La favola moderna che stordisce.
La morte delle Kessler e il dolore che la coscienza evita di vedere
La notizia della morte delle gemelle Kessler ha riempito i giornali con la leggerezza delle storie costruite per consolare. Le immagini d’archivio, i ricordi di un’Italia televisiva più ingenua, la simmetria delle due sorelle sempre insieme hanno permesso di costruire un racconto irrealmente elegante. La cultura ha confezionato la loro uscita di scena come un finale poetico, un gesto armonioso che chiude una vita vissuta in coppia. La narrazione dominante ha preferito trasformare una tragedia in una favola moderna per evitare di guardare ciò che pulsa sotto la superficie.
Dietro le foto patinate c’è la stanchezza accumulata di quasi novant’anni, c’è la fragilità che un mondo ossessionato dall’autonomia non riesce più a sostenere. Le due sorelle hanno vissuto un’intera esistenza come un unico volto, un unico passo, una sola immagine. Hanno costruito un “noi” che il pubblico ha amato e che è diventato il loro rifugio più sicuro. Questo “noi” però non ha generato una comunità reale e non ha creato relazioni capaci di reggere il peso dell’età. È rimasto un recinto privato, affascinante e fragile nello stesso tempo.
La loro scelta di morire insieme appare coerente con una vita dove la coppia è stata tutto. È anche il segno più eloquente della società che abbiamo costruito. La paura di restare soli è diventata il vero motore nascosto di molte decisioni contemporanee. Il mondo proclama l’indipendenza, esalta l’individuo, celebra la libertà. Quando arriva l’ora della debolezza, l’individuo scopre di non avere più una comunità che lo sostiene. Resta solo la simbiosi, resta l’immagine, resta il legame chiuso che non si è mai aperto del tutto alla realtà. Una vita a due può diventare la forma più raffinata di solitudine.
Questa storia mostra la fuga dalla vulnerabilità che la nostra epoca trasforma in autodeterminazione. La cultura considera intollerabile il limite, considera inaccettabile la sofferenza, considera invadente la dipendenza. La morte programmata insieme diventa l’ultimo gesto di padronanza, un atto di regia personale che offre l’illusione di restare protagonisti fino alla fine. L’immaginario contemporaneo applaude a questa visione perché è l’estetica della libertà senza relazione, una libertà che non sopporta il pensiero di essere custodita da altri.
La retorica pubblica sta già sfruttando questa vicenda. Alcuni presentano il suicidio assistito come una conquista civile da ampliare, un diritto da rivendicare, un modello esistenziale capace di esprimere maturità. La narrazione digitale riduce tutto in slogan e propone l’idea che la dignità consista nella possibilità di scegliere il momento e il modo della propria morte. Questa logica non sostiene la vita, la impoverisce. Riduce la fine dell’esistenza a un prodotto da confezionare. Trasforma il corpo in un territorio da gestire. Trasforma la morte in un’opzione da difendere. La cultura dei social chiama libertà ciò che nasce dalla paura.
Il cristiano non demonizza le sorelle, riconosce la ferita che hanno portato e la offre alla misericordia di Dio. Non confonde la scelta volontaria con la dignità. Non identifica l’autodeterminazione con il bene. Il cristiano custodisce la vita in ogni stagione, anche quando chiede pazienza, aiuto, presenza e amore. La fede non traveste la fragilità, la accoglie come il luogo in cui Dio raggiunge l’uomo. Il credente non cerca il controllo, cerca la consegna. Non fugge dalla vulnerabilità, la vive come il punto in cui la creatura può finalmente lasciarsi prendere.
La storia delle Kessler rivela la distanza ormai evidente tra il racconto del mondo e la visione cristiana dell’esistenza. Da una parte c’è l’immaginario estetico che trasforma tutto in spettacolo. Dall’altra c’è la verità della vita che chiede di essere accompagnata. In mezzo resta la responsabilità dei cristiani: custodire il valore della morte come atto di consegna, educare a riconoscere il limite come il punto in cui Dio si fa vicino, sostenere la dignità che nasce dall’affidamento e non dal controllo.
In fondo a queste due splendide donne, di cui tutti i nostri nonni erano innamorati, è mancato ciò che nella vita umana è il gesto più misericordioso: lasciare la mano a chi scende per primo da questo carrozzone che è l’esistenza. È un coraggio che appartiene ai forti, perché chiede lucidità. La lucidità di riconoscere che ogni distacco resta provvisorio. Ogni separazione si apre alla promessa di un ritrovarsi. Ogni addio contiene già una ripresa per mano.
Questa serenità è il frutto della fede. La fede dona il coraggio di attraversare la fragilità senza fuggire. Dona la calma di chi sa che il tempo non separa in modo definitivo. Dona la certezza che il Signore custodisce ogni legame e non permette che vada disperso. Solo chi vive in Dio può restare nella storia fino all’ultimo respiro senza sentirsi abbandonato. Solo chi si affida al Signore scopre che nulla si perde, perché tutto ciò che viene consegnato a Lui ritorna trasfigurato in vita eterna.
don Mario Proietti

14 commenti:
Don Mario ha espresso scrivendo un bellissimo pensiero in cui ci sono dei passaggi significativi. Uno dei tanti mi ha fatto riflettere: "Il credente non cerca il controllo, cerca la consegna. Non fugge dalla vulnerabilità, la vive come il punto in cui la creatura può finalmente lasciarsi prendere". Tutto molto bello e tuttavia si astiene dal considerare la realtà. Il credente ha scritto, ma quanti sono oggi i credenti, quelli disposti a custodire la vita in ogni stagione, anche quando chiede pazienza, aiuto, presenza e amore. La fede non traveste la fragilità, la accoglie come il luogo in cui Dio raggiunge l’uomo. La fede, quando c'è!
Purtroppo la loro, come quella di altri meno famosi, è una scelta che nasce dal vuoto di una vita senza Dio. Che Dio abbia misericordia. Speriamo che abbia trovato il modo di salvarle, come la suicida dal ponte di cui raccontava il santo Curato d'Ars.
Bravo don Mario Proietti! Tristezza e pena non solo per queste due povere donne fagocitate da un nefasto e luciferino pensiero dominante, ma anche per la sorte di un mondo perduto e sull'orlo del precipizio che fatto della libertà una bandiera col solo emblema dell' orgoglio e della superbia
Sarebbe importante che i preti colgano l'occasione per spiegare al popolo che il suicidio è peccato mortale (e lo è anche l'assistenza al suicidio), e che il peccato mortale non porta alla salvezza. Qualcuno lo dica anche al don Proietti, autore della pagina sopra citata.
Sarebbe importante anche che i preti spieghino che la gente che ha dato pubblico scandalo (come l'han dato soggetti celebrati perché per mestiere stuzzicavano i telespettatori a peccare) dovrebbe aver la decenza di pubblicamente pentirsi (come una Claudia Koll, eccezione decisamente rara).
Il mondo dell'entertainment è composto quasi esclusivamente da gente che lucra inducendo al peccato. Comici, ballerine, presentatori, cantanti, attori... e non solo riguardo alla sfera sessuale (che resta il motore principale del mondo dello spettacolo).
Quanto a tutte le prediche sul "dramma umano", sulla "fragilità", e su tante altre stronzate, umilmente ci permettiamo di chiedere: per pietà, basta! ci avete scassato i cosiddetti! State predicando aria fritta a gente che non sa con quale mano ci si fa il segno di croce, a gente che non trova incompatibilità fra il Credo appena recitato in italiano a Messa e la "reincarnazione" e il "karma", a gente che non trova per nulla scandaloso che il vescovo prenda il caffè con gli imam, o che un Papa avalli la "dichiarazione di Abu Dhabi" che dice che tutte le religioni sono uguali... Dobbiamo dedurre che padre Pio, don Bosco, padre Kolbe, si siano sbagliati, così come Pio IX e Pio X? Siete pastori o mercenari?
Questi sono i testimoni dei nostri tempi... del resto i media mainstream ne stanno facendo un esempio. Finora non ho ancora sentito una voce a favore della sacralità della vita!
Graziè mic per questo articolo. Ma il suicidio assistito delle due gemelle è stato sponsorizzato dalle reti televisive come un supporto all'approvazione in Italia di una legge analoga a quella tedesca sul suicidio assistito. Loro , i tedeschi , sono piu' progrediti di noi. Cosa aspettiamo ad imitarli ?
La legge che liberalizza l'eutanasia e' al vaglio del Parlamento. Ma una regione, la Toscana ha gia' approvato una sua legge ìn questa ottica.
Nessuna voce in televisione si e' levata a difesa della visione cristiana della vita.
Ci sara' qualcuno in parlamennto che alzera' la voce pe ricordare che la nostra vita e' nelle mani del Signore e che dipende dalla Sua volonta'
Oggi ho letto la notizia del suicidio assistito di Alice ed Ellen Kessler. Ho letto il loro “testamento umano e spirituale”, e subito dopo ho visto come molte persone, soprattutto qui in Occidente, hanno applaudito il loro gesto definendolo libertà, amore, dignità. E mi è venuto un nodo allo stomaco.
Forse perché io vengo da un Paese dove la libertà è rara, preziosa, e spesso negata. Soprattutto alle donne. Forse perché so cosa significa vivere sotto un sistema che non ti permette di scegliere nulla — né dove andare, né come vestirti, né se studiare, lavorare o difenderti. Forse perché ho visto donne morire senza aver mai davvero vissuto. E vedere la parola libertà usata per definire la scelta di morire, quando in tanti Paesi la gente lotta disperatamente per avere la libertà di vivere… mi ha confusa, ferita, scioccata.
Le parole delle sorelle:
“Il nostro desiderio è andarcene insieme, lo stesso giorno. L’idea che a una delle due capiti prima è molto difficile da sopportare. Io e Ellen vogliamo che le nostre ceneri vengano mischiate con quelle di nostra madre… L’urna comune fa risparmiare spazio. Al giorno d’oggi si dovrebbe risparmiare spazio ovunque. Anche al cimitero.”
Queste parole mi hanno gelata. E poi ho letto l’articolo che le elogiava: “Hanno scelto di essere libere fino alla fine. Non mi viene in mente un atto d’amore, di libertà e di dignità più grande e commovente di questo. E nessuno di noi ha il diritto di sindacarlo.” E mentre leggevo questi commenti, il mio cuore si ribellava dentro di me.
Io non riesco a chiamare “libertà” la decisione di morire. Non riesco a chiamare “amore” il sottrarsi alla vita. Non riesco a chiamare “dignità” l’idea che il dolore, la vecchiaia, la malattia o la solitudine siano motivi sufficienti per programmare la propria fine. Forse perché vengo da un mondo dove la morte arriva da sola. Dove non puoi sceglierla, non puoi anticiparla, non puoi controllarla. Forse perché ho visto troppe vite spezzate senza possibilità di appello: donne cristiane uccise solo perché cristiane, ragazze costrette a matrimoni forzati, bambini privati dell’infanzia.
E allora mi chiedo: com’è possibile che chi ha tutto — libertà, diritti, sicurezza, medicine, assistenza — trasformi la morte in una scelta e la chiami anche “progresso”?
La cosa che mi ha sconvolta non è solo il gesto delle due sorelle, ma la reazione della gente. La celebrazione. Gli applausi. Il romanticizzare la morte. Viviamo in un’epoca dove ribaltare i significati sembra normale. Dove la sofferenza non ha più valore. Dove il dolore non è una parte del cammino umano ma qualcosa da evitare a ogni costo. Dove l’attesa della morte naturale non è più accettata.
E dove — mi duole dirlo — anche la Chiesa, a volte, fallisce nel ricordare il senso della vita, della sofferenza e soprattutto il valore che Dio ha posto nella nostra esistenza. Una Chiesa che in alcuni casi sembra avere paura di dire chiaramente che la vita è sacra, che non siamo noi i padroni della nostra fine, che la sofferenza — per quanto misteriosa — non è mai priva di significato agli occhi di Dio.
Segue
La fede mi ha insegnato che non siamo soli nel dolore. Che Cristo non ha evitato la sofferenza, ma l’ha portata, l’ha attraversata, l’ha trasformata. La fede mi ha insegnato che la morte non è una fuga programmabile, ma un incontro: l’incontro con Colui che ci ha creati. E che il tempo della nostra vita — anche quello più fragile — appartiene a Dio, non a noi.
Chi ha conosciuto la mancanza di libertà, non userà mai la parola libertà per giustificare la morte. La libertà è respirare. È poter camminare per strada senza paura. È poter pregare. È poter studiare. È poter vivere. È avere una nuova possibilità ogni giorno, anche quando la vita pesa. Questa, per me, è libertà. Non certo decidere la propria fine.
Se potessi portare queste persone in Pakistan anche solo per un giorno, farei vedere loro le donne che non possono uscire di casa da sole. Le ragazze che non possono scegliere il marito. I cristiani che non possono difendersi neppure da una falsa accusa. Chi prega di sopravvivere fino al giorno dopo. Chi desidera solo una possibilità di vivere, non di morire. Forse allora capirebbero quanto la vita è un dono fragile, prezioso, unico. E cosa significa davvero la parola libertà. E forse capirebbero che la vita è sempre degna, perché viene da Dio, e che nessun dolore può essere così grande da cancellare il valore che Dio ha scritto in noi.
In che mondo stiamo andando? Un mondo che chiama morte “libertà”. Un mondo che confonde amore con fuga. Un mondo che considera la sofferenza inutile. Un mondo che applaude ciò che è più contrario alla vita stessa. Un mondo che parla tanto di dignità, ma dimentica la dignità più grande: essere figli di Dio, amati anche nelle nostre fragilità.
E io, sinceramente, ho paura di un mondo così. E prego, davvero, che possiamo ritrovare il senso di ciò che siamo: creature fatte per vivere, non per programmare la propria fine.
Nulla sapevo della loro morte e di come sono morte. Avevo intravisto la loro foto velocemente questa mattina, ma non ho pensato a qualcosa di tragico e ho seguito la mia altra ricerca. Sì, oggi si vuol dominare anche la morte, tutta la vita si vuol controllare a modo proprio. Così tutto, prima sono i genitori a guidarci poi cominciamo a far da soli. Le loro biografie non le conosco, la loro professione richiedeva un continuo controllo nell'allenamento, nelle prove, negli spettacoli,nel mangiare, verosimilmente in quasi tutto, medici e medicine comprese. Una vita regolata fin nei dettagli. Non credo che sia entrata seriamente una religione nella loro vita, forse una filosofia. Vite comunque rigorose offerte al palcoscenico. Non mi stupisce questa loro scelta è quella che la loro vita ha preparato. Peccato. Anche una breve malattia, una rapida agonia avrebbe potuto far conoscere loro che soli non siamo che 'Qualcuno' ci viene a prendere e i nostri cari sono intorno.Questo posso dire con certezza da quanto ho seguito nel trapasso dei miei cari. Vedono e parlano con qualcuno che noi non veddiamo e non udiamo.
Infatti il primo tragico mio pensiero e' stato : " Una bella pubblicita' per i
radicali di L.Coscioni ed anche poveri prelati e non prelati , cogitanti sul male minore".
Madre Teresa di Calcutta diceva che la peggiore povertà non è la mancanza di cibo, ma essere non amati, non voluti e dimenticati. Sottolineava che c'è una "fame d'amore" e una solitudine che affliggono molte persone, anche nei paesi ricchi. La sua missione era riconoscere la dignità di ogni persona, specialmente dei più poveri, non solo con l'assistenza materiale ma soprattutto offrendo amore e compassione.
Le Gemelle Kessler....rimossa la Croce, trionfa la disperazione
Il Cammino dei Tre Sentieri
https://www.youtube.com/watch?v=P1AL6YLjwcE
Ben detto, amico, una conclusione che fa riflettere : no, io non credo affatto che questi siano pastori, mercenari non saprei, ma pastori no di certo, non lo sono più, e da decenni ormai. Dai seminari non escono più preti cattolici, come fino al nefasto CV II....chi odora di cattolico lo cacciano, o gli fanno il lavaggio del cervello ( ho letto che in America li mandavano addirittura nelle cliniche psichiatrice per farli rinaavire, secondo loro). Solo melassa buonista, umanitarismo ateo, buonismo massonico, dei Novissimi manco l'ombra, del senso del peccato idem, l'esortazione alla conversione, al cambiamento di vita è irreperibile. No, non sono i miei pastori. LJC, Catholicus
Vogliono farci pagare con le tasse anche gli omicidi suicidi.. tanto ci vogliono morti e pure complici ..come già siamo complici degli omicidi con gli aborti pagati dalle nostre tasse... satanico est.
Sono riuscito ad arrivare in fondo a questo effluvio di melassa appiccicosa e inconsistente proprio perché, come ha già scritto qualcuno, non parla di peccato e neanche dello scandalo enorme, trasmesso dai media che ormai trasformano tutto in "moda", appunto la moda del suicidio. Non ho nessuna compassione, solo un senso di solitudine e di scoramento per una chiesa che non conforta, non ammonisce, che sa usare solo le categorie sociologiche e psicologiche, senza mai nominare il castigo di Dio, il peccato contro lo Spirito Santo, la testimonianza dei santi, il dono supremo dei martiri.
C. Gazzoli
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