Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 25 novembre 2025

Colligite Fragmenta: 24ª e ultima domenica dopo Pentecoste

Nella nostra traduzione da OnePeterFive la consueta meditazione settimanale di p. John Zuhlsdorf, sempre collegata alle vicende del presente. Essa, nell'ottava, ci aiuta ad approfondire i doni spirituali della Messa della Domenica precedente qui.

Colligite Fragmenta:
24ª e ultima domenica dopo Pentecoste


Tutte le cose buone giungono alla loro fine, con l’eccezione dell’amore di Dio e della gioia eterna del Cielo. Così, nella sua sapienza liturgica, la Chiesa permette che anche il ciclo dell’anno giunga alla sua solenne conclusione, affinché possiamo essere nuovamente spronati a ricominciare. Mentre questa serie di riflessioni si avvia al termine, il nostro sguardo è rivolto all’Epistola assegnata per la 24ª e ultima Domenica dopo Pentecoste, Colossesi 1,9-14, e alla sconvolgente pericope evangelica dei “tempi ultimi” tratta da Matteo 24,15-35. Poiché quest’anno la data della Pasqua è caduta in un certo modo, non è stato necessario ricorrere a nessuna delle Domeniche dopo l’Epifania per colmare lo spazio tra la 23ª Domenica e l’ultima (che è sempre la 24ª, anche quando non lo è di fatto). La fine dell’anno liturgico si incastra con il suo inizio.

Colossi, città della Frigia nell’Asia Minore (l’attuale Turchia), era una comunità cristiana composta in prevalenza da gentili (cf. Col 1,21.27; 2,13). San Paolo non vi si recò personalmente, ma affidò la formazione di quella Chiesa ai suoi collaboratori, come Epafra. Durante la sua prigionia a Roma, Paolo scrisse loro questa grande lettera, affrontando le influenze emergenti che minacciavano l’integrità del Vangelo: residui di riti misterici pagani, pressioni da parte di giudaizzanti e il fascino di sistemi gnostici. La prima parte della Lettera è dedicata alla dottrina; la seconda, alla vita morale che scaturisce dalla retta fede. Sia nell’Epistola del Vetus Ordo per Cristo Re (Col 1,12-20), sia nell’Epistola odierna (Col 1,9-14), Paolo insiste che la vera vita cristiana porta frutto, approfondisce la conoscenza di Dio e trae i credenti dalle tenebre per introdurli nel regno del Figlio diletto.

Il Beato Ildefonso Schuster riassume l’Epistola di oggi con la sua consueta chiarezza:
Nella Lezione odierna San Paolo descrive le inesauribili ricchezze dell’ideale cristiano, la conoscenza delle vie di Dio, la fecondità nelle opere buone, la comunione dei santi nel regno della luce e la remissione dei peccati mediante il sangue del Redentore. Egli insiste sull’idea che il cristianesimo è vita e, come tale, ha bisogno di sviluppo, di audacia, di energia, affinché ogni membro della Chiesa, sotto l’influsso della grazia divina, possa avanzare quotidianamente nella piena realizzazione della vita di Cristo.
Paolo scrive con tanta sicurezza perché ha sentito parlare della costante crescita dei Colossesi attraverso il ministero di Epafra. Perciò, “dal giorno in cui ne venimmo a conoscenza, non cessiamo di pregare per voi”, chiedendo che possano “essere ricolmi della conoscenza della sua volontà con ogni sapienza e intelligenza spirituale” (Col 1,9). L’Apostolo prega che essi siano “rafforzati con ogni potenza”, perseverino con pazienza, rendano grazie al Padre che “ci ha resi degni di partecipare all’eredità dei santi nella luce” e che “ci ha liberati dal dominio delle tenebre”. La tonalità escatologica di queste parole si accorda naturalmente con le ultime settimane dell’anno liturgico, quando la Messa e l’Ufficio risuonano di ammonimenti sugli ultimi tempi e di consolazioni per i fedeli: morte, giudizio, cielo, inferno, distruzione di Gerusalemme, “l’abominio della desolazione”, lo sconvolgimento del cosmo e la venuta del Figlio dell’uomo nella gloria.

Il Vangelo odierno, Matteo 24,15-35, è davvero terrificante. Eppure la Chiesa pone questa immaginazione spaventosa sulle nostre labbra proprio nel momento in cui l’anno volge al termine, affinché contempliamo sia la fine del mondo sia la Seconda Venuta. L’Avvento, lungi dall’essere un preludio sentimentale al Natale, è profondamente escatologico: non si concentra solo sulla prima venuta di Cristo nell’umiltà di Betlemme, ma anche sul suo ritorno trionfale nella maestà.

Tra le letture, il Graduale dal Salmo 43 (44) proclama: “Tu ci hai salvato dai nostri nemici… In Dio ci siamo sempre gloriati…”. L’Alleluia intona il Salmo 129 (130), il caro De profundis: “Dal profondo a te grido, o Signore!”. Questi canti di transizione fungono spesso da ponte lirico tra Epistola e Vangelo; ma oggi si può immaginare lo stesso Paolo cantandoli in prigione con la stessa fervente passione con cui lui e Sila intonarono inni a mezzanotte (Atti 16,16-40). L’Apostolo può esultare per il fiorire spirituale dei Colossesi pur gridando dal profondo della sua reclusione. La sua prigionia diventa un luogo di libertà paradossale, immagine del cristiano che rimane gioioso nelle tribolazioni, saldo nelle persecuzioni e non teme di incontrare il Signore né nella morte né nella finale Parusia.

Una tale audacia soprannaturale sgorga dall’esortazione di Paolo: «portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio» (Col 1,10). Non “in qualche opera buona”, ma “in omni opera bono fructificantes”. I cristiani devono essere vigili per cogliere ogni occasione di grazia, ogni possibilità di magnificare Dio, ogni momento per manifestare in sé la vita di Cristo. Allo stesso modo, Paolo non dice “accontentatevi della vostra attuale conoscenza di Dio”. Perché la conoscenza di Dio cresce non soltanto attraverso lo studio intellettuale della dottrina cattolica, ma anche attraverso le opere di misericordia infuse di grazia, nelle quali il mistero dell’immagine divina nel nostro prossimo si rivela come lo splendore velato che risplendeva sul volto di Mosè dopo l’incontro con il Signore nella Tenda del Convegno. La fede è sia un contenuto in cui crediamo (fides quae), sia una virtù infusa mediante la quale crediamo (fides qua).

Mai come oggi è stato necessario per i cattolici reimparare le basi, approfondire la conoscenza della dottrina ed evitare le trappole dei falsi maestri, indipendentemente dal colore delle rifiniture sulle loro tonache.

E non vi è luogo in cui questo apprendimento sia così incarnato, nessun’altra arena in cui la dottrina sia così “vissuta”, come nel culto liturgico sacro, “l’opera buona e perfetta”, la theologia prima. I disordini che vediamo oggi nella Chiesa derivano in gran parte da una frattura nella continuità sia del credere sia del celebrare. Ogni autentica riforma inizia da un culto rettamente ordinato; ogni azione apostolica rifluisce nel Sacrificio. “Siamo i nostri riti”.

Con perfetta coerenza, la Colletta di questa ultima Domenica esprime tutto questo programma spirituale con maestà compatta:
Excita, quaesumus, Domine,
Tuorum fidelium voluntates:
ut, divini operis fructum propensius exsequentes,
pietatis Tuae remedia maiora percipiant.
Questa Colletta risale almeno al Liber sacramentorum Augustodunensis del IX secolo, a sua volta basato su materiale gelasiano antico. Il suo vocabolario latino brilla di una ricchezza patristica accuratamente forgiata. Excita: “sveglia, desta, incita”. Propensius: “con maggiore zelo, più volentieri”. Exsequentes: “perseguendo, portando a compimento”. Pietatis Tuae: la misericordia divina. Remedia maiora: i rimedi più grandi della guarigione di Dio. Una resa letterale sarebbe:
Suscita, Ti preghiamo, o Signore,
le volontà dei Tuoi fedeli:
affinché, perseguendo più ardentemente il frutto dell’opera divina,
possano ricevere in misura maggiore i rimedi della Tua misericordia.
Le due forme comparative, propensius e maiora, rivelano una simmetria teologica: quanto più ardentemente perseguiamo l’opera divina (che è essa stessa la grazia che opera in noi), tanto più abbondantemente Dio concede la Sua guarigione.

Questa Colletta è all’origine del nome inglese “Stir-Up Sunday” [domenica di mescolamento], non solo per il latino excita, ma anche per l’usanza di mescolare il pudding di Natale in questo giorno. L’immagine domestica completa con grazia la chiamata spirituale: rimescolare, svegliare, ridestare il cuore intorpidito per prepararsi sia alla Natività sia alla Seconda Venuta.

Persino la venerabile tradizione gelasiana riecheggia in modi inattesi. Papa Benedetto XIV, nella Providas Romanorum (1751), cita una preghiera attribuita da San Giuseppe Maria Tomasi a Gelasio, da una Messa contra obloquentes (“contro coloro che insultano”):
Praesta, quaesumus, Domine ut mentium reprobarum non curemus obloquium
con la sorprendente invocazione:

Abbatti, o Signore, con la forza della Tua destra, coloro che tramano contro il firmamento della Tua pienezza; affinché l’iniquità non domini sulla giustizia, ma la falsità sia sempre sottomessa alla verità.

Il realismo tenace di questa preghiera risuona con la vigilanza escatologica dell’ultima Domenica dell’anno.

Ulteriori connessioni nei testi della Messa di oggi illuminano ancora l’immaginario della Colletta. San Gregorio Magno, nel suo sermone su Matteo 20 (Hom. XL in Evangelia, I, 19, 2), interpreta la parabola degli operai della vigna riferendola alle età della vita dell’uomo. Egli contrappone il lavoratore industrioso all’uomo ozioso.
“Chiunque vive per sé stesso e si sazia dei piaceri della carne, è giustamente chiamato “ozioso”, perché non persegue il frutto dell’opera divina (quia fructum divini operis non sectatur).
Così la Colletta diventa una supplica affinché non siamo oziosi, non ci accontentiamo del minimo spirituale, ma siamo rianimati – excita – nel perseguire il frutto dell’opera divina con ancor maggiore zelo, soprattutto sulla soglia dell’Avvento.

L’ammonimento di Paolo a “portare frutto in ogni opera buona”, l’esortazione della Colletta a perseguire il frutto dell’opera divina, la Secreta che invoca la purificazione dalle cupiditates, la Postcommunio che chiede guarigione (medicatio), e gli ammonimenti del Vangelo riguardo inganni e anticristi: tutto converge in un ultimo, vigoroso appello — essere vigilanti, essere fecondi, essere pronti.

I primi cristiani ardevano dal desiderio del ritorno di Cristo, gridando maranatha (“Vieni, Signore!”). Pius Parsch nota che i cristiani medievali aggiunsero un senso di timore, incarnato nel Dies Irae: “Le mie preghiere non sono degne: ma Tu, che sei buono, concedi misericordiosamente che non sia bruciato dal fuoco eterno”.

Noi moderni manchiamo sia del desiderio sia del timore.

“Che cosa ci resta da fare?”, chiede Parsch. La sua risposta è semplice e luminosa: meditare sulle realtà ultime, coltivare la prontezza, fissare lo sguardo sulla Seconda Venuta di Cristo e arricchirsi di opere buone. Lo stesso Santo Sacrificio è una mistica Seconda Venuta, dove giudizio e misericordia si incontrano: Cristo ripresenta il giudizio che Egli ha assunto su di Sé, affinché noi possiamo udire: “Venite, benedetti del Padre mio…”.

E così, mentre l’anno liturgico si chiude, il Pulpit Orator del XIX secolo di Johann Evangelist Zöllner offre una perorazione adatta e insuperabile:

Poiché le epistole che gli Apostoli scrissero con l’assistenza e l’ispirazione dello Spirito Santo contengono la parola di Dio tanto quanto i Vangeli, uguale onore è dovuto ad entrambe; non omettete dunque di leggerle nelle domeniche e nei giorni festivi insieme ai Vangeli… Facendo così, apparterrete al numero di coloro dei quali Cristo dice: “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono”. — Luca 11,28.

E così, cari lettori, si chiude la nostra serie Colligite Fragmenta. Come il raccolto portato nei granai prima del gelo invernale, le nostre riflessioni sulle ultime Domeniche dell’anno ecclesiastico hanno cercato di accumulare grano spirituale nel magazzino dell’anima.

Così termina l’anno. Così ne inizia uno nuovo. Excita… risveglia… desta. Il Signore è vicino.

Preparatevi.
Fr. John Zuhlsdorf – 21 novembre 2025

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

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