Sommario : 1. Non esistono diritti senza doveri. 2. La giustizia secondo Platone: fare il proprio dovere. 2.1 È ingiusto rispondere con l’ingiustizia all’ingiustizia. 2.2 Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe ingiusto sottrarsi alla pena, anche se inflitta ad un innocente. 3. La giustizia è “fare ciò che è proprio di ciascuno”. 4. Il nesso tra diritto e giustizia.
1.Non esistono diritti senza doveri
Il concetto della giustizia sembra oggi invocato soprattutto nel senso di giustizia sociale oppure in connessione ai cosiddetti “diritti umani”, termine che ha sostituito quello di “diritti naturali”. In ogni caso, in relazione all’idea di un diritto da soddisfare, da proteggere. Ma esiste anche una stretta relazione tra l’idea della giustizia e quella del dovere. Oggi si fa un gran parlare dei “diritti”, soprattutto dei “diritti umani”. Ma dei doveri non si parla mai o quasi. Sui media veniamo bombardati quasi ogni giorno da denunce e perorazioni in favore, in particolare, dei “diritti delle donne”, dei “migranti”, delle “minoranze”, soprattutto quelle dei cosiddetti diversi. L’idea del dovere viene impiegata principalmente per indicare il dovere dello Stato di soddisfare tutti i “diritti umani” che si fanno oggi valere, a cominciare, appunto, da quelli delle donne, dei “diversi”, dei “migranti”, delle “minoranze”, tutte categorie che si considerano per principio “oppresse”. Sembra che esistano soggetti che hanno solo diritti di contro ad altri che hanno solo doveri, a cominciare dallo Stato, il Soggetto pubblico per eccellenza, il cui fine istituzionale è il bene comune.
Il concetto del diritto dell’individuo (in passato, diritto naturale accanto al diritto soggettivo, garantito quest’ultimo dall’ordinamento giuridico o diritto in senso obbiettivo) si è allargato a quello di diritto dell’essere vivente e quindi anche degli animali. E persino degli insetti, com’è vero che alcuni anni fa c’è stato un dibattito alla britannica Camera dei Lords per vedere se era il caso di estendere agli insetti le sanzioni previste per chi maltratta gli animali, procurando loro dolore o peggio. L’augusto consesso discusse per ore sulle capacità di sofferenza dell’insetto ma l’idea demenziale di mandare in galera chi schiaccia una zanzara o uno scarafaggio alla fine non passò. Si parla oggi tranquillamente di “diritti degli animali”, senza rendersi conto della singolarità della tesi: non si riesce a capire come un essere privo della ragione e della coscienza di sè, e quindi per natura incapace di intendere, volere e parlare come un essere umano, possa esser considerato titolare di diritti, cosa che comporterebbe anche la necessità di imputargli dei doveri. Il diritto, come fenomeno, è tipica espressione della ragione, della quale Iddio ha dotato solo l’uomo: il suo regno è quello della volontà razionale, nelle varie forme nelle quali si esprime.[1]
Contro l’irrazionalismo dominante bisogna ribadire un tradizionale concetto della scienza e della filosofia del diritto: non possono esistere diritti senza doveri corrispondenti, in capo al medesimo individuo. Il soggetto titolare di diritti, in quanto soggetto razionale, è, per ciò stesso, sottoposto a doveri. Il diritto e il dovere sono concetti che si implicano a vicenda. E non solo per gli individui, in una certa misura anche per le collettività, per i popoli. Il diritto soggettivo implica il dovere da parte dei terzi di soddisfar le giuste pretese di chi ne è titolare. Il nesso tra diritto e dovere che così si instaura fa venire in essere una situazione di reciprocità. Infatti, il dovere, secondo il suo concetto, incombe nei confronti dei terzi anche sul soggetto titolare di un diritto: anch’egli deve a sua volta ottemperare al dovere di soddisfare le giuste pretese del diritto soggettivo altrui.
L’idea del dovere è strettamente connessa a quella della giustizia. Tant’è vero che per Platone la giustizia, come virtù individuale, consiste essenzialmente nel fare il proprio dovere. Consideriamo questo punto, che mi sembra della massima importanza per una giusta concezione dell’idea del dovere.
2. La giustizia secondo Platone: fare il proprio dovere.
Platone àncora l’idea della giustizia a quella del dovere. Esaminerò sinteticamente alcuni passi del Critone, il dialogo che descrive la morte di Socrate, e de La Repubblica, dedicato allo Stato ideale.
Critone, discepolo di Socrate, intento a salvare la vita all’amato maestro, ormai settantenne, condannato a morte con la falsa accusa di aver predicato contro la religione e pertanto corrotto i giovani, andò da Socrate dicendogli che tutto era pronto per la sua fuga. Ma costui si rifiutò di seguirlo opponendo una serie di ragionamenti rimasti giustamente esemplari. Socrate aveva una lingua tagliente e si era fatto molti nemici. L’assemblea popolare di Atene lo aveva condannato ad una morte senza quasi sofferenza, per avvelenamento progressivo, da cicuta. Poco tempo dopo si era pentita e aveva condannato uno o forse due dei suoi tre accusatori a loro volta a morte, questa volta mediante un supplizio crudele, perché avevano calunniato un innocente, rovesciando il verdetto iniziale e riabilitando Socrate, cui fece erigere una statua da Lisippo[2].
Ma vediamo come Socrate spieghi il concetto della giustizia.
2.1 È ingiusto rispondere all’ingiustizia con l’ingiustizia.
Critone annunziò a Socrate che aveva organizzato la sua fuga anche per dimostrare quanto errata fosse la voce popolare secondo la quale egli, essendo ricco, avrebbe potuto già influire positivamente sul processo di Socrate “solo che avesse voluto spender danari”, evidentemente per corrompere i membri dell’assemblea. Da qui una discussione sulla validità dell’opinione: “Ma perché, o buon Critone, dobbiamo preoccuparci tanto dell’opinione della gente?”[3]. Socrate demolisce l’opinione popolare e “la potenza del volgo” in quanto fonti di verità: alcune opinioni sono buone ma altre cattive e il volgo tende ad esser dominato dalle passioni. Il nostro comportamento non dobbiamo sottoporlo al giudizio morale del volgo ma al giudizio della Divinità: “o carissimo, noi non dobbiamo affatto preoccuparci di quello che potrà dire di noi il volgo, bensì di ciò solo che potrà dire colui che s’intende del giusto e dell’ingiusto, giudice unico, ch’è tutt’uno con la verità”[4]. Ora, per il volgo conta soprattutto il vivere in quanto tale. Per l’uomo razionale, invece, “non il vivere è da tenere nel più alto conto ma il vivere bene”. E vivere bene “è la stessa cosa che vivere secondo onestà e secondo giustizia”[5].
Socrate ribadisce l’ideale greco dello eu zēn , del “viver bene” ossia all’insegna della virtù (aretē). La virtù comporta praticare la giustizia, che anzi, come dicevano i poeti, “riunisce in se stessa ogni virtù”. Posta l’esigenza che bisogna vivere rispettando “l’onestà e la giustizia”, sorge allora il problema se sia giusto che Socrate fugga dal carcere. Non sarebbe giusto, spiega Socrate, perché “bisogna rimanere fedeli al proprio posto e aspettare con animo tranquillo, e non darsi pensiero né se si debba morire né se si debba qualunque altro male patire, piuttosto che commettere ingiustizia”[6]. Egli è stato condannato ingiustamente però vale ugualmente per lui il dovere di “restare fedele al suo posto” e starsene tranquillo, anche se sa di dover morire per colpa di quell’ingiusta condanna. E qual è ora il suo posto? Quello di un condannato in attesa dell’esecuzione capitale, sia pure nella forma non crudele di una tazza di veleno che provoca una lenta e non dolorosa fine. Ma il discorso potrebbe sembrare assurdo senza la conclusione, che sembra essere una vera e propria causa finale del comportamento di Socrate. Stabilito il principio generale che bisogna “restare al proprio posto”, Socrate afferma che tale principio va applicato anche quando si subisce ingiustizia. Non è troppo? No, visto che il non applicarlo vorrebbe dire commettere ingiustizia. Non bisogna replicare all’ingiustizia con l’ingiustizia. Il divieto morale di commettere ingiustizia è assoluto: “non si deve rendere ingiustizia né far male ad alcuno degli uomini, neanche da chi abbia qualsivoglia male patito da costoro”[7].
2.2 Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe ingiusto sottrarsi alla pena, anche se inflitta ad un innocente.
Ma perché Socrate commetterebbe ingiustizia se fuggisse dal carcere? È stato condannato ingiustamente, è innocente, fuggirebbe per salvare la propria vita: in cosa consisterebbe l’ingiustizia? Lo spiega la prosopopea (personificazione) delle Leggi che compaiono davanti a Socrate assieme “alla città tutta quanta”. Le Leggi fanno presente a Socrate che egli deve la sua esistenza a loro poiché senza le Leggi non sarebbe stato registrato fra i cittadini, non avrebbe avuto un’educazione e non si sarebbe sposato; che avrebbe potuto andare in esilio prima della sentenza e che, in alternativa, avrebbe potuto cercare di cambiare la legge in base alla quale è stato condannato. Ma lui non aveva sempre detto che preferiva la morte all’esilio? E non è forse legge della Città che le sentenze debbano valere? Fuggendo, Socrate avrebbe tolto vigore alle sentenze e distrutto la città. Inoltre, le Leggi e Socrate non sono sullo stesso piano: “se noi intendiamo fare qualcosa contro di te, credi di aver diritto anche tu di fare le stesse cose contro di noi”? Tu riconosci il principio d’autorità nel padre e nel padrone e non lo riconosci nelle Leggi, mettendoti sul loro stesso piano? “Se noi tentiamo di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù?”.
Ti sei dimenticato che bisogna onorare la Patria più del padre e della madre? La Patria “bisogna persuaderla [a fare il contrario] o eseguire quello che essa comanda e soffrire se essa comanda di soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga incatenati, sia che essa mandi in guerra per esser feriti o uccisi; bisogna far questo perché in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano oppure persuaderle in che consiste la giustizia”.
Queste parole, non ci ricordano un antico motto: “potius mori quam foedari”, meglio la morte che il tradimento? Ma tu, Socrate, concludono le Leggi, non sei vittima delle Leggi: “tu morirai vittima di un trattamento ingiusto non già da parte delle Leggi ma da parte degli uomini”. Sono gli uomini ad aver applicato in modo ingiusto una legge giusta[8]. Giusta è infatti la legge che punisce, anche con la morte, chi attenta alla religione e corrompe la gioventù.
3. La giustizia è: “fare ciò che è proprio di ciascuno”
Si vede dunque che la giustizia, come categoria dello spirito che deve esser di guida alle nostre azioni, si fonda sul concetto del restare al proprio posto facendo il proprio dovere sino in fondo. Anche se la cosa dovesse costarci, sino al punto da rimetterci la vita. Un’idea della giustizia spinta sino all’abnegazione, al di là delle possibilità umane? Ma qui non si tratta di stabilire criteri di opportunità, contenenti una casistica di ciò che l’uomo può effettivamente fare, nella vita di tutti i giorni, ma di fissare i termini di un dover-essere che si pone necessariamente come una meta trascendente rispetto alle nostre limitate capacità. Nell’idea platonica della giustizia si rispecchia un alto ideale morale, che vale per tutti perché vuole esprimere la parte migliore di ciascuno di noi.
Ciò risulta anche da La Repubblica. Il dialogo, com’è noto, verte in prevalenza sui caratteri dello Stato migliore, nel quale ciascun individuo dovrebbe “attendere a una sola attività, quella per cui la natura l’ha meglio dotato”. Questa constatazione tira in ballo immediatamente il concetto della giustizia (dikaiosynē), consistendo esso “nello esplicare i propri cómpiti”[9], letteralmente: fare ciò che è proprio di ciascuno (tá autoû pràttein). Esplicare i propri compiti significa in sostanza fare il proprio dovere.
Platone sta discutendo sulle virtù che “rendono buono lo Stato”, gli danno cioè un valido fondamento, anche e soprattutto sul piano morale. Queste virtù sono “la temperanza, il coraggio, l’intelligenza”. Ma da sole non bastano. Occorre la giustizia, alla base di tutto e in quanto operante in tutti: “virtù presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano, nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo esplica il proprio cómpito senza attendere a troppe cose”[10]. La precisazione, “senza attendere a troppe cose [polypragmonein]”, che altri traduce: “senza occuparsi dei [cómpiti] altrui”, vuol chiarire ulteriormente il concetto[11].
Non ci deve essere “uno scambiarsi di posto” e un conseguente “attendere a troppe cose”. Ciò sarebbe una “rovina per lo Stato”, da intendersi in senso allargato, come Respublica includente anche la società[12]. In effetti, se ognuno debordasse dai propri limiti naturali e volesse vivere facendo anche “ciò che è proprio degli altri”, non si creerebbe un disordine permanente, che provocherebbe, alla fine, l’estinzione della Res publica? Ora, la giustizia come intesa da Platone è sì funzionale al concetto dello Stato ma non può esser ridotta ad esso: dimostra di possedere un significato autonomo, più profondo.
Il significato sembra essere il seguente: ognuno di noi deve sempre fare ciò che gli è proprio in conseguenza della sua natura di essere razionale, natura nello stesso tempo umana e sociale. Il “proprio” secondo natura del fanciullo sarà, per esempio, quello di rispettare i genitori e obbedir loro, affidandosi all’opinione e all’insegnamento dei suoi maestri; della donna, quello di essere innanzitutto madre e moglie, pilastro della famiglia, della casa e per questa via della società; dello schiavo, di obbedire al padrone e di servirlo onestamente; del padrone, di trattare con temperanza e correttamente lo schiavo (e ogni servo, sottoposto), senza umiliarlo o sfruttarlo; e così via. Si mescola qui ciò che appartiene alla natura umana in quanto tale a ciò che vi si aggiunge in quanto creato dai rapporti sociali; figure transeunti, come l’istituto della schiavitù. Ma questa mescolanza non appare tale da indebolire il concetto. È indubbio che esiste una natura umana costituita in un certo modo da Dio che l’ha creata, ragion per cui ogni individuo ha in primo luogo il dovere morale di essere ciò che è per natura ovvero di agire seguendo e attuando sempre ciò che costituisce il proprio della sua natura.
Così la donna dovrà vivere secondo il proprio della donna e l’uomo dell’uomo. Questo “proprio” viene influenzato dai rapporti sociali, storicamente mutevoli. Ma solo fino ad un certo punto. Al di sotto del mutamento appare sempre l’elemento immutabile. Nel caso dell’uomo e della donna, il “proprio” di ciascuno, in relazione all’altro, è sempre stato quello di sentirsi reciprocamente attratti, di unirsi, di generare insieme figli, di vivere insieme in quella forma privata e pubblica riconosciuta dalla religione, dal costume, dal diritto, che chiamiamo matrimonio. In una recente manifestazione delle femministe americane, si leggeva su di un cartello: “difendiamo i nostri diritti riproduttivi”. Traduco letteralmente l’espressione: reproductive rights. Ora, si potrebbe credere, a prima vista, che questi “diritti” concernano il diritto ad esser madri, a procreare. Sappiamo, invece, che il significato “politicamente corretto” di questa terminologia è all’opposto quello di “diritto ad abortire liberamente”, per semplice scelta unilaterale della donna, diritto che si pretende lo Stato debba garantire o continuare a garantire, se già lo fa. Secondo il concetto di giustizia qui illustrato, tale “difesa” si rivela ingiusta perché manifestamente contraria a ciò che costituisce il proprio della donna in quanto tale, che la natura ha costruito, possiamo dire, per esser madre non per nullificare volontariamente la propria capacità riproduttiva.
Il concetto platonico della giustizia non esaurisce il concetto stesso, come sappiamo. Egli lo elaborò in contrapposizione alle concezioni dominanti, come riportate nella stessa Repubblica, improntate ad un diffuso utilitarismo, ad esempio: “…però rimango del parere che la giustizia consiste nel giovare agli amici e nel danneggiare i nemici”[13]. L’elaborazione del concetto della giustizia costituisce uno degli elementi imperituri de La Repubblica, della quale non possiamo ovviamente accettare la visione utopica, quella del c.d. “comunismo platonico”, ed altri aspetti.
Se poi il concetto platonico sembrasse astratto o troppo rigido, si dovrebbe riflettere sul fatto che l’idea della giustizia presenta sempre qualcosa di rigido ed impersonale, che fa forza nei nostri confronti perché in qualche modo ci colpisce nei nostri interessi, nei nostri diritti, e a volte anche nei nostri sentimenti. Questo vale anche per una giustizia che sia applicata in modo moderato, il che avviene sovente. La giustizia, secondo il suo concetto, rappresenta sempre ciò che è giusto in sé e va attuato o imposto perché è giusto, ci piaccia o meno. La giustizia è un valore assoluto, che deve imporsi anche contro di noi, se necessario.
L’ideale del giusto nel senso di far sempre ciò che è proprio di ciascuno, in definitiva di far sempre il proprio dovere, illumina la giustizia soprattutto come virtù. Quando pensiamo, invece, alla giustizia nel senso di “dare a ciascuno il suo” o della “uguaglianza di trattamento” nei rapporti scambievoli, aspetti messi particolarmente in luce da Aristotele, nel V Libro dell’Etica nicomachea, ce la rappresentiamo come criterio di giudizio ossia come regola, norma. Qual è, infatti, la norma cui deve ispirarsi un giudice, un arbitro e, in una certa misura, anche il legislatore? Dare a ciascuno il suo, secondo i suoi meriti e le sue colpe; regolare in modo uguale situazioni uguali. Regolare in modo uguale situazioni tra loro disuguali, o addirittura opposte, sarebbe ingiusto: e questa è, appunto, l’ingiustizia dell’ugualitarismo, visione del mondo che vuole imporre l’uguaglianza assoluta in tutti i campi ed anche tra i sessi, cancellando di proposito tutte le differenze naturali: non uguaglianza nonostante le differenze e quindi realisticamente limitata al possibile bensì uguaglianza per cancellare tutte le differenze, violentare la natura umana. Un’utopia insensata, storicamente causa di grandi e ripetute catastrofi.
La regola di giustizia del “dare a ciascuno il suo”, secondo la nostra Fede cattolica, sarà applicata infallibilmente dal Cristo Giudice nei confronti dell’anima di ciascuno di noi, appena morti, come è ricordato nell’Atto di fede: “…E credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnato e morto per noi, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la pena eterni”. Possiamo dire: darà a ciascuno il suo, a seconda di come avrà attuato nella sua vita terrena ciò che costituiva per natura il proprio di lui stesso.
4. Il nesso tra diritto e giustizia.
Non si devono confondere istanze giuridiche ed istanze morali, non si deve far confusione tra sfera del diritto e sfera della giustizia, la cui natura è eminentemente etica, applicandosi in essa i principi morali fondamentali.
Tuttavia, osservo, come non è possibile elidere il nesso tra il diritto e il dovere, visto che l’uno implica l’altro – e l’idea del dovere ha un fondamento etico oltre che logico; del pari non sembra possibile recidere quello tra diritto e giustizia. La distinzione fra il diritto e la morale deve esser mantenuta, tuttavia essa non esclude quel nesso tra diritto e morale rappresentato dall’esigenza della giustizia cioè dal fatto che: 1. il diritto positivo deve riconoscere quale diritto del soggetto istanze intrinsecamente buone, positive, in definitiva giuste; 2. In quanto si attui in una legge posta da un legislatore, non può comunque violare il principio della giustizia, come espresso da una corretta gerarchia delle leggi.
Consideriamo il primo punto.
ll diritto del soggetto o diritto soggettivo è stato sempre inteso quale manifestazione della libera volontà del soggetto, riconosciuta in vario modo dall’ordinamento giuridico. La definizione tradizionale meglio calibrata sembra esser stata, alla fine, quella che interpreta questa libera volontà non in termini di “interesse protetto” bensì in termini di potere. Così sintetizzata da un autorevole filosofo del diritto del passato recente: in senso proprio, “il diritto soggettivo è il potere individuale di esigere un comportamento conforme all’ordinamento vigente”.[14] La precisazione che il comportamento che si esige deve essere “conforme all’ordinamento vigente” chiarisce che non è riconosciuto al soggetto il potere di esigere dai terzi un comportamento non conforme all’ordinamento vigente ossia illecito : un potere vòlto a questo fine non può costituire un diritto.
L’ordinamento si può intendere in vari modi. Come ordinamento statuale o sistema di diritto codificato da un legislatore che è lo Stato, oppure come complesso organico di usi e costumi, diritto consuetudinario, non scritto ma non per questo meno effettivo in relazione all’efficacia delle sue norme. Il riconoscimento del diritto del soggetto può anche esser invocato sulla base del diritto naturale, per esempio quando si afferma il “diritto alla vita” del nascituro sin dal momento del concepimento. In ogni caso, il concetto di un diritto del soggetto o soggettivo individua una sfera di capacità e situazioni dell’individuo considerate meritevoli di tutela.
Se approfondiamo questo punto vediamo emergere il nesso tra diritto e morale. Infatti, se ci chiediamo: meritevoli, perché? Solo per esser ciò che l’individuo vuole o desidera o perché considerate in se stesse giuste? Se la conformità a giustizia delle capacità e situazioni che l’individuo pretende di veder riconosciute e tutelate si deve ammettere quale requisito essenziale del riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico, allora ecco apparire un sicuro nesso tra il diritto del soggetto e la giustizia, onde potremmo dire che : il diritto soggettivo è la giusta pretesa di un soggetto. Non una qualsiasi pretesa del soggetto ma solo quella giusta.
È chiaro che numerose norme di un ordinamento giuridico non hanno a che fare direttamente con l’idea della giustizia: il nesso di cui sopra sarebbe pertanto indiretto. Infatti, cosa c’entrano con la giustizia le numerose norme di vario tipo che nel tempo si costruiscono attorno ad ogni istituto giuridico o a tutte le norme che disciplinano una determinata attività, per esempio nell’ambito del diritto commerciale, per non parlare del rimanente del diritto privato? Sono in generale norme di attuazione, una foresta di leggi e regolamenti che spazia in ambito regionale, statale, sovranazionale; norme dette anche “tecniche”.
Facciamo tuttavia un esempio. Se chiedo la licenza per iniziare un’attività commerciale mi verrà concessa se l’autorità sarà convinta dell’onestà del mio fine; del fatto cioè che non la chiedo per spacciare droga o far traffico di merci di contrabbando o rubate. Ciò significa che la mia pretesa appare giusta agli occhi dell’autorità perché conforme agli scopi leciti del commercio, attività di diritto privato ammessa, protetta ed anche incoraggiata dall’ordinamento. E perché l’ordinamento giuridico disciplina e protegge queste attività dei privati? Perché lo scopo dell’ordinamento non si distingue da quello per il quale esiste quella polis o res publica che chiamiamo Stato.
Lo Stato, infatti, a prescindere dalla sua forma di governo, è quell’istituzione il cui fine è la realizzazione del bene comune, corrispondente a quello che Aristotele, sulla scia di Platone, chiamava il “viver bene” (eu zēn). Gli uomini, scrive, vivono creando sempre una società ma che sia capace di realizzare un tipo di vita che sia buono: “neppure si sono raccolti solo per vivere, bensì per viver bene”[15]. Questo “viver bene” quale fine della polis non va confuso con le alleanze volontarie fra Stati a fini militari od economici, realtà nelle quali si guarda a salvaguardare la giustizia solo nei rapporti “l’uno contro l’altro”. Al contrario, esso ricomprende sia il benessere materiale che quello spirituale. Infatti, “quanti si prendono pensiero del buon governo badano alla virtù e alla cattiveria esistenti nell’ambito dello Stato. Di qui è chiaro che deve prendersi cura della virtù lo Stato veramente degno di questo nome e che non sia tale solo a parole; ché allora la comunità diviene un’alleanza, differente soltanto per il luogo dalle altre alleanze, quelle cioè che si stringono tra genti lontane, e la legge una convenzione, la quale, per usare le parole del sofista Licofrone, è garante di quel che è giusto da uomo a uomo ma non atta a render i cittadini buoni e giusti”[16].
Il legislatore che “si prende cura della virtù dei suoi cittadini” è quello che cerca di attuare la giustizia. Cittadini “buoni e giusti” saranno quelli le cui attività, disciplinate dal legislatore, avranno luogo per fini “buoni e giusti”, come quelli di un’onesta attività commerciale o di fondazione di una famiglia tra l’uomo e la donna per la procreazione e l’educazione di figli. Anzi, lo Stato che tenga conto del principio della giustizia non può disinteressarsi della virtù dei cittadini: combatterà il vizio in tutte le sue forme, si assicurerà che le famiglie crescano in un clima moralmente sano, provvedendo per quanto sta ad esso alla pubblica e privata moralità e decoro. E sempre valuterà di fatto la rilevanza etica (liceità sul piano morale) delle pretese che costituiscono il contenuto dei diritti soggettivi fatti via via valere dai consociati.
Ma dovrà la classe dirigente dare l’esempio di quella virtù che essa deve imporre con le leggi ai cittadini e dalla quale non può comunque prescindere. Su quest’aspetto molto ha insistito Cicerone nei suoi libri sulle Leggi e sullo Stato. Riprendendo la massima diffusa da poeti e filosofi greci secondo la quale “tutte le virtù dipendono dalla giustizia”, egli sottolinea che senza l’esempio dei governanti, per lui soprattutto gli Ottimati, non c’è giustizia che tenga: “..io credo invece che i costumi delle città si trasformino col mutare del tenore di vita dei nobili. Per questo i maggiorenti corrotti arrecano il maggior danno allo Stato, perché non solo contraggono essi stessi i vizi, ma li trasmettono alla cittadinanza. Né solamente nuocciono perché si lasciano andare alla corruttela, ma perché anche corrompono, e nuocciono piú con l’esempio che con il loro traviamento”[17]. E questo perché “virtus in usu sui tota posita est”, la virtù è tutta nella sua stessa attuazione non nei bei discorsi[18].
Ma l’esigenza della giustizia della pretesa del soggetto resta sempre sullo sfondo, quale ineliminabile Leitmotiv, anche dove non compare direttamente. Come annotava Adolf Trendelenburg, illustre storico della filosofia, acuto logico e acuto critico di Kant e di Hegel, in un articolo del 1862: “Nella misura in cui le leggi esistono per comporre i conflitti, esse mantengono quell’evoluto principio secondo il quale ci si trova in presenza di rapporti scaturenti dalla vita di relazione: ma non lo manterrebbero se non lo presupponessero eticamente valido. In questo senso innanzitutto ogni diritto vuole conservare un’esistenza conforme all’etica [ein sittlichen Dasein]. E quand’essa viene negata nel caso particolare, è la sanzione a ristabilire la potenza dell’eticità, mantenendo intatto nella sua universalità il principio morale, messo in pericolo dalla singola trasgressione”[19].
Pertanto, secondo Trendelenburg la morale deve sempre esser presupposta al diritto, pur restando ben chiara la distinzione tra le due sfere: sfera esterna o della legalità quella del diritto; sfera interna della legge morale quella dell’eticità, che obbliga in coscienza. Tra legalità e moralità non ci deve essere sovrapposizione; c’è però connessione[20]. E difatti, lo stesso diritto positivo in molteplici casi vuole capire quale sia l’effettiva intenzione del soggetto agente, al fine di una esatta valutazione giuridica del suo comportamento.
Consideriamo ora il secondo punto.
Qui abbiamo a che fare con un problema diverso, costituito da una concezione intransigente del rapporto tra diritto e giustizia in relazione alla norma posta dallo Stato: alla Legge, nella quale si manifesta la pretesa del Soggetto pubblico, norma che esige da noi piena osservanza.
Non ci chiediamo sempre se sia giusta?
Ma san Tommaso, rifacendosi a sant’Agostino, afferma non esser la legge ingiusta vera legge: “lex tyrannica, cum non sit secundum rationem, non est simpliciter lex, sed magis est quaedam perversitas legis.”[21] La “lex tyrannica” è per definizione quella che non si cura del bene comune, che deve costituire il fine razionale di ogni legge: si intende, un bene comune “secundum iustitiam divinam regulatum”.[22] Una simile legge dovrà ritenersi sommamente ingiusta, tanto più quanto si dimostri avversa al bene comune. Il “bene comune”, secondo la filosofia del diritto cattolica tradizionale ossia tomistica, deve sempre esser perseguito dal diritto positivo in modo da non violare mai né la legge naturale né quella divina che la sorregge.[23] E difatti, san Tommaso ribadisce, richiamandosi a sant’Agostino che la legge ingiusta deve ritenersi “legis corruptio”.[24] Poiché ogni legge umana “in tanto possiede la ratio legis in quanto derivi dalla legge naturale, se si discosta in qualcosa dalla legge naturale non sarà legge ma corruzione della legge”[25].
La legge naturale riposa sulla legge divina, ciò spiega la radicalità della conclusione cui giunge l’Aquinate: violare la legge di natura significa in realtà violare la legge divina ad essa sottesa. Dopo almeno un secolo di storicismo e soprattutto di positivismo, che hanno entrambi concorso a far sparire il concetto del diritto naturale dalla filosofia del diritto, la negazione tomista del carattere di legge alla legge ingiusta può apparire del tutto indebita. Ma la legge ingiusta della quale parla qui il dottor Angelico non è, ad esempio, quella che ci aumenti le tasse o instauri la leva obbligatoria. È quella che viola la legge naturale, inscindibilmente connessa alla legge divina, poiché la gerarchia delle leggi si basa sempre sulla Causa Prima, costituita da Dio creatore. Pertanto, sembra perfettamente applicabile, il punto di vista dell’Aquinate, a quelle leggi che violino in modo tale l’esigenza del bene comune da configurare un vulnus nel diritto naturale stesso e quindi nella legge divina. E in questa categoria non rientrano forse leggi come quelle che riconoscono come diritto della madre l’aborto procurato, da potersi effettuare per di più con il contributo economico dello Stato? Qui la violazione dell’esigenza del bene comune di un popolo e di una società appare evidente, contribuendo ampiamente l’abortismo diffuso alla denatalità e alla corruzione dei costumi, cose ovviamente del tutto opposte a quel “viver bene” dei consociati che dovrebbe costituire il fine dello Stato e del suo ordinamento giuridico e quindi del vero legislatore. E in questa categoria non rientrano forse anche quelle leggi che riconoscono come “matrimoni” le convivenze di omosessuali di entrambi i sessi? E per gli stessi motivi appena elencati a proposito del diritto all’aborto. L’elenco di queste triste leggi potrebbe continuare - pensiamo per esempio all’allucinante legislazione sul cosiddetto “transgenderismo” - ma possiamo fermarci qui.
Voglio concludere la mia riflessione con un’ultima considerazione, che mi sembra tuttavia della massima importanza: c h i stabilisce la conformità a giustizia della pretesa del soggetto? Può forse essere il soggetto portatore della pretesa stessa? In linea di principio, non può. Per due ragioni principali: 1. sarebbe giudice in causa propria; 2. essendoci tot capita tot sententiae, la vita di relazione si dissolverebbe nell’anarchia, ovvero in un pluralismo indiscriminato ed incontrollabile di pretese individuali le più diverse e persino opposte, che esigono di esser prese tutte in considerazione come diritti da tutelare.
Occorre un criterio oggettivo per stabilire la giustizia di ogni pretesa del soggetto individuale. Questo criterio può esser costituito solo da una norma cui commisurare la pretesa, una norma sottratta alla disponibilità dei soggetti, che nello stesso tempo devono riconoscerla come vincolante per tutti. La “norma” nella realtà di fatto è costituita dal complesso di norme di carattere morale che formano il sistema di valori di una determinata società e del suo ordinamento giuridico. È sulla base di questi valori, coinvolgenti l’idea della giustizia, che si è sempre valutata la pretesa individuale ad esser riconosciuta come diritto soggettivo (vedi supra).
Questo significa che il diritto non può “scaturire dal fatto” in senso assoluto. Il principio pur esso tradizionale secondo il quale “ex facto ius oritur” può avere un significato solo relativo. Relativo, nel senso che non ogni fatto ovvero non ogni realtà sociale emergente può esser considerata meritevole di tutela: bisogna che la pretesa della quale si fa portatrice questa emergente realtà sociale, grande o piccola che sia, sia una pretesa giusta, come si è detto. Non è sufficiente che sia spontanea, anche in considerazione del fatto che spesso la “spontaneità” di certe pretese è solo apparente o del tutto artificiosa. Pertanto, la pretesa emergente abbisogna di una valutazione di conformità ai valori fondamentali dell’ordinamento, che sono in genere valori religiosi, morali, politici, di costume. Tale valutazione dovrebbe costituire la discriminante in base alla quale concedere la tutela del diritto ai fenomeni sociali nuovi o rifiutarla. E questa valutazione non è mai solo giuridica. È anche politica, ma forse soprattutto etica e coinvolge giustizia e diritto.
La presente, irrazionale atmosfera culturale ha invece portato ad affermare in modo assoluto il principio “ex facto ius oritur”. Quante volte si è sentito e si sente tuttora dire che i costumi sono cambiati e il legislatore, sia laico che ecclesiastico, deve solo trarne le conclusioni prendendo atto del cambiamento e munendolo delle necessarie provvidenze di legge? I costumi sono indubbiamente cambiati ma non bisogna forse chiedersi se in peggio o in meglio? Non dobbiamo porci questa domanda? E soprattutto non se la deve porre il legislatore? Se i cambiamenti nei costumi hanno comportato, tra altre cose, una messa in pericolo così radicale del bene comune, come quella sopra ricordata, non dovrebbe il legislatore combattere tali cambiamenti setacciando in primo luogo i buoni dai cattivi? In ogni caso, non dovrebbe evitare di limitarsi a prendere atto di certe distruttive tendenze sociali, cessando dal comportarsi come un semplice notaio dei desiderata dei più violenti e meglio organizzati ?
Paolo Pasqualucci, 1 novembre 2025 - Fonte_____________________
[1] Un’articolata ed efficace confutazione delle teorie di propugnatori della “liberazione degli animali” sulla base dei loro supposti “diritti”, si trova nel saggio dell’eclettico, ultimo teorico del conservatorismo di marca inglese, il filosofo anglicano Roger Scruton, 1944-2020. Vedi il suo saggio del 1996: Gli animali hanno diritti?, tr. it. di Daniela Damiani, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008. Ciò non significa che non sia giusto punire la crudeltà contro gli animali: ma la motivazione della pena è data (secondo una tesi tradizionale) dal senso di compassione e di sdegno che l’infierire crudelmente su animali o persone provoca in noi. Sul punto, vedi I. Kant, La metafisica dei costumi, 1798, tr. it. di G. Vidari, rivista da Nikolao Merker, Laterza, Bari, 1970, pp. 304-305 (è il § 17 della parte dedicata alla virtù e all’etica).
[2] Per la vita di Socrate: Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, TEA, Milano, 1991, pp. 54-64.
[3] Critone 44 c. Mi sono servito della tr. it. di Manara Valgimigli, in: Platone, Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. I, pp. 73-91; pp. 76-77.
[4] Op. cit., 48 a; tr.it., p. 81.[5] Op. cit., 48 b; tr. it., p. 82.
[6] Op. cit., 48 c; tr. it., p. 82.
[7] Op. cit., 49 c.; tr. it., p. 83.
[8] Ho riassunto la Prosopopea delle Leggi dalla traduzione del Critone citata: 50-54; pp. 86-91.
[9] La Repubblica, 433 b, in Platone, Opere, cit., II vol., p. 256. La traduzione è di Franco Sartori.
[10] Op.cit., 433 d; tr.it., p. 256.
[11] Platone, La Repubblica, a cura di Giuseppe Lozza, tr. it. con testo a fronte, Mondadori, 1990, pp. 317. L’originale greco è quello curato per Les Belles Lettres da E. Chambry.
[12] La Repubblica, 434 b; tr. it. di F. Sartori, cit., p. 257.
[13] 334 a, b; tr. it. di G. Lozza, cit., p. 27.
[14] Widar Cesarini Sforza, voce : Diritto soggettivo, in: Enciclopedia del diritto, XII, Delitto-Diritto, Giuffrè Editore, Milano, 1964. Accentuando maggiormente il momento coercitivo: “diritto soggettivo significa potere di costringere direttamente o indirettamente colui che è obbligato” (Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, raccolta di saggi, edizioni di comunità, Milano, 1972, p. 164).
[15] Aristotele, La politica, tr. it., introd. note e indici a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1966, p. 132 (1280a).
[16] Op. cit., pp. 132 (1280b). Vedi anche Etica Nicomachea, tr. it. di Armando Plebe, Laterza, Bari, 1965, p. 30 (1103b): “I legislatori rendono buoni i cittadini, abituandoli al bene e questo è il volere di ogni legislatore, e quelli che non lo effettuano bene mancano al loro scopo e in ciò differisce una città ben ordinata da una mal governata”.
[17] Marco Tullio Cicerone, Le Leggi, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo Mondadori Editore, 1969, ediz. critica con testo latino a fronte, pp. 242-244.
[18] Marco Tullio Cicerone, Lo Stato, a cura di Filippo Cancelli, Arnoldo Mondadori Editore, 1989, ediz. critica con testo latino a fronte, p. 181.
[19] Adolf Trendelenburg, Die Definition des Rechts, in: Werner Maihofer (a cura di), Begriff und Wesen des Rechts, WBG, Darmstadt, 1973, pp. 17-25; p. 22. Si tratta di un’antologia di testi di illustri giuristi e filosofi del diritto tedeschi e austriaci tra Ottocento e Novecento.
[20] Sulla distinzione fra legalità e moralità una pagina esemplare si ha notoriamente nella kantiana Introduzione alla sua Metafisica dei costumi, tr. it. cit., pp. 14-15.
[21] Summa Theol., Ia – IIae, q. 92 a. 1.
[22] Ibidem, a. 1
[23] Vedi la quaestio 91 della Summa appena citata, che si occupa dei vari tipi di legge e della loro gerarchia.
[24] Op. cit., q. 95 a. 2 .
[25] Op. cit., ivi. Il passo di sant’Agostino citato è : “non videtur esse lex, quae iusta non fuerit” (I De Lib. Arb., cap. 5).

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