Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 14 aprile 2018

Tu es Petrus: la vera devozione alla Cattedra di Pietro - Roberto De Mattei

Si aggiunge ai temi trattati nel Convegno del 7 aprile a Roma. Vedi riepilogo (declaratio più interventi) consultabile dalla colonna destra del blog.

Sabato 8 aprile a Deerfield (Illinois) su invito di Catholic Family News e lunedì 10 aprile a Norwalk (Connecticut), ospite di The Society of St Hugh of Cluny, il prof. Roberto de Mattei ha parlato sul tema Tu es Petrus: la vera devozione alla Cattedra di Pietro, Riportiamo il testo della sua conferenza, con leggere modifiche e abbreviazioni.
Ci troviamo di fronte a uno dei momenti più critici che la Chiesa abbia conosciuto nella sua storia, ma sono convinto che la vera devozione alla Cattedra di San Pietro ci può offrire le armi per uscire vittoriosi da questa crisi.

Vera devozione. Perché ci sono false devozioni alla cattedra di Pietro, così come, secondo san Luigi Maria Grignion di Montfort, c’è una vera devozione e ci sono false devozioni alla beatissima Vergine Maria.

La promessa di Gesù a Simon Pietro, nella città di Cesarea di Filippo, è chiara: Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam (Mt 16, 15-19). Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno su di essa.

Il primato di Pietro costituisce il fondamento su cui Gesù Cristo ha istituito la sua Chiesa e sul quale Essa rimarrà salda fino alla fine dei tempi. La promessa della vittoria della Chiesa è anche però l’annuncio di una guerra. Una guerra che, fino alla fine dei tempi, l’inferno condurrà contro la Chiesa. Al centro di questa guerra furibonda c’è il Papato. I nemici della Chiesa, nel corso della storia, hanno sempre cercato di distruggere il Primato di Pietro, perché hanno compreso che esso costituiva il fondamento visibile del Corpo Mistico. Fondamento visibile, perché la Chiesa ha un fondamento primario e invisibile che è Gesù Cristo, di cui Pietro è il Vicario.

La vera devozione alla Cattedra di Pietro è, sotto questo aspetto, devozione alla visibilità della Chiesa e costituisce, come osserva il padre Faber, una parte essenziale della vita spirituale cristiana[1].

Gli attacchi conto il Papato nella storia

Uno degli attacchi più violenti subiti dal Papato nella storia, avvenne negli anni che precedettero la Rivoluzione francese, sotto il pontificato di Pio VI (1775-1799), Gianangelo Braschi. In Germania il teologo Johann Nikolaus von Hontheim, conosciuto con lo pseudonimo di Giustino Febronio, negava il Primato di governo di Pietro e sosteneva un’organizzazione ecclesiastica in cui la potestà suprema stava nella collegialità dei vescovi. Febronio diceva di non voler combattere il Papa, ma il centralismo della Curia Romana, a cui voleva contrapporre i sinodi episcopali, nazionali o provinciali. Pio VI condannò le sue tesi con il decreto Super soliditate Petrae del 28 novembre 1786.

In Italia idee analoghe erano espresse dal vescovo giansenista di Pistoia Scipione de’ Ricci. Nel 1786 Scipione de’ Ricci convocò un sinodo diocesano, con l’intento di riformare la Chiesa, riducendo il Papa a Capo Ministeriale della comunità dei Pastori di Cristo. Scoppiò intanto la Rivoluzione francese e Pio VI, con la lettera Quod Aliquantum del 10 marzo 1791, condannò la Costituzione Civile del clero, che affermava che i vescovi sono indipendenti dal Papa, che i sacerdoti sono superiori ai vescovi e che i parroci sono eletti dai semplici fedeli. Con la bolla Auctorem fidei del 28 agosto 1794 anche gli errori ecclesiologici del Sinodo di Pistoia vennero condannati[2].

Pio VI però fu travolto dalla Rivoluzione. Nel 1796 l’armata di Bonaparte invase la penisola, occupò Roma e il 15 febbraio 1798 proclamò la Repubblica romana. Il Papa fu arrestato e condotto in Francia, nella città di Valence, dove il 29 agosto 1799, morì logorato dalle sofferenze. La Rivoluzione sembrava aver trionfato sulla Chiesa. Il corpo di Pio VI rimase insepolto per diversi mesi, fino a quando fu deposto nel cimitero locale, in una cassa di quelle riservate ai poveri, su cui fu scritto: «Cittadino Gianangelo Braschi – in arte Papa». Il municipio di Valence notificò al Direttorio la morte di Pio VI, aggiungendo che era stato sepolto l’ultimo Papa della storia.

Dieci anni dopo, nel 1809, anche il successore di Pio VI, Pio VII (1800-1823), vecchio e infermo, fu arrestato e, dopo due anni di prigionia a Savona, venne portato a Fontainebleau, dove rimase fino alla caduta di Napoleone, costretto a piegarsi alla sua volontà. Mai il Papato era apparso così debole di fronte al mondo. Ma dieci anni dopo, nel 1819, Napoleone era scomparso dalla scena e Pio VII era tornato sul soglio pontificio, riconosciuto come suprema autorità morale dai sovrani europei. In quell’anno 1819, veniva pubblicato a Lione Du Pape, il capolavoro del conte Joseph de Maistre, un’opera che ebbe centinaia di ristampe e che anticipò il dogma dell’infallibilità papale, poi definito dal Concilio Vaticano I.

Il libro Du Pape è considerato come un manifesto del pensiero contro-rivoluzionario, che si oppone al liberalismo cattolico del XIX e del XX secolo e io voglio essere un’eco di questa scuola di pensiero cattolico[3].

Quando nel 1869 si aprì il Concilio Vaticano I, due partiti si scontrarono: da una parte i cattolici ultramontani o contro-rivoluzionari, appoggiati da Pio IX, che si battevano per l’approvazione del dogma del Primato di Pietro e dell’infallibilità pontificia. Tra essi erano illustri vescovi, come il cardinale Henry Edward Manning, arcivescovo di Westminster, mons. Louis Pie, vescovo di Poitiers, mons. Konrad Martin, vescovo di Paderborn, affiancati dai migliori teologi del tempo come i padri Giovan Battista Franzelin, Joseph Kleutgen, Henri Ramière. Sul fronte opposto i cattolici liberali erano capeggiati da mons. Maret, decano della facoltà di teologia di Parigi, e da Ignaz von Döllinger, rettore della università di Monaco.

I liberali, riecheggiando le tesi conciliariste e gallicane, affermavano che l’autorità nella Chiesa non risiede nel solo Pontefice, ma nel Papa unito ai vescovi e giudicavano erroneo o, quanto meno inopportuno, il dogma dell’infallibilità. Pio IX, l’8 dicembre 1870, con la costituzione Pastor aeternus definì i dogmi del Primato di Pietro e dell’infallibilità pontificia[4]. Oggi questi dogmi sono per noi un prezioso punto di riferimento, per fondare la vera devozione alla Cattedra di Pietro.

Il Concilio Vaticano II e la nuova concezione del Papato

I cattolici liberali furono sconfitti nel Concilio Vaticano I, ma un secolo dopo furono i protagonisti e i vincitori del Concilio Vaticano II.

Gallicani, giansenisti, febroniani, sostenevano apertamente che la struttura della Chiesa deve essere democratica, guidata dal basso, da sacerdoti e vescovi, di cui il Papa sarebbe solo un rappresentante. La costituzione Lumen Gentium, promulgata il 21 novembre 1964 dal Concilio Vaticano II, fu, come tutti i documenti del Vaticano II, una costituzione ambigua, che recepì queste tendenze, ma senza portarle alle ultime conseguenze.

La Nota explicativa praevia, voluta da Paolo VI, per salvare l’ortodossia del documento, fu un compromesso tra il princìpio del primato di Pietro e quello della collegialità dei vescovi. Accade con la Lumen Gentium ciò che è avvenuto con la costituzione conciliare Gaudium et Spes, che ha messo sullo stesso piano i due fini del matrimonio: procreativo e unitivo. L’uguaglianza in natura non esiste. Uno dei due princìpi è destinato a imporsi sull’altro. E, come nel caso del matrimonio, il principio unitivo prevalse su quello procreativo, nel caso della costituzione della Chiesa, il principio della collegialità si sta imponendo su quello del Primato del Romano Pontefice.

Sinodalità, collegialità, decentralizzazione, sono le parole che oggi esprimono il tentativo di trasformare la costituzione monarchica e gerarchica della Chiesa in una struttura democratica e parlamentare.[vedi qui - qui]

Un “manifesto” programmatico di questa nuova ecclesiologia è il discorso tenuto da papa Francesco il 17 ottobre 2015, nella cerimonia per il cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi. In quel discorso Francesco utilizza l’immagine della “piramide capovolta” per esprimere la “conversione” del Papato già annunciata nell’Esortazione Evangelii Gaudium del 2013 (n.32). Alla Chiesa romano-centrica sembra che papa Bergoglio voglia sostituire una Chiesa policentrica o poliedrica, secondo un’altra immagine da lui spesso usata. Un Papato rinnovato, concepito come una forma di ministero al servizio delle altre chiese, rinunciando al Primato giuridico o di governo di Pietro.

Per democratizzare la Chiesa, i novatori cercano di spogliarla del suo aspetto istituzionale, e di ridurla ad una dimensione puramente sacramentale. È il passaggio dalla Chiesa giuridica alla Chiesa sacramentale o di comunione [qui]. Quali sono le conseguenze? Sul piano sacramentale, il Papa, come vescovo, è uguale a tutti gli altri vescovi. Ciò che lo pone al di sopra di tutti i vescovi e gli conferisce un potere supremo, pieno ed immediato su tutta la Chiesa, è il suo ufficio giuridico. Il munus specifico del Sommo Pontefice non consiste nel suo potere di ordine, che egli ha in comune con tutti gli altri vescovi del mondo, ma nel suo potere di giurisdizione, o di governo, che lo distingue da ogni altro vescovo. L’ufficio di cui il Papa è titolare non rappresenta un quarto grado dell’ordine sacro dopo il diaconato, il sacerdozio e l’episcopato. Il ministero petrino non è un sacramento, ma è un ufficio, perché il Papa è il Vicario visibile di Gesù Cristo. La Chiesa-sacramento dissolve, con la visibilità della Chiesa, il Primato di Pietro.

La visibilità della Chiesa

Gesù Cristo affida la missione di governo a Pietro, dopo la Resurrezione, quando gli dice: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore” (Gv 21,15-17). Con queste parole il Signore conferma la promessa fatta al Principe degli Apostoli a Cesarea di Filippo e lo costituisce suo Vicario visibile in terra, con i poteri di capo supremo della Chiesa e Pastore universale. La vera devozione alla Cattedra di Pietro non è il culto dell’uomo che occupa questa Cattedra, ma è l’amore e la venerazione per la missione che Gesù Cristo ha affidato a Pietro e ai suoi successori. Questa missione è una missione visibile e percepibile ai sensi, come hanno spiegato Leone XII, nella enciclica Satis cognitum (1896) e Pio XII, nella enciclica Mystici Corporis (1943).

Come il suo Fondatore, la Chiesa consta di un elemento umano, visibile ed esterno, e di un elemento divino, spirituale e invisibile. Essa è una società al tempo stesso visibile e spirituale, temporale ed eterna, umana per le membra di cui si compone e divina per la sua origine, il suo fine e i suoi mezzi soprannaturali. La Chiesa è visibile perché non è né una corrente spirituale, né un movimento di idee, ma in quanto è una vera società, dotata di una struttura giuridica, al pari delle altre società umane; ma è visibile anche come società soprannaturale, perché è riconoscibile dalle sue note esterne, per cui è sempre una, cattolica, apostolica e romana[5].

Il Papa è colui in cui questa visibilità della Chiesa si concentra e di condensa. Questo è il significato della frase di sant’Ambrogio Ubi Petrus ibi ecclesia[6], che presuppone l’altra sentenza attribuita a sant’Ignazio di Antiochia: Ubi Christus, ibi ecclesia[7]. Non c’è vera Chiesa al di fuori di quella fondata da Gesù Cristo, che continua a guidarla e ad assisterla invisibilmente, mentre il suo Vicario, la governa visibilmente sulla terra.

Oggi c’è un’infiltrazione modernista all’interno della Chiesa, ma non vi sono due chiese. È questa la ragione per cui l’abbé Gleize giudica improprio parlare di “Chiesa conciliare”[8], ed è anche questa la ragione per cui dobbiamo fare attenzione a parlare di “chiesa bergogliana” o di “neochiesa”. La Chiesa oggi è occupata da uomini di Chiesa che tradiscono o deformano il messaggio di Cristo, ma non è sostituita da un’altra chiesa. C’è una sola Chiesa cattolica, in cui oggi convivono, in maniera confusa e frammentaria teologie e filosofie diverse e contrapposte. Più corretto è parlare di una teologia bergogliana, di una filosofia bergogliana, di una morale bergogliana e, se si vuole di una religione bergogliana, senza arrivare a definire come “chiesa bergogliana” quella che comprenderebbe, assieme a papa Bergoglio i cardinali, la Curia ei vescovi di tutto il mondo. Perché se dovessimo immaginare che il Papa, i cardinali, la Curia, i vescovi nel mondo costituiscono, nel loro insieme una nuova Chiesa, dovremmo legittimamente porci questa domanda: dov’è la Chiesa di Cristo? Dov’è la sua visibilità sociale e soprannaturale?

È questo il principale argomento contro il sedevacantismo. Ma è anche un argomento contro quel tradizionalismo pneumatico, che pur non dichiarando la vacanza della Sede di Pietro, pensa di poter estromettere dalla Chiesa Papa, cardinali e vescovi e di fatto riduce il Corpo Mistico di Cristo a una realtà puramente spirituale e invisibile.

L’errore della papolatria

La Chiesa, come società visibile, ha bisogno di una gerarchia visibile, di un Vicario di Cristo che visibilmente la governi. La visibilità è innanzitutto quella della Cattedra di Pietro su cui fino ad oggi si sono seduti 266 Papi.

Il Papa è una persona che occupa una Cattedra: non c’è Cattedra senza persona, ma esiste il pericolo che la persona faccia dimenticare l’esistenza della Cattedra, cioè dell’istituzione giuridica che precede la persona.

La papolatria è la falsa devozione di chi non vede nel Papa regnante uno dei 265 successori di Pietro, ma lo considera un nuovo Cristo in terra, che personalizza, reinterpreta, reinventa ed impone il Magistero dei suoi predecessori, accrescendo, migliorando e perfezionando la dottrina di Cristo.

La papolatria, prima di essere un errore teologico è un atteggiamento psicologico e morale deforme. I papolatri sono generalmente conservatori o moderati che si illudono sulla possibilità di raggiungere buoni risultati nella vita senza lotta e senza sforzo. Il segreto della loro vita è adattarsi sempre, per trarre il meglio da ogni situazione. La loro parola d’ordine è che tutto è tranquillo e non c’è da preoccuparsi di nulla. La realtà per essi non ha mai i caratteri di un dramma. 

I moderati non vogliono che la vita sia un dramma, perché ciò li obbligherebbe ad assumere responsabilità che essi non vogliono assumere. Ma poiché la vita è spesso drammatica, il loro senso della realtà si capovolge in un assoluto irrealismo. Di fronte alla crisi attuale della Chiesa, il moderato istintivamente la nega. E il modo più efficace per tranquillizzare la propria coscienza è quello di affermare che il Papa ha sempre ragione, anche quando contraddice sé stesso o i suoi predecessori. A questo punto l’errore passa inevitabilmente dal piano psicologico a quello dottrinale e si trasforma in papolatria, ovvero nella posizione di chi dice che bisogna sempre obbedire al papa, qualunque cosa egli faccia o dica, perché il Papa è la regola unica e sempre infallibile della fede cattolica.

Sul piano dottrinale, la papolatria ha la sua radice ideologica nel volontarismo di Guglielmo di Ockham (1285-1347), che, paradossalmente, fu un feroce avversario del Papato. Mentre san Tommaso d’Aquino afferma che Dio, Verità assoluta e sommo Bene, non può volere e fare nulla di contraddittorio, Ockham ritiene che Dio può volere e fare qualsiasi cosa anche, paradossalmente il male, perché male e bene non esistono in sé stessi, ma sono resi tali da Dio.

Per san Tommaso una cosa è comandata o proibita in quanto è ontologicamente buona o cattiva; per i seguaci di Ockham, vale l’opposto: una cosa è buona o cattiva, in quanto Dio l’abbia comandata o proibita. L’adulterio, l’assassinio, il furto, sono cattivi solamente perché Dio li ha proibiti. Una volta ammesso questo principio non solo la morale diviene relativa, ma il rappresentante di Dio in terra, il Vicario di Cristo, potrà a sua volta esercitare la sua suprema autorità in maniera assoluta e arbitraria e i fedeli non potranno che offrirgli una incondizionata obbedienza.

In realtà, l’obbedienza nella Chiesa comporta per il suddito il dovere di compiere non la volontà del superiore, ma unicamente quella di Dio. Per questo l’obbedienza non è mai cieca e incondizionata. Essa ha i suoi limiti nella Legge naturale e divina e nella Tradizione della Chiesa, di cui il Papa è custode e non creatore.

Per il papolatra, il Papa non è il Vicario di Cristo in terra, che ha il compito di trasmettere integra e pura la dottrina che ha ricevuto, ma è un successore di Cristo che perfeziona la dottrina dei suoi predecessori, adattandola al mutamento dei tempi. La dottrina del Vangelo è in perpetua evoluzione, perché coincide con il Magistero del regnante Pontefice. Al magistero perenne si sostituisce quello “vivente”, espresso da un insegnamento pastorale, che ogni giorno si trasforma e ha la sua regula fidei nel soggetto dell’autorità e non nell’oggetto della verità trasmessa.

Una conseguenza della papolatria è la pretesa di canonizzare tutti e ognuno i Papi del passato, in modo che sia retroattivamente infallibilizzata ogni loro parola e ogni loro atto di governo. Questo riguarda però soli i Papi successivi al Vaticano II e non quelli che hanno preceduto tale Concilio.

A questo punto c’è da chiedersi: l’epoca aurea della storia della Chiesa è il Medioevo, eppure gli unici Papi medioevali canonizzati dalla Chiesa sono Gregorio VII e Celestino V. Nel XII e nel XIII secolo sono vissuti grandi Papi, ma nessuno di essi è stato canonizzato. Per sette secoli, tra il XIV e il XX secolo, sono stati canonizzati solo san Pio V e san Pio X. Gli altri erano tutti Papi indegni e peccatori? No di certo.

Ma l’eroismo nel governo della Chiesa è un’eccezione, non la regola e se tutti i Papi sono santi, nessuno è santo. La santità è tale se è un’eccezione, perde significato quando diventa la regola. C’è il dubbio che oggi si vogliano canonizzare tutti i Papi, proprio perché non si crede alla santità di nessuno. Chi vuole approfondire questo problema potrà leggere con profitto l’articolo che, su The Remnant, Christopher Ferrara ha dedicato a The canonisations crisis[9]

È possibile una diarchia pontificia?

La papolatria non esiste in senso astratto: oggi ad esempio si dovrà parlare più precisamente di francescolatria, ma anche di benedettolatria, come ha ben osservato Miguel Ángel Yáñez su Adelante la fé[10]. Questa papolatria può arrivare a contrapporre Papa a Papa: i seguaci, ad esempio, di Papa Francesco contro quelli di Papa Benedetto, ma anche a cercare tra i due Papi l’armonia e la convivenza, immaginando una possibile divisione dei loro ruoli. [vedi intervento Ganswein e commento nonché la nutrita serie di articoli sui 'due Papi']

È significativo e inquietante quanto è accaduto in occasione del quinto anniversario dell’elezione di papa Francesco. Tutta l’attenzione dei media si è concentrata sul caso della lettera di Benedetto XVI a papa Francesco: una lettera, che è risultata manipolata e ha provocato le dimissioni del responsabile della comunicazione vaticana, mons. Dario Viganò [qui]. La discussione ha rivelato però l’esistenza di una falsa premessa da tutti accettata: quella dell’esistenza di una sorta di diarchia pontificia, per cui c’è un Papa nell’esercizio delle sue funzioni, Francesco, e c’è un altro Papa, Benedetto, che serve la Cattedra di Pietro con la preghiera e, se necessario, con il consiglio. 

L’esistenza dei due Papi è ammessa come un fatto compiuto: si discute solo sulla natura dei loro rapporti. Ma la verità è che è impossibile che esistano due Papi. Il Papato non è scomponibile: può esistere solo un Vicario di Cristo. [vedi ]

Benedetto XVI aveva la facoltà di rinunciare al pontificato, ma avrebbe dovuto, di conseguenza, rinunziare al nome di Benedetto XVI, alla veste bianca e al titolo di Papa emerito: in una parola avrebbe dovuto cessare definitivamente di essere Papa, lasciando anche la Città del Vaticano. Perché non lo ha fatto? Perché Benedetto XVI sembra convinto di essere ancora Papa, anche se un Papa che ha rinunciato all’esercizio del ministero petrino. 

Questa convinzione nasce da una ecclesiologia profondamente erronea, fondata su di una concezione sacramentale e non giuridica del Papato. Se il munus petrino è un sacramento e non un ufficio giuridico, ha un carattere indelebile, ma in questo caso sarebbe impossibile rinunciare all’ufficio. La rinuncia presuppone la revocabilità dell’ufficio ed è quindi inconciliabile con la visione sacramentale del Papato.

Giustamente il card. Brandmüller giudica incomprensibile il tentativo di stabilire una specie di parallelismo contemporaneo di un papa regnante e di un papa orante: “Un papato ‘bicipite’ sarebbe una mostruosità”[11]. “Il diritto canonico non riconosce la figura di un Papa emeritus”; “Il dimissionario per conseguenza – afferma il card. Brandmüller - non è più né vescovo di Roma né Papa e neppure cardinale”[12].

Per quanto riguarda poi i dubbi sull’elezione di papa Francesco. la professoressa Geraldina Boni[13], osserva che la canonistica ha costantemente insegnato che la pacifica “universalis ecclesiae adhaesio” è segno ed effetto infallibile di un’elezione valida e di un papato legittimo e l’adesione a papa Francesco del popolo di Dio non è stata finora messa in dubbio da nessuno dei cardinali che hanno partecipato al Conclave. Anche questo è una conseguenza del carattere visibile della Chiesa e del Papato.

A nemine est judicandus, nisi a fide devius...

Il carattere giuridico dell’ufficio petrino è ben descritto da un canonista al di sopra di ogni sospetto, già Rettore dell’Università Gregoriana, il padre gesuita Gianfranco Ghirlanda, quando, nel periodo di transizione tra i due ultimi pontificati, ha dedicato su La Civiltà Cattolica [vedi - commentato qui] un chiaro articolo a “La vacanza della Sede Romana”.

“La vacanza della sede romana si ha in caso di cessazione dell’ufficio da parte del Romano Pontefice che si verifica per quattro ragioni: 1) morte; 2) certa e perpetua pazzia o totale infermità mentale; 3) notoria apostasia, eresia scisma; 4) rinuncia!

Padre Ghirlanda spiega: “Nel primo caso la Sede Apostolica è vacante dal momento della morte del Romano Pontefice; nel secondo e nel terzo dal momento della dichiarazione da parte dei cardinali; nel quarto dal momento della rinuncia. Il criterio allora è la tutela della stessa comunione ecclesiale. Lì dove questa non ci fosse più da parte del Papa, egli non avrebbe più alcuna potestà, perché ipso iure decadrebbe dal suo ufficio primaziale.”

A questo punto padre Ghirlanda si sofferma sul caso del Papa eretico. Non c’è nessun riferimento a un Papa che, nel mese di febbraio del 2013, non è stato ancora eletto. Padre Ghirlanda si riferisce a un “caso di scuola”: “È il caso, ammesso in dottrina, della notoria apostasia, eresia e scisma, nella quale il Romano Pontefice potrebbe cadere, ma come «dottore privato», che non impegna l’assenso dei fedeli, perché per fede nell’infallibilità personale che il Romano Pontefice ha nello svolgimento del suo ufficio, e quindi nell’assistenza dello Spirito Santo, dobbiamo dire che egli non può fare affermazioni eretiche volendo impegnare la sua autorità primaziale, perché, se così facesse, decadrebbe ipso iure dal suo ufficio. Comunque in tali casi, poiché «la prima sede non è giudicata da nessuno» (c. 1404), nessuno potrebbe deporre il Romano Pontefice, ma si avrebbe solo una dichiarazione del fatto, che dovrebbe essere da parte dei Cardinali, almeno di quelli presenti a Roma. Tale eventualità, tuttavia, sebbene prevista in dottrina, viene ritenuta totalmente improbabile per intervento della Divina Provvidenza a favore della Chiesa”[14].

Padre Ghirlanda, in questa esposizione non è né tradizionalista né progressista, ma uno studioso che raccoglie mille anni di tradizione canonica.

Se, nel campo della filosofia e della teologia, il vertice indiscusso del pensiero cristiano è rappresentato da san Tommaso d’Aquino, nel campo del diritto canonico l’equivalente della Scolastica è rappresentato dal Magister Graziano e dai suoi discepoli.

Riprendendo un’asserzione di san Bonifacio vescovo di Magonza, Graziano afferma che il Papa “a nemine est iudicandus, nisi deprehendatur a fide devius[15]. Questo principio è ribadito dalla Summa decretorum di Uguccione da Pisa[16], considerato il più celebre magister decretorum del XII secolo.

Il padre Salvatore Vacca, che ha tracciato la storia dell’assioma Prima Sedes a nemine judicatur, ricorda che « la tesi della possibilità del Papa eretico sarà tenuta in considerazione (…) durante tutto il medioevo fino al tempo dello scisma d’Occidente (1379-1417)”[17].

Nel caso del Papa eretico, il principio secondo cui Prima Sedes a nemine judicatur, non è violato, in primo luogo perché, secondo la tradizione canonica, questo principio ammette come sola eccezione, il caso di eresia; in secondo luogo perché i cardinali si limiterebbero a constatare il fatto dell’eresia, come accadrebbe in caso di perdita delle facoltà mentali, senza esercitare alcuna deposizione del Romano Pontefice. La cessazione dall’ufficio primaziale sarebbe solo da essi constatata e dichiarata.

I teologi discutono se la perdita del pontificato giunga fin dal momento in cui il Papa cade in eresia o solo nel caso che l’eresia diventi manifesta o notoria e pubblicamente divulgata.

 Arnaldo Xavier da Silveira[18] [qui - qui] ritiene che, pur esistendo una incompatibilità in radice tra l’eresia e la giurisdizione papale, il Papa non perde il suo incarico fino a che la sua eresia diviene manifesta. Essendo la Chiesa una società visibile e perfetta, la perdita della fede del suo Capo visibile deve essere un fatto pubblico, chiaramente conoscibile dal fedele comune. Come un albero può vivere per un certo tempo dopo che gli siano state tagliate le radici così, anche dopo la caduta nell’eresia del suo possessore, la giurisdizione può mantenersi sia pure a titolo precario. Gesù Cristo mantiene a titolo provvisorio la persona del Pontefice eretico nella sua giurisdizione fino a quando la Chiesa non ne constati la deposizione.

Quel che è certo è che riconoscere la possibilità per un Papa di cadere nell’eresia non significa in alcun modo diminuire l’amore e la devozione al Papato. Significa ammettere che il Papa è il Vicario, non sempre impeccabile e non sempre infallibile, di Gesù Cristo, unico Capo del Corpo Mistico della Chiesa.

Contro il catacombalismo    

Il tema della visibilità della Chiesa è un argomento per combattere un’altra tentazione oggi diffusa: quella del catacombalismo. Il catacombalismo è l’atteggiamento di chi si ritira dal campo di battaglia e si nasconde, nell’illusione di poter sopravvivere senza combattere. Il catacombalismo è il rifiuto della concezione militante del Cristianesimo.

Il catacombalista non vuole combattere perché è convinto di avere già perso la battaglia; egli accetta la situazione della inferiorità dei cattolici come un dato di fatto, senza risalire alle cause che l’hanno determinata. Ma se i cattolici oggi sono minoranze è perché hanno perso una serie di battaglie; hanno perso queste battaglie perché non le hanno combattute; non le hanno combattute, perché hanno rimosso l’idea stessa di “nemico”, voltando le spalle alla concezione agostiniana delle due città, che lottano nella storia: l’unica che può offrirci una spiegazione di quanto accade e di quanto è accaduto. Se si rifiuta questa concezione militante si accetta il principio della irreversibilità del processo storico e dal catacombalismo si passa inevitabilmente al progressismo e al modernismo.

I catacombalisti oppongono alla Chiesa costantiniana la Chiesa minoritaria e perseguitata dei primi tre secoli. Ma Pio XII, nel suo discorso all’Azione Cattolica dell’8 dicembre 1947, rifiuta questa tesi, spiegando che i cattolici dei primi tre secoli non furono catacombalisti, ma conquistatori.
“Non di rado la Chiesa dei primi secoli è stata rappresentata come “la Chiesa delle catacombe, quasi che i cristiani di allora fossero stati soliti di vivere colà nascosti Nulla di più inesatto: quelle necropoli sotterranee, destinate principalmente alla sepoltura dei fedeli defunti, non servirono come luoghi di rifugio, se non, forse, talvolta, in temi di violente persecuzioni. La vita dei cristiani, in quei secoli contrassegnati dal sangue, si svolgeva nel mezzo delle vie e delle case, all’aperto. Essi “non vivevano appartati dal mondo; frequentavano, come gli altri, il foro, i bagni, le officine, le botteghe, i mercati, le piazze pubbliche; esercitavano le professioni di marinai, di soldati, di coltivatori, di commercianti” (Tertulliano, Apologeticum, c. 42). Voler fare di quella Chiesa valorosa, pronta sempre a vivere sulla breccia, una società di imboscati, viventi nei nascondigli per vergogna o per pusillanimità. sarebbe un oltraggio alla loro virtù. Essi erano pienamente consapevoli del loro dovere di conquistare il mondo a Cristo, di trasformare secondo la dottrina e la legge del divin Salvatore la vita privata e pubblica, donde una nuova civiltà doveva nascere, un’altra Roma doveva sorgere sui sepolcri dei due Principi degli Apostoli. E raggiunsero la méta. Roma e l’Impero romano divennero cristiani”.
Un tempo si diceva che il Sacramento della Cresima ci fa “soldati di cristo” e Pio XII, rivolgendosi ai vescovi degli Stati Uniti diceva: “Il cristiano, se fa onore al nome che porta, sempre è apostolo; disdice al soldato di Cristo di discostarsi dalla battaglia perché solo la morte pone fine alla sua milizia”[19]. Dobbiamo recuperare questa concezione militante della vita cristiana.

La forza del silenzio e la forza della parola

C’è chi dice che bisogna rinunciare all’azione e alla lotta perché ormai non c’è più nulla da fare, sul piano umano. Bisogna attendere un intervento straordinario della Divina Provvidenza. Certo è Dio, e solo Lui, che guida e cambia la storia. Ma Dio chiede la collaborazione degli uomini e se gli uomini cessano di operare, cessa di agire anche la Grazia divina. Infatti, come osserva Ambrogio, “i benefici divini non vengono trasmessi a chi dorme, ma a chi veglia”[20].

C’è chi dice che bisogna rinunciare non solo all’azione, ma anche alle parole. Qualche volta incontriamo qualcuno che, con il dito davanti alla bocca, e gli occhi alzati al cielo, ci dice che bisogna tacere e pregare. Null’altro. Ma sarebbe un errore fare del silenzio una regola di comportamento, perché il giorno del Giudizio risponderemo non solo delle parole vane, ma anche dei silenzi colpevoli.

Ci sono vocazioni al silenzio, come quelle di tanti monaci e monache contemplative; ma i cattolici, dai Pastori agli ultimi fedeli, hanno il dovere di testimoniare la loro fede, con la parola e con l’esempio. È attraverso la Parola che gli apostoli hanno conquistato il mondo e il Vangelo si è diffuso da un capo all’altro della terra.

Non tacquero sant’Atanasio e sant’Ilario contro gli Ariani, né san Pier Damiani contro i prelati corrotti del suo tempo. Non ha taciuto santa Caterina da Siena di fronte ai Papi del suo tempo, né tacque san Vincenzo Ferreri, presentandosi addirittura come l’Angelo dell’Apocalisse.

Non tacquero, ma parlarono, nei tempi recenti, il vescovo di Münster, Clemens August von Galen di fronte al nazismo e il cardinale Josef Mindszenty, primate di Ungheria, di fronte al comunismo.

Inoltre oggi il silenzio è vissuto, non come momento di raccoglimento e di riflessione che prepara alla lotta, ma come strategia politica alternativa alla lotta. Un silenzio che predispone alla dissimulazione, all’ipocrisia e alla resa finale. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, la politica del silenzio è diventata una gabbia che imprigiona tanti conservatori. In questo senso, il silenzio non è solo una colpa di oggi, ma è anche il castigo per le colpe di ieri. Oggi sono prigionieri del silenzio coloro che per troppi anni hanno taciuto. È libero invece chi, nel corso degli ultimi cinquant’anni, non ha taciuto, ma ha parlato apertamente e senza compromessi, perché solo la Verità ci rende liberi (Gv 8, 32).

Tempus est tacendi, tempus loquendi dice l’Ecclesiaste (3,7): c’è un tempo per tacere, ma c’è anche un tempo per parlare. E oggi è il momento di parlare.

Parlare significa innanzitutto testimoniare pubblicamente la propria fedeltà al Vangelo e alle immutabili verità cattoliche, denunciando gli errori che ad esse si contrappongono. Nelle epoche di crisi, la regola è quella che Benedetto XV, nella enciclica Ad beatissimo Apostolorum Principis del 1 novembre 1914, enuncia contro i modernisti:“Vogliamo che rimanga intatta la nota antica legge “Non modificate nulla, contentatevi della tradizione”: nihil innovetur nisi quod traditum est”[21]. La Sacra Tradizione rimane il criterio per discernere ciò che è cattolico da ciò che non lo è, facendone risplendere le note visibili della Chiesa. La Tradizione è la fede della Chiesa che i Papi hanno mantenuto e trasmesso nel corso dei secoli. Ma la Tradizione viene prima del Papa e non il Papa prima della Tradizione.

Non basta dunque limitarsi a una generica denuncia degli errori che si oppongono alla Tradizione della Chiesa. Occorre indicare nominativamente tutti coloro che all’interno della Chiesa professano una teologia, una filosofia, una morale, una spiritualità, in contrasto con il magistero perenne della Chiesa, qualunque posizione essi occupino. E oggi dobbiamo ammettere che il Papa stesso promuove e propaga errori ed eresie nella Chiesa. Bisogna avere il coraggio di dirlo, con tutta la venerazione che si deve verso il Papa. La vera devozione al Papato si esprime in un atteggiamento nei confronti del Romano Pontefice, di filiale resistenza, come è accaduto con la correctio filialis indirizzata a papa Francesco nel 2017.

Ma non c’è solo un tempus loquendi. C’è anche un modus loquendi, un modo con cui il cattolico si esprime. La correzione deve essere filiale, come è stata, rispettosa, devota, senza sarcasmo, senza irriverenza, senza disprezzo, senza zelo amaro, senza compiacimento, senza orgoglio, con profondo spirito di carità, che è amore a Dio e amore alla Chiesa.

Nella crisi dei nostri giorni, qualsiasi professione di fede o dichiarazione di fedeltà che trascuri di indicare la responsabilità di papa Francesco, mancherebbe di forza, di chiarezza e di sincerità. Bisogna avere il coraggio di dire: Santo Padre voi siete il primo responsabile della confusione che oggi esiste nella Chiesa; Santo Padre voi siete il primo responsabile delle eresie che oggi circolano della chiesa. La responsabilità non può non coinvolgere i cardinali che tacciono e, tacendo, non svolgono il loro compito di consiglieri e collaboratori del Papa, a cui dovrebbero rivolgere parole pubbliche di ammonimento e correzione fraterna.

Ma non basta denunciare i Pastori che demoliscono, o favoriscono la demolizione della Chiesa. Occorre ridurre al minimo indispensabile la convivenza ecclesiastica con essi, come accade in un regime matrimoniale di separazione. Se un padre esercita una violenza fisica o morale indebita sulla moglie e sui figli, la moglie, pur riconoscendo la validità del proprio matrimonio, e senza chiederne la nullità, per tutelare sé stessa e i propri figli, può chiedere la separazione. La Chiesa lo permette. L’abbandono della convivenza abituale significa prendere le distanze dagli insegnamenti e dalle pratiche dei cattivi Pastori, rifiutandosi di partecipare ai programmi e alle attività da essi promosse.

Ma non bisogna dimenticare che la Chiesa non può scomparire. È necessario dunque sostenere l’apostolato dei Pastori che permangono fedeli all’insegnamento tradizionale, partecipando alle loro iniziative e incoraggiandoli a parlare, ad agire e a prendere la guida del gregge disorientato.

È l’ora di separarsi dai cattivi Pastori e di unirsi ai buoni all’interno dell’unica Chiesa, in cui convivono nel medesimo campo, il grano e la zizzania (Mt, 13, 24-20), ricordando che la Chiesa è visibile e che non potrà salvarsi al di fuori dei suoi legittimi Pastori.

La Chiesa è visibile e si salverà con il Papa e non senza il Papa. Bisogna rinnovare il vincolo di amore e di venerazione che ci lega al Successore di Pietro innanzitutto con la preghiera, perché Gesù Cristo dia a Lui e a tutti i Pastori la forza necessaria per non tradire il sacro deposito della fede e se questo dovesse accadere, di ritornare alla guida dell’ovile abbandonato.

Solo una voce suprema e solenne può por fine al processo di autodemolizione in atto: quella del Romano Pontefice, l’unico al quale sia stata garantita la possibilità di definire la Parola di Cristo, facendosi portavoce infallibile della Tradizione.

Eppure, se anche il Vicario di Cristo venisse meno alla sua missione, lo Spirito Santo non cesserebbe mai di assistere, neppure per un momento, la sua Chiesa in cui, anche nei tempi di defezione della fede, una porzione, sia pure esigua, di Pastori e di fedeli continuerà sempre a conservare e trasmettere la Tradizione, confidando nella divina promessa: “Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine dei secoli” (Mt 27, 20).

Pio XII, nella enciclica Fulgens radiatur, del 21 marzo 1947, per il XIV centenario della morte di san Benedetto dice che “
chi studia sui documenti della storia l’epoca tenebrosa in cui visse san Benedetto da Norcia, sentirà senza dubbio la verità della divina parola con cui Cristo promise agli apostoli e alla società da lui fondata: «Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine dei secoli» (Mt 27, 20). Questa parola e questa promessa non perdono certamente la loro efficacia in nessuna epoca, ma riguardano il corso di tutti i secoli che sono guidati dalla divina Provvidenza. Anzi, quando più furiosamente i nemici si scagliano contro il nome cristiano, quando la fatidica navicella di Pietro è agitata da più violente burrasche, quando infine sembra che tutto vada in rovina e non brilli più alcuna speranza di soccorso umano, allora ecco comparire Cristo, garante, consolatore, apportatore di forza soprannaturale, il quale suscita perciò i suoi nuovi atleti a difendere il mondo cattolico, a reintegrarlo, a risvegliare in esso, con l’ispirazione e il soccorso della grazia divina, sviluppi sempre più vasti”.
Per coloro che rimangono fedeli alla Tradizione nelle epoche di crisi, il modello è la Santissima Vergine Maria, che sola mantenne la fede, nel sabato che precedette la Risurrezione e che, dopo l’Ascensione di Gesù al Cielo, non tacque, ma sostenne con la fermezza e la chiarezza della sua parola la Chiesa nascente. Il suo cuore fu. e rimane, lo scrigno della Tradizione della Chiesa[22].

I veri devoti di Maria, di cui parla san Luigi Maria Grignion di Monfort, sono anche veri devoti del Papato, che nei tempi di defezione dell’autorità e di oscuramento della fede non esiteranno ad impugnare “la spada a doppio taglio della Parola di Dio” (Eb 4, 12), con la quale “trafiggeranno da parte a parte, per la vita o per la morte tutti quelli ai quali saranno mandati da parte dell’Altissimo”[23].

La loro battaglia contro i nemici di Dio avvicinerà l’ora del trionfo del Cuore Immacolato di Maria, che sarà anche il trionfo del Papato e della Chiesa restaurata. [Fonte]
 _______________________________
[1]Frederick William Faber, La devozione e fedeltà al Papa, in AA. VV., Il Papanel pensiero degli scrittori religiosi e politici, La Civiltà Cattolica, Roma 1927, II, pp. 231-238.
[2]Denz-H, 2601-2612.
[3]Per una sintesi di questo pensiero, cfr. Plinio Corrȇa de Oliveira, Rivoluzione e contro-rivoluzione, Cristianità, Piacenza 2008.
[4]Denz-H, 3050-3075.
[5]Louis Billot, De Ecclesia Christi, I, Prati, Giachetti, 1909, pp. 49-51
[6]Sant’Ambrogio, Expositio in Psalmos, 40.
[7]S. Ignazio di Antiochia, Smirnesi, 8, 2.
[8]Abbé Jean-Michel Gleize FSPX,“Angelus”, luglio 2013.
[9]https://remnantnewspaper.com/web/index.php/articles/item/3753-the-canonization-crisis-part-1
[10]https://adelantelafe.com/benedictolatras/
[11]Walter Brandmüller, RenuntiatioPapae. Alcune riflessioni storico-canonistiche, in “Archivio Giuridico”, 3-4 (2016), p. 660.
[12]ivi, pp. 661, 660.
[13]Geraldina Boni, Sopra una rinuncia. La decisione di papa Benedetto XVI e il diritto, BononiaUniversity Press, Bologna 2015
[14]Gianfranco Ghirlanda, Cessazione dall’ufficio di Romano Pontefice, “La Civiltà Cattolica quaderno n 3905 del 2 marzo 2013 “, pp. 445-462., p. 445
[15] Gratianus,  Decretum, Pars I, Dist. XL.
[16]Hugucciopisanus, Summa Decretorum, Pars I, Dist.. XL, c. 6.
[17]Salvatore Vacca, Prima Sedes a neminejudicatur. Genesi e sviluppo storico dell’assioma fino al Decreto di Graziano, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993, p. 254.
[18]Arnaldo Xaveir da Silveira,Ipotesi teologica di un Papa eretico, Solfanelli, Chieti 2016.
[19]Pio XII, Discorso ai Vescovi degli Stati Uniti del 1 novembre 1939.
[20]S. Ambrogio,Expos. Evang. sec. Luc., IV, 49.
[21]S. Stefano I, Lettera a San Cipriano,in Denz-H, n. 110. 4
[22]san Bonaventura, De Nativitate B. Virginis Mariae Sermo V, in Opera, cit., IX, p. 717).
[23]San Luigi Maria Grignion di Montfort,Trattato della vera devozione alla Santissima Vergine Maria, n. 57.

6 commenti:

irina ha detto...

"... La correzione deve essere filiale, come è stata, rispettosa, devota, senza sarcasmo, senza irriverenza, senza disprezzo, senza zelo amaro, senza compiacimento, senza orgoglio, con profondo spirito di carità, che è amore a Dio e amore alla Chiesa...."

Per il momento voglio segnalare questo passaggio che mi riguarda. La correzione filiale, rispettosa, devota, verso chi passa e ripassa con il carro armato sull'anima del prossimo, scientemente e giornalmente, mi riesce difficile. In alcuni momenti anche incomprensibile. Non siamo davanti ad una persona che non sa, che non può, siamo davanti al dolo. Forse abbiamo anche superato le settanta volte sette. Interiormente ho dei cedimenti, anzi ha ceduto completamente la mia diga filiale, rispettosa, devota. Per la salvezza dell'anima mia è meglio che su questo argomento non commenti più. L'impianto e lo sviluppo della conferenza mi sono piaciuti molto e ringrazio di cuore.

Anonimo ha detto...


Giustissima la denuncia del "catacombalismo" e dell'apologia del "silenzio",
forme colpevoli di rinuncia e desistenza, quando viviamo in una distretta che ci impone di gridare le verità di fede dai tetti, tanto sono bistrattate e misconosciute da quelli che avrebbero per primi il dovere di predicarle e praticarle.
PP

marius ha detto...

Come sempre De Mattei è di una chiarezza adamantina. Oltre alla limpidezza intellettuale che proviene da una visione storica articolata e completa rimango ammirato dal suo realismo e dalla sincerità della sua fede. Ciò è un vero toccasana in un mondo (cattolico) dominato dalle passioni, dai sentimenti pro o contro, dalle reazioni di pancia, dove la verità detiene un posto secondario, perché chi la proclama con convinzione è sempre giudicato o troppo duro o... troppo molle.

La questione della necessità del rispetto verso l'avversario (in questo caso l'avversario che A nemine est judicandus, nisi a fide devius) mi richiama alla mente quel noto episodio dell'Antico Testamento in cui Davide, per rispetto al suo re, gli risparmia la vita pur potendolo uccidere facilmente, e ne avrebbe avuto delle ottime ragioni, in quanto era proprio il re ad inseguirlo per ucciderlo. Davide si avvicinò dunque al re Saul mentre dormiva e si limitò a tagliargli un lembo del suo vestito, testimoniandogli così leale fedeltà e devozione, verso il suo re per amore del suo Dio.

Anonimo ha detto...

Eccellente come sempre De Mattei ma non posso non capire Irina,il cui sentimento capisco perfettamente. Forse perché anche dentro di me hanno ceduto gli argini,per cui è meglio che anche io non dica più niente.
Antonio

mic ha detto...

https://cristianesimocattolico.wordpress.com/2017/10/26/il-card-sarah-denuncia-la-tranquilla-apostasia-delleuropa/#more-7120

Aloisius ha detto...

Ho avuto un'esperienza diretta di "silenzio" nel senso negativo indicato nell'articolo.
Colleghi avvocati cattolici che, per deformazione professionale, dovrebbero essere inclini alla militanza, nonché al senso critico e alla dialettica, alle mie osservazioni critiche, peraltro molto moderate, sullo scandaloso e vile deturpamento della dottrina bimillenaria della Chiesa ad opera del papa e del modernismo in generale, mi hanno invece invitato al "silenzio orante" e a tacere...!

Un diacono usci' dalla chat di watsapp scandalizzato, perché stavo cercando di dare la mia modestissima testimonianza parlando nel modo indicato dal prof. De Mattei, e osai contestare questo invito al silenzio, nonostante gli errori modernisti diventati magistero mediatico sfuggente.
Ho avuto solo il sostegno di due colleghi, ma poi sono uscito io.
Una grande delusione.