Ricevo da Marco Bongi, che ringrazio, e pubblico per condividere con molti, spero.
Il disagio, le traversie spirituali, le battaglie ed il coraggio di un sacerdote autenticamente cattolico costretto purtroppo a convivere con una realtà ecclesiale spesso incomprensibile
a cura di Marco BONGIDon Alberto,
la Sua figura di sacerdote, tornato alla S. Messa di sempre in occasione del Motu Proprio, fece molto parlare i media negli anni 2007 - 2008. Oggi, dopo parecchio tempo da quei convulsi avvenimenti, Le chiediamo di risponderci ad alcune domande che possano consentire ai fedeli italiani di conoscere meglio la Sua storia e l'apostolato che sta svolgendo.
R. Sono nato a Domodossola, ma la mia famiglia si trasferì nel biellese, mio papà era carabiniere, e li passai gli anni dell'infanzia in una buona parrocchia, guidata da un vecchio parroco, classe 1890!, un patriarca, con una fortissima devozione alla Madonna, lì sicuramente ci fu il primo germe della vocazione. Il servizio all'altare, il mese di maggio, il santuario di Oropa... accanto alla fedeltà della mamma al suo compito quotidiano e alla messa, al senso del dovere e dell'ordine del papà e tante altre cose che segnarono positivamente la mia infanzia cattolica. Poi tornai a Domodossola con la mia famiglia, mi iscrissi al liceo scientifico statale... bei ricordi, anche se nel 1977 il clima era, anche in provincia molto laicista. In quel liceo vissi poi un'intensa militanza cattolica in Comunione e Liberazione. Eravamo pochi, ma agguerritissimi. Ricordo quegli anni: preghiera ( dicevamo lodi, ora media, vespri e compieta, rosario, messa quotidiana – a 15, 16 anni! - e studiavamo su libri diversi da quelli adottati dai professori, per difendere la Chiesa e la sua Storia). L'amore alla Chiesa, con la sua conoscenza, crebbe sempre di più. Leggevamo i grandi autori spirituali, penso a san Benedetto, a Teresa D'Avila... per me fu naturale e prepotente l'evidenza della vocazione Sacerdotale. Cristo è tutto, la Chiesa è il suo Corpo: come non dare la vita per questo?
In Seminario entrai dopo la maturità a 19 anni. Grande aiuto dal Padre Spirituale, cattolicissimo, molto meno dalla teologia, che ho pur fatto con passione. La colpa? In quegli anni era tutto un cantiere di opinioni personali, ideologicamente ancorate alle teoria rahneriane. Ma attraversai serenamente quegli anni, abituato dal liceo a “battagliare” positivamente per la fede. Non ce l'ho con nessuno, ricordo con simpatia tutti i docenti, ma ero già preparato dalla militanza cattolica precedente a vigilare su qualsiasi insegnamento. Ogni giorno in seminario si guardava all'orizzonte attendendo la restaurazione cattolica... che non arrivava mai!
R. Ordinato sacerdote mi mandarono, venticinquenne, in una grande parrocchia molto cattolica, con un grande oratorio, ne ero l'assistente. Non fu facile: insegnavo religione alle medie, e tutto il resto della giornata era vissuto tra oratorio e chiesa parrocchiale, un gran lavorare dovendosi confrontare con linee ecclesiali molto differenti dalla mia, già marcatamente tradizionale. Spero di aver fatto un po' di bene e poco male.
Andai poi in Francia per circa un anno, attirato dall'esperienza canonicale, perché sentivo il bisogno di un sostegno sacerdotale maggiore: i canonici regolari, come i monaci, avevano fatto l'Europa Cristiana, mi sembrò di trovarvi una soluzione per un migliore servizio a Dio e alle anime. Tornai, perché in abbazia riscontrai le lotte teologiche e le stanchezze del seminario: il clima di confusione non è rimasto fuori dai conventi, come non è rimasto fuori dai nostri cuori.
Approdai poi nella Valle Vigezzo, dove ancora mi trovo, prima come aiuto a un Santuario e poi come parroco. In tutti questi anni continuai a insegnare religione nelle scuole.
R. Difficile rispondere. È come se ci fosse sempre stata. Ricordo di non aver mai sopportato un certo modo di celebrare, di aver avvertito il ridicolo di molte liturgie, questo da sempre. Era come sapere che si era in un momento confuso, di guado drammatico, ma che si sarebbe tornati a casa. Tutto in chiesa ti parlava della liturgia antica, solo lei mancava, e si aspettava.
Da vicario parrocchiale e più ancora da parroco feci tutto quello che al momento mi sembrava possibile: altare ad orientem, canto gregoriano con i fedeli, comunione in bocca, uso costante dell'abito talare, incontri di dottrina per gli adulti, catechismo tradizionale per i bambini. Ma non bastava, c'era il cuore della messa in questione, ma come fare, ero già “inquisito”da anni per quel poco che avevo fatto!
Nel 2005 introdussi nella messa di Paolo VI prima l'offertorio poi il canone della messa di sempre.
Aspettai con pazienza il più volte annunciato Motu Proprio, che sembrava non arrivare mai, e l'11 luglio 2007 iniziai, era un martedì, a celebrare solo la messa di sempre. Devo dire che il colpo finale lo diede mio fratello: in una gita in montagna il giorno prima mi disse “non so cosa stai aspettando”... era il segno che dovevo iniziare.
R. Sarò brevissimo: trovo assurdo l'obbligo al biritualismo. Se si è trovato il vero, il meglio, ciò che esprime più compiutamente la fede cattolica, senza ambiguità pericolose, perchè mai bisognerebbe continuare a celebrare qualcosa di meno. Nel biritualismo, di fatto, un rito muore e l'altro resta. Nel biritualismo il prete si stanca nella tristezza di una specie di schizofrenia, e il popolo non è edificato, educato, consolato nella bellezza di Dio. Evito un discorso teologico-liturgico, non è il caso in una intervista, dico solo che chi resta nel biritualismo, prima o poi abbandonerà la messa di sempre e si confezionerà delle ragioni per restare nel mondo della riforma, magari vissuta in modo conservatore, con una tristezza dentro, come chi ha tradito l'amore per Dio della giovinezza. Devo aggiungere che fu molto di aiuto per me la lettura de “ La riforma liturgica anglicana” di M.Davies. Testo fondamentale, chiarissimo: l'ambiguità del rito porta all'eresia di fatto. Non è quello che ci è successo?
R. Nessuno si stupì. I sostenitori dissero:finalmente! I contrari dissero: l'avevamo detto! Ma direi che la quasi totalità della gente si mise di impegno: prendevano il foglietto, volevano capire... un bel clima di fervore.
Fui sempre poi aiutato da un gruppo di fedeli, semplici e forti, che furono sempre pronti a lavorare con me; penso specialmente a quelli che dal 1995 continuano a fare prove di canto.
Poi si iniziò a dire che disobbedivamo al Vescovo, poi al Papa e allora tutto fu più complicato, ma all'inizio non fu così.
R. Sparirono tutti. Alcuni disapprovarono, la maggioranza taceva, qualcuno raro nottetempo ti diceva che non era contro, ma pubblicamente non poteva fare niente. Era il terrore della disobbedienza ufficiale. Da parte nostra, io e don Stefano - il sacerdote che ha intrapreso lo stesso percorso e con il quale lavoro, pur avendo campi di apostolato differenti, non siamo mai mancati alle riunioni sacerdotali di vicariato, partecipandovi con passione, come sempre.
D. - Oggi che le tensioni si sono fortunatamente stemperate, come sono i rapporti col Vescovo e con i confratelli?
R. Sembra tutto tranquillo, anche se si avverte che c'è molto di non risolto, perchè si è sempre evitato un discorso profondo sulle ragioni della nostra scelta. È come se si volesse restare in superficie, a un livello puramente giuridico. Speriamo che qualcosa in questo senso migliori col tempo.
R. La Chiesa è di Dio, allora devo sperare. Anche se avverto che questa crisi, profonda e tristissima, sarà lunghissima. C'è dentro il cristianesimo un pensiero non cristiano, lo diceva Paolo VI!, e oggi è vulgata popolare. Moltissimi pensano di essere cattolici, ma non lo sono più. È terribile. È l'abbandono di Gesù Cristo stando dentro la Chiesa, più ambiguità di così!
La Fraternità deve continuare l'opera di Mons. Lefebvre, custodire il sacerdozio, la fede, la messa di sempre...un giorno sarà evidente a tutti la sua funzione provvidenziale. Amare la Chiesa vuol dire custodire il tesoro di fede e di grazia che le ha consegnato N.S. Gesù Cristo e che la costituisce, questo lo fa da sempre la Fraternità, per questo benedico Dio.
R. Non so. So solo che la vita delle nostre montagne prendeva forma dalla messa cattolica, quella di sempre. La vita della gente di quassù era educata dalla liturgia tridentina a stare difronte a Dio drammaticamente, cioè con una positività che educa la vita. Ma il mondo “americanizzato” è arrivato quassù, anche grazie alla chiesa purtroppo, e ha fatto disastri nell'umano.
R. Messa quotidiana, 2 messe la domenica, confessioni tutti i giorni mezz'ora prima della messa, scuola a Domodossola, quest'anno 13 classi, incontri di dottrina cattolica al venerdì, catechismo ai bambini, prove di canto settimanali...e poi un po' di vita ritirata, un po' monastica se mi riesce perché il sacerdote, se vuole fare un po' di bene non deve stare troppo in mezzo.
Vivo una grande fraternità sacerdotale con don Stefano, che è tornato anche lui alla messa tradizionale, che celebra per i suoi fedeli nella chiesa dell'ospedale di Domodossola: è una fraternità operativa anche, visto che i nostri fedeli hanno molti momenti comuni. Tutto questo ha fatto nascere un bollettino e un sito che documentano la nostra vita.
Quanti fedeli frequentano? Non so. Varia il numero. Possono arrivare ai 120 nelle domeniche estive, d'inverno calano, data la distanza del luogo. Ma ho imparato a non contare: i re d'Israele erano puniti quando facevano censimento.
R. Ha ribadito che la messa di sempre non fu mai vietata e che non può essere proibita. Ma chi non la vuole ammettere continuerà a confondere le carte.
Inserisco, a riprova della Grazia che fluisce da Vocogno il video della celebrazione dell'Assunta.