Quando la giurisdizione minorile diventa ingegneria sociale:
Il caso della "famiglia nel bosco"
Ho riflettuto tutto il pomeriggio. Vi propongo alcune semplici riflessioni:
La vicenda è, nella sua essenza, semplice e drammatica. Una coppia anglo-australiana vive da anni in un’area boschiva del territorio di Palmoli, nel Chietino, in un rudere privo di utenze e in una roulotte, con tre figli di sei e otto anni. La loro è una scelta consapevole: vita essenziale, forte contatto con la natura, cura diretta dei figli, istruzione parentale, rifiuto di molti elementi della cosiddetta "vita moderna".
La miccia che porta l’autorità giudiziaria a intervenire è un episodio di intossicazione da funghi, seguito da ricovero ospedaliero; da lì la segnalazione, l’attivazione dei servizi sociali, una prima sospensione della responsabilità genitoriale senza allontanamento, e infine il nuovo provvedimento del Tribunale per i minorenni dell’Aquila che dispone l’inserimento dei bambini in comunità, con collocazione della madre nella medesima struttura e sostanziale isolamento del padre nel casolare. Alla base dell’ordinanza si evocano il "grave pregiudizio" alla crescita, le condizioni abitative ritenute indegne, la mancata adesione dei genitori a controlli e trattamenti sanitari obbligatori e, soprattutto, il pericolo di lesione del "diritto alla vita di relazione" ex art. 2 Cost., ritenuto suscettibile di produrre gravi conseguenze psichiche ed educative.
Sotto il profilo tecnico, l’atto è un’ordinanza cautelare del Tribunale per i minorenni, resa in camera di consiglio, mediante la quale si dispone la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale di entrambi i genitori, l’allontanamento dei minori dalla dimora familiare, il loro collocamento in una comunità di tipo familiare e la nomina di un tutore provvisorio.
Si tratta della tipica misura "de potestate", adottata nel quadro degli artt. 330-333 c.c. e della legge ordinaria dello Stato n. 184 del 1983 e successive modificazioni. L’ordinanza è immediatamente esecutiva, ma non definitiva: è esperibile il reclamo innanzi alla Corte d’appello (sezione per i minorenni), nei termini e nelle forme dei procedimenti camerali in materia di stato delle persone e della famiglia; esaurito tale grado, le parti potranno proporre ricorso per cassazione per violazione di legge e vizi motivazionali.
Inoltre, in quanto misura a contenuto non cristallizzato nel tempo, il provvedimento è per sua natura soggetto a revisione e adattamento in presenza di sopravvenienze rilevanti, anche su istanza dei genitori o del tutore. In astratto, dunque, l’apparato normativo è quello ordinario: lo Stato interviene per rimuovere situazioni di abbandono, maltrattamento, incuria grave, o comunque di serio rischio per il minore, potendo arrivare, in casi estremi, a disarticolare l’unità familiare.
Il punto cruciale è comprendere se, nel caso concreto di Palmoli, i presupposti di legge siano stati interpretati e applicati in conformità al loro senso proprio, oppure se l’ordinanza rappresenti una torsione funzionale del sistema, nel segno di un uso surrettizio della tutela minorile per ricondurre entro un modello standardizzato forme di vita ritenute "eccentriche".
Già la ricostruzione delle ragioni poste a fondamento dell’ordinanza rivela una significativa dislocazione del baricentro. Non risultano accertati atti di violenza, abusi, dipendenze, condotte antisociali, degrado morale, né una costante disattenzione ai bisogni primari dei bambini.
Il Tribunale insiste sulle condizioni abitative (rudere privo di utenze, roulotte), sull’episodio, grave ma isolato, dell’intossicazione da funghi, sulla scelta di istruzione parentale, sul rifiuto di aderire a determinate prescrizioni sanitarie. Ne emerge una figura di famiglia non pericolosa "in atto", bensì a rischio "in potenza", in quanto portatrice di uno stile di vita percepito come radicalmente alternativo a quello maggioritario. Si scivola così da un giudizio sugli effetti reali delle condotte genitoriali a un giudizio sulla loro conformità a un modello di normalità socio-culturale.
L’ordinamento, tuttavia, non autorizza il giudice minorile a valutare la legittimità di un progetto di vita solo perché minoritario, rurale, essenziale. Esso esige l’accertamento di un pregiudizio concreto e attuale, o di un rischio serio e specifico, non di una generica divergenza rispetto al canone urbano e tecnologico dominante. Povertà di mezzi, mancanza di molte comodità, scelta di vivere isolati in un casolare con roulotte annessa non sono, prese isolatamente, fattori costitutivi di "grave pregiudizio"; diventano giuridicamente rilevanti soltanto se si traducono, in termini verificabili, in compromissione della salute, della crescita, della stabilità emotiva del minore. L’uso di formule elastiche – "gravemente pregiudizievole", "condizioni inidonee", "rischio per l’integrità fisica e psichica" – che non vengono riempite di contenuto fattuale puntuale fa trasparire un deficit di proporzione tra premessa e conclusione.
Soprattutto, l’ordinanza, almeno così pare a chi scrive, innalza a criterio decisivo il "diritto alla vita di relazione". Nel provvedimento si precisa che il fondamento non è il pericolo per il diritto all’istruzione – anche perché l’istruzione parentale, pur con alcuni rilievi formali, risulta comunque attivata – bensì il pericolo di lesione del diritto dei minori alla vita di relazione, ai sensi dell’art. 2 Cost., con potenziali gravi conseguenze psichiche ed educative.
Il discorso giuridico compie qui un passaggio qualitativo: la "relazione" viene letta quasi esclusivamente come relazione con il gruppo dei pari, all’interno di circuiti scolastici e sociali istituzionalizzati; la carenza, reale o presunta, di tale dimensione viene bilanciata non considerando il nucleo relazionale primario – il legame genitori-figli e il rapporto fraterno – ma quasi contrapponendosi ad esso.
Eppure la prima, fondamentale forma di vita di relazione è la famiglia, in cui il minore viene generato, accolto, cresciuto. È in quel contesto che egli sperimenta la dipendenza e la fiducia, la fedeltà degli adulti, la differenza sessuale e generazionale, la continuità di affetti che precedono qualsiasi intervento pubblico.
Porre il "diritto alla vita di relazione" come ragione principale di un allontanamento che recide la convergenza quotidiana tra figli e padre e che trasforma la madre in figura coabitante ma sorvegliata, vuol dire assumere che la relazione familiare sia, in quanto tale, inidonea o almeno recessiva rispetto ad altre forme di socialità.
Si tratta di una scelta interpretativa che altera la gerarchia naturale dei beni: il bene primario, che è la continuità del rapporto genitoriale salvo casi estremi, viene sacrificato in nome di un bene importante ma derivato, l’inserimento nel gruppo dei pari secondo schemi ritenuti "appropriati".
A ciò si aggiunge un ulteriore elemento: il contesto sociale in cui la famiglia vive. Diverse testimonianze richiamano l’immagine di un nucleo coeso, conosciuto e osservato dalla comunità locale, difeso da vicini e dal sindaco, con una rete minima di relazione che non coincide con l’isolamento totale evocato in alcune rappresentazioni mediatiche. La contrapposizione tra bambini "segregati nel bosco" e bambini "liberati alla socialità" appare, alla luce di tali elementi, semplificatoria. Il rischio è di assolutizzare un unico parametro – la socializzazione secondo moduli standard – e di utilizzare il diritto come strumento di omologazione culturale.
Sotto il profilo della proporzionalità, l’assetto prescelto dal Tribunale appare eccessivo. Nella logica del sistema, l’allontanamento del minore dalla famiglia di origine e il collocamento in comunità rappresentano una "extrema ratio": l’intervento dovrebbe seguire un percorso graduale, che parte dal sostegno, passa per prescrizioni stringenti e controlli ravvicinati e, solo in caso di fallimento sistematico, conduce alla separazione. La stessa disciplina dell’affidamento prevede che i servizi sociali progettino e monitorino, in costante rapporto con il nucleo d’origine, un percorso di rientro del minore nella sua famiglia, confermando che la misura si giustifica solo se vi è un nucleo realmente incapace di svolgere, neppure con aiuto, le proprie funzioni.
Nel caso in esame, non emerge che il giudice abbia seriamente esplorato tutte le misure intermedie: ad esempio, un programma di sostegno economico e logistico per sanare almeno in parte le carenze strutturali dell’abitazione; progetti educativi per ampliare le occasioni di socializzazione dei bambini sul territorio; eventuale differenziazione di responsabilità tra i due genitori, se uno dei due si dimostrasse irriducibilmente ostativo.
Il risultato concreto è che i bambini vengono colpiti nel loro bene più immediato, la permanenza nella propria famiglia, per sanzionare indirettamente la posizione ideologica dei genitori. L’intervento appare così caricato di una funzione punitiva surrettizia, che esula dal perimetro della tutela minorile. In controluce si intravede una concezione del rapporto tra istituzioni e famiglia in cui la sussidiarietà viene rovesciata.
La famiglia, che l’ordinamento riconosce come formazione sociale originaria e prioritaria, non viene più assunta come dato pre-giuridico da rispettare e sostenere, quanto come oggetto plasmabile dall’esterno; ciò che non si conforma alle aspettative pubbliche viene considerato immediatamente sospetto. Il giudice minorile non si limita a verificare se i genitori, in quella concreta situazione, stiano assolvendo il loro compito oppure stiano tradendolo in modo grave; si arroga, piuttosto, un ruolo di regolatore dei modelli di vita legittimi. La scelta di vivere in un bosco, senza alcune comodità basilari, in una dimensione di essenzialità esistenziale e di alta densità affettiva, viene letta come quasi incompatibile con una crescita equilibrata del minore, senza che sia seriamente valutato se, per quei bambini, quella forma di vita non rappresenti un’occasione di sviluppo umano autentico, da integrare e correggere dove necessario, non da estirpare. Da un punto di vista filosofico-giuridico, il provvedimento sembra muoversi entro una concezione rigidamente statalista dell’infanzia: i figli appaiono quasi come soggetti immediatamente "del" sistema, che la famiglia ospita solo a condizione di adeguarsi a un catalogo di requisiti materiali e simbolici decisi altrove. Ciò contraddice l’idea per cui la responsabilità genitoriale è primariamente un compito proprio dei genitori, non delegato, rispetto al quale lo Stato ha una funzione ancillare: interviene quando l’istanza originaria fallisce gravemente, non quando si discosta dalla sensibilità prevalente. Nel caso della "famiglia nel bosco", il nesso causale tra stile di vita scelto e danno effettivo ai minori viene presunto più che dimostrato; la differenza viene trattata come devianza, la marginalità come patologia. I bambini passano così da un contesto familiare povero ma denso di legami a una comunità che, per definizione, offre relazioni regolate, turni educativi, figure che non possono sostituire il legame parentale. Il trauma dell’allontanamento, la rottura con il padre, la trasformazione della madre in presenza istituzionalmente controllata costituiscono essi stessi fattori di rischio psichico elevato, difficilmente giustificabili alla luce di un principio di prudenza. In questa prospettiva, il reclamo alla Corte d’appello appare ben più che un passaggio procedurale: diventa il luogo in cui verificare se la giurisdizione minorile italiana sia ancora in grado di distinguere tra l’esigenza, sacrosanta, di proteggere i minori da reali situazioni di abbandono o violenza e la tentazione, assai più sottile, di usare la tutela del minore come leva per imporre un unico modello di esistenza accettabile. Una correzione in sede di gravame, che riaffermi la natura eccezionale dell’allontanamento, la centralità del legame genitoriale, la necessità di misure proporzionate e graduali, non avrebbe soltanto l’effetto di restituire una famiglia ai suoi figli; segnerebbe il rifiuto di una deriva in cui il diritto smette di tutelare la fragilità concreta e comincia a disegnare, in modo autoritativo, i confini del vivere "giusto" secondo l’idea dominante. In gioco non c’è solo la sorte di tre bambini nei boschi d’Abruzzo, ma la misura del rispetto che l’ordinamento mostra verso quelle cellule elementari di convivenza che lo precedono e lo fondano.
Daniele Trabucco

5 commenti:
Di questo si sta parlando ovunque, un magnifico commento, letto non so dove diceva:
I figli degli zingari non li toccano!
Detto questo è stato detto tutto.
"...Come ha potuto l'ideologia di sinistra e il nichilismo mettere radici così profonde?.."
Perché non c'è più la Chiesa Cattolica che insegnava e riequilibrava. I fondamentali dell'umano non li conosce più nessuno. Ora si dialoga, cioè si conversa, ma, non si insegna più.
Se qui non decidiamo con tutte le nostre forze di non farci imboccare e governare da altri mettiamo una pietra sopra alla nostra libertà.
Molto ben argomentato. Sul caso in oggetto segnalo anche questo, che allarga un po' il ragionamento: The Woodland Family and the New Conformity: When living off-grid becomes a crime, liberty itself is on trial https://therevleon.substack.com/p/the-woodland-family-and-the-new-conformity
Tutto può diventare peccato e crimine. Tutto. Per questo è necessario che esista la Chiesa Cattolica che insegni. Nessuno nasce imparato anche nell'era della IA. Quindi o la Chiesa torna Cattolica e batte e batte sugli insegnamenti di Gesù Cristo oppure presto tutto diventerà crimine sul serio anche la legge degli Stati.
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