La sfida teoretica posta dall’intelligenza artificiale tocca il nucleo metafisico della modernità, là dove la persona è stata concepita come nodo di processi informazionali. L’intelligenza artificiale messa alla prova del tomismo riapre la questione dell’essere, della verità e del fine ultimo, che la semantica corrente tende a rimuovere. Qui l'indice degli articoli sulla realtà distopica.
L’Intelligenza Artificiale alla prova del tomismo
Che cosa accade all’uomo quando egli inizia a conferire il nome di “intelligenza” a un artefatto, ossia a qualcosa che per definizione non possiede in sé il principio del proprio agire, ma lo riceve interamente dall’esterno? La sfida teoretica posta dall’intelligenza artificiale non riguarda soltanto l’ambito della tecnica applicata o della regolazione giuridica di nuovi strumenti; tocca il nucleo metafisico della modernità, là dove la nozione stessa di intelletto è stata progressivamente ridotta a funzionalità calcolante, e la persona è stata concepita come nodo di processi informazionali.
Mettere l’intelligenza artificiale alla prova del tomismo significa allora sottoporre questa riduzione a un vaglio radicale, riaprendo la questione dell’essere, della verità e del fine ultimo, che la semantica corrente tende a rimuovere.
Nel pensiero di Tommaso d’Aquino (1225-1274) l’intelletto non è un fenomeno emergente di strutture complesse, né un epifenomeno della materia organizzata: è atto di una forma sostanziale spirituale, l’anima razionale, che costituisce l’uomo come “substantia completa, subsistens in rationali natura”. L’intellectus non è un semplice nome per designare operazioni discorsive; è la potenza capace di ricevere intenzionalmente tutte le forme, senza identificarsi con nessuna di esse, proprio in forza della sua immaterialità. L’uomo “fit quodammodo omnia” in quanto l’intelletto possibile, reso attuale dall’intelletto agente, si apre all’universale; l’operazione intellettiva è così un modo peculiare di partecipare all’actus essendi, poiché in essa l’ente finito accoglie l’ente secondo il modo del vero.
Questa struttura trascendente dell’intelletto umano, che si colloca nel punto di intersezione tra la finitezza della creatura e la partecipazione alla luce della verità prima, rende possibile il linguaggio, il diritto, la vita politica, l’intero ordine delle istituzioni. La persona non è individuo tra altri, contenuto omogeneo di una classe; è “individua substantia rationalis naturae”, realtà irripetibile nella quale la natura razionale sussiste secondo un modo proprio e indiviso. La dignità, in tale orizzonte, non è un riconoscimento esterno, bensì il sigillo di questa partecipazione metafisica: la persona, in quanto capace di verità e di bene, non può essere assorbita in nessun ordine puramente funzionale senza un tradimento dell’essere.
L’intelligenza artificiale, nella sua forma più avanzata, non ha accesso a questo ordine metafisico. Essa si situa interamente nel regime dell’“ens artificiale”, cioè dell’ente la cui forma non è principio intrinseco di sussistenza e di operazione, ma dispositio ad finem imposta dall’arte umana. Un sistema algoritmico, anche quando integra procedure di apprendimento automatico e capacità di auto-adattamento, resta configurazione di materia (fisica o simbolica) disposta secondo regole formali, ordinate a uno scopo determinato dall’uomo.
Ciò che chiamiamo “apprendimento” dell’algoritmo consiste nell’aggiornamento di parametri secondo funzioni di costo, nell’ottimizzazione di prestazioni rispetto a obiettivi che non provengono da una interna deliberazione sul bene, ma da una intenzione eteronoma. In termini tomisti, si potrebbe dire che l’intelligenza artificiale è una complessa causalità strumentale senza autonomia di fine. L’artefatto partecipa della causalità dell’artefice come strumento partecipa alla causalità del principale: esso agisce, ma non “da sé”, poiché l’ordine alla finalità non scaturisce dalla sua forma come da un principio sostanziale, bensì dall’atto di un altro intelletto che l’ha concepito.
La seduzione contemporanea sta precisamente nel proiettare sullo strumento le categorie proprie del soggetto: si parla di decisione, di scelta, di creatività dell’algoritmo, mentre ciò che si ha è una sofisticata implementazione di regole. La macchina non conosce l’essere; manipola segni. Non accoglie l’universale; calcola correlazioni. Non si apre al vero; converte input in output secondo schemi.
Qui la prova del tomismo diviene rigorosa. Se l’intellettività, per Tommaso, è essenzialmente apertura all’ente in quanto ente, capacità di trascendere la singolarità sensibile verso la forma universale e, attraverso l’universale, verso l’ordine dell’actus essendi, allora l’intelligenza artificiale, proprio in quanto chiusa nell’immanenza del calcolo, non potrà mai essere detta “intelligente” se non in un senso analogico-largamente metaforico. L’analogia, in questo caso, non indica una partecipazione reale alla stessa perfezione – come accade per le creature rispetto a Dio – bensì una somiglianza remota di effetti: la macchina produce risultati che, per l’osservatore, appaiono simili a quelli di un’intelligenza.
Ridurre l’intelletto umano a questo tipo di effetti significa, però, dissolvere la sua dimensione metafisica e con essa il fondamento dei diritti, della legge, della responsabilità. Sul terreno giuridico, tale dissoluzione genera proposte che rivelano la crisi dell’ordine concettuale. L’ipotesi, avanzata da alcuni, di riconoscere status di “persona elettronica” ai sistemi avanzati di IA manifesta l’oblio della definizione classica di persona. Se questa è “subsistens in rationali natura”, allora la personalità non è un dispositivo giuridico assegnabile arbitrariamente a qualunque ente che produca effetti sociali; è riconoscimento di una struttura ontologica. Attribuire personalità all’artefatto significa, in ultima analisi, confondere il livello dell’utile con quello del fine, delle res con il livello delle personae, trasformando il diritto in un puro linguaggio di gestione dell’efficienza.
In una tale prospettiva la persona umana rischia di apparire come una modalità tra le altre di un più vasto sistema informazionale, invece che come principio e fine dell’ordine giuridico. Il tomismo oppone a questa deriva una rigorosa gerarchia dell’essere. L’ens naturale precede l’ens artificiale, perché solo il primo possiede in sé il proprio principio di operazione; la persona prevale sulla cosa, perché soltanto la persona partecipa della luce intellettiva per cui si è responsabili del bene e del male. La legge stessa, in quanto “ordinatio rationis ad bonum commune, ab eo qui curam habet communitatis promulgata”, presuppone un soggetto capace di ragione pratica, cioè in grado di cogliere, nei principi della lex naturalis, l’eco della lex aeterna.
A questa capacità partecipa unicamente l’essere personale; non vi accede l’artefatto, che resta esterno a ogni orizzonte di imputazione morale propria. Ciò non esonera il giurista dal confrontarsi con la potenza di trasformazione sociale dell’intelligenza artificiale. Se la tecnica è, per Tommaso, habitus dell’intelletto pratico ordinato alla produzione di un’opera, l’IA è oggi il luogo nel quale l’arte, in senso forte, si concentra e si amplifica. In essa l’uomo imprime nel mondo la propria forma razionale attraverso strutture capaci di modulare i processi sociali, di anticipare comportamenti, di filtrare informazioni, di distribuire possibilità. Si tratta di un’estensione inaudita della causalità strumentale, nella quale il potere di incidenza sulle vite individuali e collettive raggiunge un livello tale da rischiare di eclissare, agli occhi dei più, la causa principale, cioè la deliberazione della persona e della comunità politica.
Qui si annida ciò che, in chiave tomista, si potrebbe chiamare peccato di idolatria tecnica. L’idolo è sempre un ente finito innalzato a criterio ultimo, posto nel luogo che compete soltanto all’Assoluto. Quando l’algoritmo viene trattato come fonte di verità, come istanza insindacabile di decisione, come oracolo che anticipa il reale meglio di quanto il reale si lasci conoscere dall’esperienza e dalla ragione, si compie una vera e propria inversione dell’ordine delle cause: il mezzo si pone come fine, la causa strumentale usurpa il posto della causa formale e finale.
Il diritto, se cede a questa idolatria, rinuncia alla propria natura di rationis ordinatio, degradandosi a insieme di protocolli che ratificano esiti tecnici. Nella prospettiva di Tommaso la prudenza (prudentia) è la virtù che garantisce l’unità dell’agire umano alla luce del fine ultimo. Essa è recta ratio agibilium, non semplice efficacia operativa. In quanto tale, integra la memoria del passato, l’intelligenza del presente e la docilità alla realtà che si offre, orientando la scelta verso ciò che custodisce l’integrità del bene umano.
L’intelligenza artificiale, per sua struttura, non è prudente: implementa funzioni, non contempla fini; ottimizza rispetto a obiettivi, non giudica la loro bontà; calcola probabilità, non discerne il giusto. La sostituzione progressiva della prudenza politica e giudiziaria con apparati algoritmici introduce, nel cuore del diritto, una discontinuità silenziosa: si passa da una razionalità teleologica a una razionalità funzionale, dal governo delle persone al governo dei processi.
È in questo slittamento che la persona corre il rischio di essere riassorbita nel dato. L’onnipresenza dei sistemi di profilazione, dei punteggi di rischio, delle metriche di affidabilità produce una antropologia implicita, secondo cui l’uomo è ciò che i suoi dati dicono di lui. Il soggetto viene scomposto in vettori di caratteristiche, ricomposto in cluster statistici, sottoposto a decisioni automatizzate che lo raggiungono non in quanto persona, ma in quanto portatore di determinati pattern.
Dal punto di vista tomista, ciò equivale a un ritorno allo schema della mera forma accidentale: la sostanza spirituale, che è il vero soggetto dei diritti, si dissolve sullo sfondo e la scena viene occupata da attributi quantificabili, rilevanti per procedure di controllo e distribuzione. Il diritto, in quanto partecipa della sapienza pratica, non può accontentarsi di regolare la superficie di questi processi. Esso è chiamato a ristabilire l’ordine delle gerarchie: ricordare che la comunità politica esiste in vista della perfezione delle persone, non viceversa; che il bene comune non coincide con il massimo di controllo o di previsione, ma con la condizione in cui ciascuno può tendere al proprio fine umano nella giustizia; che la legge naturale non è un retaggio pre-moderno, bensì la struttura stessa della razionalità pratica in quanto giudica sui fini e non soltanto sui mezzi.
In questo quadro, l’intelligenza artificiale trova il suo posto autentico: quello di strumento potente, la cui liceità dipende dal rapporto con il bene umano integrale. Proprio la nozione tomista di partecipazione offre una chiave ulteriore. La creatura razionale partecipa analogicamente della verità e del bene divini; l’ordine politico partecipa della lex aeterna tramite la lex naturalis e la lex humana giusta; la tecnica partecipa dell’intelletto umano come prolungamento della sua capacità di ordinare cause seconde al fine. L’intelligenza artificiale rappresenta un’intensificazione di questa partecipazione strumentale, non un salto ontologico verso una nuova soggettività.
Pretendere che la macchina “partecipi” dell’intelletto allo stesso modo della persona significa confondere gradi diversi dell’essere; è un errore di analogia che si rovescia immediatamente in errore giuridico. Alla prova del tomismo, dunque, l’intelligenza artificiale costringe a una scelta: o si accetta di ripensare la nozione di intelligenza alla luce dell’actus essendi, riconoscendo che il pensiero umano non è riducibile a informazione manipolata, e che la persona è il centro intrascendibile di ogni ordine giuridico; oppure si imbocca la via di una civiltà in cui l’algoritmo, assurto a criterio ultimo, recide il legame tra diritto e giustizia, tra legge e verità, tra libertà e responsabilità.
Nel primo caso, la tecnica viene assunta nell’orizzonte della sapienza e disciplinata da essa: il giurista, il legislatore, il giudice restano vigili custodi del primato della persona, e si servono dell’IA senza cedere alla sua pretesa di autosufficienza. Nel secondo, la tecnica diviene la grammatica stessa del pensiero, e il diritto si riduce a un linguaggio secondario, addetto alla formalizzazione di processi che altrove si decidono.
La “prova” del tomismo non consiste, allora, in un rifiuto pregiudiziale dell’intelligenza artificiale, né in una ingenua celebrazione delle sue possibilità. Consiste nello svelarne la natura di strumento potentissimo che chiede, proprio per questo, una elevata coscienza metafisica. Là dove questa coscienza viene meno, l’IA si tramuta da serva in padrona, da mezzo in idolo, da estensione dell’arte umana in principio occulto di eteronomia. Là dove invece la metafisica dell’actus essendi viene salvaguardata, l’intelligenza artificiale è ricondotta alla sua giusta misura: quella di un artefatto che può amplificare la capacità umana di conoscere e di agire, senza mai toccare il centro personale in cui l’uomo, partecipando della verità e del bene, resta irriducibilmente più grande di ogni macchina che egli costruisce.
In questo senso, l’intelligenza artificiale alla prova del tomismo è, in realtà, l’uomo moderno alla prova della propria verità. Se egli accetta di lasciarsi misurare dalla sapienza di un pensiero che riconosce la priorità dell’essere sul fare, del vero sull’utile, del fine sul mezzo, allora la tecnica, per quanto potente, non potrà infrangere l’ordine oggettivo della giustizia. Se invece egli preferisce farsi misurare dalla macchina, e definire se stesso a partire dai propri artefatti, allora l’algoritmo diventerà il nuovo nome del destino, e il diritto smetterà di essere luogo della libertà per trasformarsi in un apparato di programmazione dell’umano.
Il tomismo, in questa alternativa, non è una dottrina del passato, ma la forma di una resistenza teoretica essenziale perché l’uomo resti, anche nell’era dell’intelligenza artificiale, davvero persona e non mera funzione di un sistema.
Daniele Trabucco

2 commenti:
L'IA è solo uno degli idoli diabolici da cui siamo circondati. Purtroppo gli uomini di Chiesa non ne sono molto coscienti, stando sempre nelle sagrestie senza uscire dalle medesime, e curandosi del gregge in maniera superficiale e falsa, vedasi la protezione degli insipienti, a loro dire, dai titoli di Corredentrice e Mediatrice. Ma sui veri pericoli tutto tace.
In un’intervista a CNA Deutsch — agenzia di stampa tedesca del gruppo ACI — Thomas Marschler, professore di Dogmatica cattolica all’Università di Augusta, ha affermato:
“Ovviamente, Tommaso non avrebbe potuto prevedere lo sviluppo della tecnologia negli 800 anni successivi alla sua nascita. Nessuno ai suoi tempi avrebbe immaginato l’invenzione di macchine capaci di utilizzare la tecnologia informatica per risolvere problemi in modo simile agli esseri umani intelligenti, o addirittura superarli”.
Tuttavia, sebbene gli scritti di San Tommaso non contengano riferimenti diretti all’Intelligenza Artificiale — così come non parlano di viaggi spaziali o di fisica quantistica —, il suo pensiero può offrire spunti di riflessione sugli aspetti filosofici ed etici della questione.
“Per esempio, quando il fenomeno dell’IA viene utilizzato come argomento a favore di una visione naturalistica dell’essere umano, Tommaso può aiutarci a evitare conclusioni errate, grazie alle sue intuizioni sulla natura dell’anima spirituale e delle sue facoltà, sulla singolarità della coscienza e sul legame personale che ne è portatore”, spiega Marschler.
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