerio nel suo capolavoro Iota Unum (padre François Knittel). Di questo tema e, soprattutto, delle sue conseguenze sull’attuale diffusione del relativismo, troviamo ampi accenni nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI.

Ampia è poi stata la trattazione del rapporto fra Concilio Vaticano II e Magistero della Chiesa, non tanto per ciò che concerne i suoi contenuti, quanto, invece, per ciò che riguarda il suo stesso modo di porsi, il suo legame con il divenire storico, il suo linguaggio innovativo e caratteristico degli anni Sessanta del secolo passato, il suo lasciarsi plasmare, da un punto di vista formale, dal caratteristico spirito di quel decennio, del suo rifuggire da ogni definizione, anche solo terminologica (padre Davide Pagliarani). Su questo stesso tema, ma concentrato sulla pastoralità del Concilio, corre l’obbligo di segnalare il magistrale intervento di monsignor Brunero Gherardini al Convegno organizzato dai Francescani dell’Immacolata, tenuto il 16-17-18 dicembre 2010 a Roma ed intitolato "Il Vaticano II: un Concilio pastorale. Un’analisi storico-filosofico-teologica".

L’assoluta necessità del ritorno alla Tradizione è emersa, per usare un gergo fotografico, in negativo dalla brillante relazione del dottor Francesco Colafemmina sull’eclissarsi dello stesso concetto di bello nell’arte sacra, a mano a mano che la committenza ecclesiastica si allontanava dal richiamo dottrinale della Tradizione: se la bellezza se ne va con la Tradizione, con essa, inevitabilmente, dovrà tornare.

Particolarmente toccante, nella sua lucida disamina, è risultata la relazione di padre Yannick Escher, il quale ha portato la sua testimonianza di prete che ritrova le ragioni e la gioia del proprio sacerdozio nel ritorno alla Tradizione, illustrando, una per una, le strade che gli si aprivano dinanzi.

La giornata si è chiusa ascoltando una tavola rotonda con il dottor Alessandro Gnocchi (autore con il professor Mario Palmaro di testi coraggiosi, quanto autorevoli, sulla crisi della Chiesa e sulla Tradizione), padre Emmanuel du Chalard e padre Alain Lorans, a riguardo della situazione, in rapido mutamento, della Chiesa in Italia e, conseguentemente, a Roma. Come segni tangibili di speranza, sono stati citati, tra gli altri, gli ultimi libri di monsignor Gherardini e il volume Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta di Roberto de Mattei, oltre al già ricordato Convegno dei Francescani dell’Immacolata.

Il Congresso teologico si è congedato con la lunga quanto appassionante intervista di padre Alain Lorans a monsignor Bernard Fellay. Il Superiore generale della Fraternità San Pio X ha illustrato che cosa sia un prete, quale debba essere la sua identificazione con nostro Signore Gesù Cristo, quanto ciò che in un laico è un ""semplice" peccato" diventi, in un sacerdote, "vero e proprio sacrilegio"… L’amore per Cristo e per la sua Chiesa acquisisce, nelle parole del Vescovo, un senso unicamente sacerdotale, perdendo ogni connotazione terrena… nell’orizzonte di un prete così delineato non c’è spazio per altro che per Dio e per il Paradiso, per sé e per i fedeli a lui affidati. Ecco che, alla domanda su quale sia il contributo della Fraternità San Pio X alla Chiesa, la risposta del Superiore generale non poteva che essere quella di difendere il sacerdozio di sempre, affinché Dio mandi "molti santi sacerdoti".
Cristina Siccardi

giovedì 6 gennaio 2011

Convegno sul Vaticano II. P. Rosario Sammarco, La formazione permanente del clero secondo "Presbiterorum Ordinis"

Comunicazione per il Convegno Concilio Ecumenico Vaticano II. Un Concilio Pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica
P. Rosario M. Sammarco, Seminario Teologico “Immacolata Mediatrice”

INTRODUZIONE

Curare la formazione permanente del clero è stata, si può dire, sempre, una necessità della Chiesa e dei suoi Pastori. Questo perché a nessuno sfugge come sia insito nella natura umana stessa il dimenticare quanto già acquisito e che magari non si pratica. E quando questo succede ai Sacerdoti, il cui compito di istruire i fedeli e guidarli nelle vie della perfezione evangelica è qualcosa di importantissimo e delicatissimo, i danni possono essere notevoli.

Dovere del Sacerdote, Pastore del Popolo di Dio, è assicurare ai membri dello stesso il diritto a ricevere la Verità Rivelata e a partecipare dei frutti della Redenzione operata da Cristo. Quando, per qualche ragione, il Sacerdote non riesce a fare tutto questo ne viene condizionata la vita stessa della Chiesa.

Il dovere della formazione permanente per il Sacerdote si evince anche, specialmente nei nostri tempi, dai rapidi cambiamenti che interessano la società, la cultura e le stesse scienze sperimentali, ponendo ai diversi campi della teologia, e non solo di essa, delle sfide che egli è chiamato ad affrontare con competenza, anche perché spesso è visto dai fedeli come un “esperto di vita evangelica”.

Quindi, la formazione permanente si pone come un dovere di fronte al “nuovo che avanza”.
Il Concilio Vaticano II, per tanti versi, nasce proprio come un tentativo di risposta della Chiesa a questo “nuovo”, e proprio in quanto tale esige dai Sacerdoti un’attenzione particolare ad esso e un aggiornamento.

Ma, come fare questo aggiornamento? È un problema non da poco, la cui trattazione esula dai brevi limiti di questa comunicazione per entrare in quelli di altre che verranno tenute in questo convegno.

La formazione permanente del clero, infatti, comporta, secondo le richieste del Concilio Vaticano II, tutta una serie di iniziative, parte delle quali ci sembra siano state incoraggiate dai Pastori, mentre su altre, che già davano frutto, si è messa una colpevole pietra tombale, che esigono a monte una base teologica sicura. Se questa base teologica viene meno, le iniziative volte a promuovere questa formazione permanente diventano un boomerang dagli effetti devastanti.

Nel corso di questo breve studio vedremo innanzitutto che cosa la Presbyterorum Ordinis indica circa la formazione permanente del clero. In secondo luogo daremo un’occhiata a come, già a distanza di qualche anno, la direttiva viene recepita. Quindi faremo riferimento ad un caso specifico di iniziative positive per la formazione in vigore prima del Concilio e colpevolmente abbandonate, e quindi daremo dei rilievi prospettici conclusivi.

LA FORMAZIONE PERMANENTE DEL CLERO SECONDO IL DECRETO
SUL MINISTERO E LA VITA DEI PRESBITERI PRESBYTERORUM ORDINIS

Il decreto conciliare Presbyterorum Ordinis si occupa della formazione permanente del clero al n. 19. Il testo non è lungo e vale la pena riportarlo per intero, allo scopo di farne emergere i punti fondamentali.

Afferma dunque il decreto:
«Nel sacro rito dell'ordinazione il vescovo ricorda ai presbiteri che devono essere “maturi nella scienza” e che la loro dottrina dovrà risultare come “una spirituale medicina per il popolo di Dio”. Ora, bisogna che la scienza del ministro sacro sia anch'essa sacra, in quanto derivata da una fonte sacra e diretta a un fine altrettanto sacro. Essa va pertanto tratta in primo luogo dalla lettura e dalla meditazione della sacra Scrittura ma suo fruttuoso alimento è anche lo studio dei santi Padri e dottori e degli altri documenti della tradizione. In secondo luogo, per poter dare una risposta esauriente ai problemi sollevati dagli uomini d'oggi, è necessario che i presbiteri conoscano a fondo i documenti del magistero - specie quelli dei Concili e dei romani Pontefici - e che consultino le opere dei migliori teologi, la cui scienza è riconosciuta.
Ma ai nostri giorni la cultura umana e anche le scienze sacre avanzano a un ritmo prima sconosciuto; è bene quindi che i presbiteri si preoccupino di perfezionare sempre adeguatamente la propria scienza teologica e la propria cultura, in modo da essere in condizione di sostenere con buoni risultati il dialogo con gli uomini del loro tempo.
D'altra parte, però, ci si deve preoccupare di agevolare ai presbiteri il compito di approfondire i propri studi e di apprendere i migliori metodi di evangelizzazione e apostolato; in questo senso, possono risultare di grande aiuto - adattandoli logicamente alle situazioni locali - l'istituzione di corsi o congressi, la fondazione di centri destinati agli studi pastorali, la creazione di biblioteche e un'intelligente direzione degli studi da parte di persone capaci. I vescovi devono studiare altresì da soli o a livello interdiocesano - il sistema migliore per far in modo che tutti i loro presbiteri - soprattutto qualche anno dopo l'ordinazione - possano frequentare periodicamente dei corsi di perfezionamento nelle scienze teologiche e nei metodi pastorali; questi corsi dovranno servire anche a rafforzare la vita spirituale e consentiranno un proficuo scambio di esperienze apostoliche con i confratelli. Mediante tutti questi sussidi e altri del genere, si abbia una cura particolare dei parroci di nomina recente e di tutti coloro che iniziano una nuova attività pastorale o sono trasferiti a un'altra diocesi o nazione.
Infine, i vescovi devono anche procurare che alcuni presbiteri si dedichino allo studio approfondito delle scienze divine, in modo che non vengano mai a mancare dei professori competenti per le scuole ecclesiastiche, e specialisti in grado di orientare gli altri sacerdoti e i fedeli verso una maggiore istruzione religiosa; inoltre, con questo lavoro di ricerca si stimola quel sano progresso delle scienze sacre che è del tutto necessario alla Chiesa».
Fin qui il Decreto. Vediamone ora le note fondamentali.

Per il Decreto, la formazione permanente del clero deve avere queste caratteristiche:
  1. essere fondata sulla S. Scrittura, sui Padri e sui Dottori della Chiesa;
  2. abbracciare i documenti del Magistero per dare una risposta esauriente ai problemi attuali;
  3. abbracciare lo studio di teologi validi la cui scienza è riconosciuta;
  4. abbracciare e seguire anche il rapido evolversi delle scienze umane e teologiche.
Ai Vescovi viene demandato l’incarico di istituire corsi di formazione; congressi; biblioteche ed eventi vari e, insomma, di curare i vari aspetti di questa formazione. Non occorre molto per notare come, da parte di Vescovi e Diocesi, nel corso degli anni si sia cercato alacremente di dare attuazione a questo ambizioso programma, soprattutto per quanto riguarda la parte dell’istituzione di uffici diocesani per la formazione permanente del clero, affidati a diversi responsabili; o come ormai una notevole parte del giovane clero diocesano venga comunque avviato agli studi specialistici in questa o quella branca della teologia.

Juan Esquerda Bifet, in un suo studio sulla spiritualità e la missione dei presbiteri osserva a questo proposito: «Nei luoghi in cui si sono offerti al sacerdote mezzi adeguati di formazione permanente, questi si è visto rafforzato e reso capace di rispondere ai cambiamenti attuali senza perdere la propria identità, specialmente quando questa formazione è stata data anche come pastorale sacerdotale, cioè con l’assistenza e l’aiuto in ogni campo della sua vita e del suo ministero».

Riepilogando quanto emerso dal Decreto, dalla Dichiarazione Optatam Totius, e da altri documenti successivi, Bifet dà un’idea dei campi su cui deve intervenire la formazione permanente, la quale deve coinvolgere la spiritualità, la pastorale, la cultura, l’economia e gli aspetti personali del sacerdote.

In tutto questo, se, come abbiamo visto, il Concilio dà grande responsabilità ai Vescovi, non dev’essere trascurato il fatto che la fedeltà alla propria formazione permanente è compito affidato principalmente alla responsabilità del singolo sacerdote, sia in ordine a se stesso, sia in ordine all’aiuto da dare ai confratelli più giovani.

Un accento particolare in quest’ambito dev’essere riservato alla spiritualità e alla pastorale specificamente sacerdotali.

Il Bifet a questo proposito osserva: «Sarà poco efficace la formazione permanente se non è accompagnata da una vera pastorale sacerdotale. Il sacerdote ha bisogno di trovarsi m spirito di famiglia e non d’impresa, nel presbiterio. […] Se fallisse la formazione spirituale permanente, gli altri aspetti rimarrebbero molto indeboliti. Ecco allora la necessità di privilegiare l'organizzazione di ritiri periodici, esercizi spirituali, corsi di spiritualità, giornate dedicate a santi sacerdoti (Curato d'Ars, Giovanni d'Avila...), celebrazioni (nozze d'argento e oro), ecc. Uno dei settori più dimenticati della formazione permanente è proprio lo studio della teologia spirituale. Il sacerdote deve conoscere teologicamente e per esperienza tutto il processo della vita spirituale, come parte integrante del suo ministero. Infatti, il sacerdote deve guidare sul cammino della perfezione i fedeli che sentano questa chiamata, anche verso la contemplazione e i consigli evangelici».

Quanto visto finora, in modo breve e conciso, è ciò che “dovrebbe essere” e anche ciò che in parte (almeno quanto all’aspetto organizzativo) è di fatto. La tematica, forse, avrebbe meritato anche di essere maggiormente approfondita anche con l’ausilio di altre fonti bibliografiche e studi nel merito, ma lo spazio non ce lo concede.

Fuor degli auspici e dei positivi dati organizzativi vediamo, invece, cosa succede.

Il 4 novembre del 1969 la Congregazione per il Clero, allora presieduta dal Card. Giovanni Wright pubblica l’istruzione Inter Ea sull’istruzione e sulla formazione permanente del clero. Questa istruzione vuole in qualche modo essere un completamento e un approfondimento di quanto richiesto dalla Presbyterorum Ordinis, ma non manca di fare dei rilievi su quello che, già a distanza di 4 anni dalla pubblicazione della stessa, sta accadendo.

Tra le altre cose, l’Inter Ea afferma delle cose che, all’occhio di un semplice fedele, possono apparire a dir poco sconcertanti. Per esempio: «Ai nostri giorni […] vengono sollevati dubbi e discussioni riguardo a quasi tutte le cose, perfino circa le verità di fede; da ciò deriva che molti sacerdoti non hanno più una personale certezza circa l'autentica dottrina cattolica, fino al punto che vengono posti in dubbio o almeno in discussione persino i principi, che reggono e dirigono la vita cristiana e sacerdotale. Questo atteggiamento non favorisce per nulla quello spirito soprannaturale, che è assolutamente indispensabile alla vita e al ministero dei sacerdoti, ma li sospinge verso quella che chiamano " secolarizzazione ": e questa non solo talvolta esiste nella realtà, ma viene anche apertamente perseguita e intesa. Se infatti si perde il cosiddetto patrimonio della dottrina cattolica, che ognuno possiede in modo certo e personale e che dirige efficacemente la propria vita e attività, vengono a mancare gli aiuti con cui si può resistere al naturalismo e al materialismo pratico, di cui è totalmente impregnata ai nostri giorni la vita sociale».
E più oltre prosegue: «I giovani sacerdoti provano spesso difficoltà a conservare integralmente il deposito della fede, che Gesù ha trasmesso alla Chiesa. Molteplici sono le cause di questo fatto. In parte ciò deriva dalla crescente volontà di contraddizione, per cui non si esita a respingere anche le stesse verità tramandate della fede, soprattutto per quanto riguarda la maniera di esprimerle. Quest'inclinazione alla critica concerne anzitutto le dichiarazioni dell'autentico magistero ecclesiastico e arriva fino al punto di rimettere in discussione l'obbedienza. La causa di questo turbamento degli animi è anche in parte da trovarsi nell'accresciuto peso dato alle scienze sperimentali, le cui conclusioni talvolta i teologi interpretano in modo non conforme alla fede: questa interpretazione non è approvata nemmeno dagli stessi cultori di queste scienze, almeno da quelli che non sono imbevuti di qualche ideologia ostile alla religione cristiana».
Per la formazione teologica, l’Istruzione dice che deve: «prima di tutto proteggere pienamente e in tutte le sue parti la dottrina cattolica proposta dal magistero della Chiesa, spiegarla ed esporla con acutezza, adoperando gli aiuti e i sussidi, che le discipline dei sacri testi, i Padri della Chiesa e i " patrimoni filosofici perennemente validi " hanno apportato. Né si può omettere la dottrina cattolica sul dovere di difendere allo stesso modo l'autorità del magistero stesso della Chiesa. Bisogna presentare tutto ciò tenendo presenti le difficoltà, che sorgono circa la sacra dottrina a causa delle problematiche accanitamente oggi sollevate e alle quali bisogna dare una risposta veramente cristiana».

Per risolvere questi problemi, la Congregazione impegna tantissimo i Vescovi, ai quali viene, giustamente, demandato l’onore di scegliere i professori che andranno a curare la formazione permanente del clero.

Professori, il cui criterio di scelta dev’essere «la sana mentalità ecclesiastica. Il sentire con la Chiesa, che bisogna senza posa fomentare, richiede infatti un teologo fedele alla Chiesa. In genere infatti per favorire la vita sacerdotale e la sua forza persuasiva, bisogna realizzare una stretta connessione tra la scienza teologica e la spiritualità propria dei sacerdoti. E così possono essere ritenuti maestri adatti a questo scopo coloro che risolvono le questioni loro proposte, non coloro che suscitano e aumentano i dubbi. Non possono essere motivi per la loro scelta né la celebrità della quale pubblicamente godono, né la ricerca della novità nel proporre e spiegare le problematiche, o un modo di presentarle che risulti attraente ma che non istruisca o persuada. L'abitudine di impugnare le tradizioni, le istituzioni e l'autorità della Chiesa, non rende alcuno idoneo ad adempiere quest'ufficio».

Ci sembra che quest’ultimo sia, ancora oggi, uno dei problemi che maggiormente attanagliano la formazione permanente del clero e che sta causando notevoli danni. Il fatto cioè di privilegiare, per questa formazione, diciamolo in verità, non sempre, ma spesso, non il teologo che sente con la Chiesa, ma quello di grido e che va facendo proposte nuove. Con la conseguenza diretta, cui accennavamo già in apertura, che la lodevolissima formazione permanente del clero si sta trasformando in un boomerang che, spesso e volentieri, invece di contribuire a formare un clero più aderente al Vangelo e alla Chiesa, lo allontana sempre di più dall’uno e dall’altra.

Questo tipo di atteggiamento, è da imputarsi alla Presbyterorum Ordinis? Certamente no, perché il documento è chiaro, e le direttive limpide, evidenti, perfino lapalissiane. E a chi bisogna imputarlo? La risposta più ovvia è la responsabilità dei singoli, dei singoli vescovi e teologi in particolare, per i quali si richiede un serio esame di coscienza su questo punto.

Ma la radice di tutto, che suppongo venga sviluppata con più proprietà e competenza da altri in questa sede, sta in un problema teologico ed ermeneutico del Concilio che Papa Benedetto XVI ha espresso con i termini di “ermeneutica della rottura”.

A causa di questo si è dato, e si dà tuttora ampia cittadinanza negli studi teologici e nella formazione del clero a personaggi, per esempio, i quali ai loro tempi affermavano apertamente le loro dottrine come in contrasto con quelle tradizionali in nome di un rinnovamento teologico che ha portato ancora non si sa dove.

Oppure ad altri, tuttora di grido, uno dei quali, per es., afferma che: «Il Concilio, con la sua insistenza sulla storia della salvezza e sul dialogo con il mondo contemporaneo, ha provocato la teologia mettendo in crisi il suo intero corpo dottrinale e il suo metodo. La provocazione è stata così profonda che la teologia “ha cominciato a reagire, con qualche pericoloso estremismo, del resto inevitabile in un tempo di fermenti, ma in complesso in modo positivo e fecondo”». Il medesimo, più oltre afferma: «Con l’orientamento conciliare crolla la teologia aridamente speculativa, con il suo metodo concettuale, argomentativo e deduttivo, derivato dalla tarda scolastica […]».

A quest’ultimo soggetto vogliamo concedere il beneficio di tutte le buone intenzioni, ma francamente ci sembra che queste affermazioni siano quantomeno preoccupanti. Si parla, infatti, di messa in crisi dell’intero corpo dottrinale della teologia e della fede, e dello stesso metodo. Si bolla il metodo concettuale, argomentativo e deduttivo come superato, non più valido. E questo, si badi bene, è un pensiero comune a diversi e non solo all’autore citato.

E proprio in quest’idea sta forse la radice dell’improprio abbandono di uno dei modi più utili per curare la formazione permanente del clero e che era in vigore prima del Concilio: alludiamo alla soluzione mensile dei casi di morale, che qui vogliamo porre ad esempio di qualcosa di buono e valido che è stato, forse molto inopportunamente e ingiustamente messo da parte con notevoli perdite.

IL CASO DEI CASI

Nel 1991 il cappuccino P. Livio Dimatteo pubblicava un libro la cui preziosità, per la conoscenza del pensiero teologico-morale di s. Pio da Pietrelcina, è innegabile. Com’è pure innegabile che una tale opera si prestava, e si presta tutt’ora, ad essere un valido strumento di consultazione e di formazione per tanti sacerdoti. L’opera aveva per titolo: I Casi di Morale di Padre Pio e riportava, corredati da una certa introduzione, i verbali dei casi che, secondo la prassi cappuccina dell’epoca, P. Pio aveva risolto durante le esercitazioni stabilite dai regolamenti.

Questo libro porta alla conoscenza dell’ignaro sacerdote ordinato nel XXI secolo dell’esistenza fino al 1973 sia tra il clero secolare che tra il clero regolare di una prassi formativa permanente che si traduceva nella soluzione mensile di casi di morale presentati dalla Curia Diocesana o da quella Provinciale. In pratica, ogni mese si dovevano tenere tra i sacerdoti, a vari livelli, delle riunioni nelle quali un incaricato doveva svolgere e risolvere un caso assegnato dalle autorità, e questo doveva avvenire nel contesto di un dibattito cui dovevano partecipare i vari sacerdoti.

Questa usanza, di cui si trovano tracce nientemeno che già dopo il Concilio Lateranense IV, ebbe grande impulso con il Concilio di Trento e con i successivi Concili Provinciali applicativi, soprattutto con quelli milanesi. Fu proprio grazie a queste due realtà che l’uso di riunire il clero per fargli risolvere i casi di morale divenne una prassi ordinaria prima, e un vero e proprio obbligo, poi.

S. Carlo Borromeo, ci informa il P. Dimatteo, vedeva in questo un mezzo per realizzare «una certa uniformità di comportamento riguardo alla conduzione delle anime». Se, tuttavia, il Concilio di Trento aveva esortato alla pratica di queste riunioni, e i Concili Provinciali le avevano ulteriormente promosse, sarà solo con il Concilio Romano del 1725, cui partecipò, come canonista, il Card. Prospero Lambertini (futuro Papa Benedetto XIV), che queste riunioni divennero un vero e proprio obbligo.

Scrive il Dimatteo: «Stando a quanto decretarono i padri conciliari, le riunioni per le soluzioni dei casi di morale dovevano essere due al mese e due per ci casi di liturgia e, per renderle obbligatorie, vi fu annessa una pena pecuniaria per il clero diocesano. [...] Mentre per i religiosi vi era una pena spirituale, quella cioè di non poter ricevere le confessioni, se nei loro conventi non si tenevano tali riunioni».

Di queste riunioni si occupò anche il Codice di Diritto Canonico pubblicato nel 1917, che, al canone 131, parla esplicitamente di queste riunioni, pur non determinandone in modo specifico il numero, obbligando i sacerdoti che per giusta causa fossero assenti a tali riunioni, diocesani o regolari che fossero, a risolvere comunque i casi e mandarne la soluzione scritta alla Curia. In linea di massima, il numero di volte in cui si dovevano tenere queste riunioni era di 6 o 7 volte l’anno, cui se ne potevano aggiungere altre a discrezione del vescovo.

«Il fine che si propongono queste adunanze - scrive il P. Dimatteo - è di far crescere i sacerdoti nello spirito e di impegnarli nello studio delle varie discipline teologiche».

La cosa interessante è che, secondo che riporta lo stesso P. Livio Dimatteo, il Codice del 1917, pur sanzionando i trasgressori alla frequenza di queste riunioni, commina una pena piuttosto blanda. Il can. 2377, infatti, stabilisce che l’Ordinario punisca i trasgressori a suo prudente arbitrio. Nel caso i trasgressori fossero sacerdoti regolari non aventi cura d’anime viene stabilita la sospensione dall’ascolto delle confessioni.

Queste disposizioni restarono in vigore praticamente fino al Decreto Conciliare Presbyterorum Ordinis, pubblicato nel 1965. Questo auspicò, è vero, un aggiornamento costante del clero sotto il profilo teologico e pastorale, ma, per ragioni tuttora ignote, e forse spiegabili solo con l’idea del “tutto da buttare quanto fatto prima del Vaticano II”, si finì con l’arrivare alla rimozione degli obblighi di cui sopra, rimozione che venne codificata nel nuovo Codice di Diritto Canonico.

Quest’ultimo, osserva il P. Livio Dimatteo, riguardo ai sacerdoti regolari «dopo aver fatto notare l’utilità di mantenersi aggiornati nelle varie discipline ecclesiastiche (cfr. can. 659) esorta i componenti dei vari Istituti Religiosi affinché: “Per tutta la vita i religiosi proseguano assiduamente la propria formazione spirituale, dottrinale e pratica; i Superiori ne procurino loro i mezzi e il tempo” (can. 661)”. Il fine che si propone il magistero è sempre quello della formazione spirituale e dottrinale e quello di una certa uniformità nella vita pastorale; chiaramente per il loro particolare stato di scelta hanno bisogno dell’aiuto del Superiore per realizzare i desideri espressi dal canone».

Come rilevato dallo studio del P. Cappuccino, quantomeno in questo Ordine, negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II e alla Presbyterorum Ordinis diversi Superiori provinciali cercarono di mantenere in vigore l’uso e l’obbligo di queste riunioni, ma restarono per lo più inascoltati. Alla fine, nel 1973, si arresero.

Non ho potuto indagare approfonditamente su quale sia stata la situazione nel clero diocesano a questo proposito nell’immediato post-concilio, ma dal tono usato dal P. Dimatteo è facile arguire che le disposizioni del CJC del 1983 più che l’affermazione di qualcosa da fare nel merito furono la presa di coscienza di un dato di fatto: la preoccupazione della soluzione dei casi di morale non c’era praticamente più e queste riunioni venivano sistematicamente disertate per fare altre cose. Inutile, allora, continuarne ad imporre l’obbligo, anche se non erano nulla di vecchio, né di anticonciliare. Del resto, comunque, la possibilità di farle rimanere in qualche persona di buona volontà è salvaguardata.

Ci pare, tuttavia, che questo dei Casi sia un esempio che testimonia come in nome del “nuovo” si sia buttato via qualcosa che semplicemente non era vecchio, ma attuale.

Concediamo, indubbiamente, che la teologia morale avesse bisogno di un rinnovamento e che la stessa pastorale avesse certe esigenze. Ma, da studiosi di morale quali siamo, non possiamo fare a meno di rilevare come, da un lato, la preoccupazione delle situazioni da risolvere in confessionale giustifichi la necessità di mantenere qualcosa di simile a quanto abbiamo visto; dall’altro come l’autentico rinnovamento della teologia morale e di quella pastorale siano state e siano portate tutt’oggi avanti da personaggi di grande levatura teologica che hanno prodotto il nuovo senza rigettare il vecchio.

CONCLUSIONE

Quanto fin qui detto mostra come c’è stato un certo divario tra le indicazioni offerte dalla Presbyterorum Ordinis circa la formazione permanente del clero e quello che poi è stato fatto. Le indicazioni date, da parte loro, ci sembrano giuste e assennate, oltre che doverose. La formazione permanente per i sacerdoti è, effettivamente, un dovere e un dovere grave perché gli mette tra le mani gli strumenti per vivere meglio la sua vita spirituale e svolgere al meglio il suo ministero.

Siccome, però, i sacerdoti sono uomini come tutti gli altri, esposti a pigrizie, debolezze e quant’altro, è giusto insistere perché questa formazione venga rimessa non solo alla responsabilità personale del singolo sacerdote, ma che venga incoraggiata, promossa, sostenuta, dai vescovi e dalle conferenze episcopali.

Fermi restando, tuttavia, gli oggettivi limiti che può avere una dichiarazione di un Concilio Ecumenico, si possono tuttavia fare due appunti, uno dei quali già ripreso in precedenza.

Il primo appunto riguarda la qualità dei teologi coinvolti in questa formazione permanente. In verità, come già si osservava prima, non è questo un appunto da farsi tanto al documento conciliare, che è chiaro, ma a chi lo ha applicato, vale a dire a chi ha scelto e sceglie i teologi in questione. Perché è un dato di fatto che, se, come rilevato sopra, si bada a scegliere il teologo di grido o a trasmettere le dottrine di grido, senza valutarne l’effettiva cattolicità, l’effettiva conformità al sentire cum Ecclesia e con la grande Tradizione, non si fa una formazione permanente, ma si rischia di fare una deformazione permanente.

Da questo punto di vista, proprio alla luce di uno studio che abbiamo preparato lo scorso anno per un altro convegno e che trattava di problematiche odierne della vita religiosa, è nostra personale ma forte convinzione che buona parte dei disastri che coinvolgono oggi la Chiesa dipendano proprio da questa deformazione, la quale viene, peraltro, in nome del Concilio, “lodevolmente” imposta.

Il secondo appunto, da situare, tuttavia, in un contesto di Diocesi o Regioni Ecclesiastiche dove la formazione permanente è fatta secondo i criteri offerti dalla Presbyterorum Ordinis prima e dalla Inter Ea dopo, riguarda la forza obbligante di questo tipo di offerta formativa.

Per capirci: si parla tanto di obblighi, ma non si parla di sanzioni che aiutino ad osservare questi obblighi. Ma un obbligo che non viene sanzionato, a livello psicologico non ha forza vincolante. Di conseguenza si rischia che attendano alla propria formazione permanente solo un numero esiguo di destinatari della stessa, mentre è urgente che essa sia estesa a tutti. Anche qua pensiamo che la cosa, con la debita discrezione, sia di competenza, più che del Codice di Diritto Canonico, cui tuttavia non ci sembra guasterebbe, dei singoli Vescovi e dei singoli Superiori Religiosi.

Infine, riproponiamo la domanda che ci opprime il cervello da parecchio tempo: è proprio necessario rigettare sempre le cose passate per portare avanti il nuovo? E se invece si imparasse a fare come l’evangelico scriba sapiente del quale Gesù dice che sa trarre dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie?

Mi aspetto dai competenti la risposta a questa domanda.