Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 24 novembre 2025

Mentre l’Islam chiede visibilità e spazio e finora li guadagna, ai cristiani viene chiesto il silenzio e si adeguano

Qui l'indice degli articoli in tema.
Mentre l’Islam chiede visibilità e spazio e finora li guadagna, ai cristiani viene chiesto il silenzio e si adeguano

Questa mattina, scorrendo Instagram, mi sono imbattuta in un video di Isabel Brown, una commentatrice americana che seguo da tempo. Parlava di un tema che molti in Europa ignorano o non vogliono vedere: il pericolo dell’Islam istituzionale quando entra nelle strutture politiche e comincia a influenzare le leggi, la cultura e la vita quotidiana. Lei stessa afferma apertamente che l’Islam istituzionale non è compatibile con la civiltà occidentale, perché nei Paesi dove prende forma politica finisce sempre per limitare diritti fondamentali, in particolare quelli delle donne e delle minoranze religiose. Il suo discorso nasceva dalle elezioni di Zohran negli Stati Uniti, una situazione che avevo commentato anch’io giorni fa. Molti avevano capito il mio punto, ma altri mi avevano chiesto in che cosa la sua religione rappresentasse un problema e perché dovrebbe preoccupare più di un politico cattolico che tiene un rosario. Da cristiana, da pakistana e da persona che ha vissuto in un Paese dove la religione diventa legge, questa domanda mi fa preoccupare profondamente. Possibile che abbiamo perso completamente la capacità di distinguere?

E forse questa incapacità di distinguere nasce anche dal fatto che in Italia non si è mai davvero sperimentato cosa significhi vivere accanto a un Islam che non rimane privato, ma tende a radicarsi nelle strutture sociali. È un cambiamento che io ho iniziato a percepire già anni fa. Ricordo quando studiavo a Roma nel 2013: vedevo i primi segnali in alcuni quartieri, una presenza diversa che cominciava piano piano a diventare parte del paesaggio urbano. Oggi, vivendo a Torino, questa sensazione è diventata ancora più evidente. Le strade sono piene di donne con l’hijab, molte famiglie provenienti da Paesi di forte tradizione islamica, una presenza sempre più numerosa e visibile. E voglio dirlo con chiarezza: l’hijab non è il problema. Il vero problema è ciò che accade parallelamente: una crescente visibilità pubblica dell’Islam, mentre allo stesso tempo ai cristiani viene chiesto di fare un passo indietro, di non nominare Gesù a Natale per “non offendere”, di mettere la propria fede tra parentesi.

Questa asimmetria non è rispetto: è cancellazione. E mentre tutto questo accade, molti sembrano non collegare i punti. Si considera uguale un politico cattolico e uno musulmano, ignorando che il cattolicesimo – nella sua espressione moderna e secondo la dottrina della Chiesa – non pretende che lo Stato diventi cattolico. Un cattolico può portare un rosario, può ispirarsi al Vangelo, ma non chiede che il Codice di Diritto Canonico diventi legge civile. L’Islam istituzionale invece, nelle sue forme politiche, non separa religione e Stato. Io provengo da un Paese dove lo Stato e la religione sono un’unica cosa: in Pakistan la legge non esiste senza la religione, e la religione non esiste senza la legge. Le donne, i cristiani, le minoranze, i convertiti: tutti vivono sotto un sistema che decide ciò che possono o non possono fare in nome della religione. Il cristianesimo porta libertà; l’Islam politico porta controllo.

Non tutti i musulmani la pensano così, questo è evidente. Ma quando un politico musulmano parla apertamente del desiderio di portare la propria religione nella gestione della città — come è accaduto negli Stati Uniti — la domanda è legittima: quali parti della sua fede vuole tradurre in legge? Quale idea ha della libertà religiosa, dei diritti delle donne, della libertà di coscienza? Questi interrogativi non sono discriminazione: sono prudenza, sono responsabilità, sono memoria.

Il paradosso più grande, però, è che mentre l’Islam chiede visibilità e spazio, ai cristiani viene chiesto il silenzio. Nella scuola di mia figlia si parla e si celebra il Ramadan con naturalezza, mentre a Natale quasi bisogna evitare di nominare Gesù. È accaduto anche a me, anni fa a Roma, di sentirmi dire da uomini bengalesi: “Come fai a essere ancora cristiana? Perché non sei musulmana, venendo dal Pakistan?”. Questa mentalità la conosco bene, perché fa parte di un sistema dove l’identità islamica non resta mai solo personale, ma tende a espandersi nella società.

A giugno, durante una visita all’Acquario di Genova, sono rimasta colpita dalla grande presenza di famiglie bengalesi; lo stesso accade intorno al Vaticano, dove i negozi gestiti da comunità islamiche sono in aumento. A Torino, lo vedo ogni giorno. Non è razzismo, non è giudicare le persone — che meritano rispetto come tutti gli esseri umani — ma sarebbe ingenuo fingere che questa crescita non porti con sé un forte senso identitario. L’Europa, nel frattempo, perde le sue radici cristiane e sembra quasi vergognarsi della sua identità. L’Islam, invece, non perde mai il legame tra fede, cultura e comunità. E quando una religione cresce più velocemente delle altre, mentre quella “di casa” si indebolisce, il risultato finale non è difficile da immaginare.

Chi non ha vissuto in Paesi musulmani non può comprendere fino in fondo cosa significhi vivere sotto un Islam istituzionale. Non ha visto leggi sulla blasfemia, conversioni forzate, matrimoni precoci, discriminazioni verso le minoranze. Non ha visto cosa succede quando la religione non resta nella sfera privata. Io sì. E chi proviene da quei Paesi lo sa molto bene.

Non scrivo tutto questo per alimentare odio o paura. I musulmani non sono il nemico; sono persone amate da Dio, come ogni essere umano. Ma c’è una differenza tra rispettare le persone e ignorare i pericoli di un sistema politico-religioso che limita la libertà cristiana, la libertà delle donne e la libertà di coscienza. Posso amare il prossimo e, allo stesso tempo, dire con fermezza che non voglio vivere sotto un sistema che non concede la reciprocità: moschee qui, ma nessuna chiesa lì; libertà di predicare qui, ma nessuna libertà di conversione là.

L’Italia e l’Europa stanno cambiando. Il punto non è impedire questo cambiamento, ma capirlo, leggerlo, riconoscerlo con lucidità. Non dobbiamo odiare nessuno, ma non dobbiamo neppure essere ingenui. E se i cristiani non riescono più a distinguere la differenza tra la fede cattolica — che libera — e l’Islam politico — che controlla — allora il problema è molto più grande.

Scrivo tutto questo come donna cattolica, come pakistana che ha conosciuto l’altra faccia della medaglia, e come italiana d’adozione che ama profondamente questo Paese. Non parlo per paura: parlo per esperienza. E proprio per questo oggi sento il dovere di dirlo, con chiarezza, rispetto e coraggio.

* * *
Situazione del Pakistan
Negli ultimi giorni ho parlato con diversi giovani adulti della nostra comunità cristiana. Come sapete, il mio impegno per sostenere l’educazione dei nostri bambini e aiutare i nostri giovani a costruirsi un futuro migliore è una parte fondamentale del mio lavoro. E proprio ascoltando loro, ancora una volta, mi sono ritrovata davanti a una realtà che in Pakistan conosciamo tutti fin troppo bene. Molti di questi ragazzi hanno studiato, si sono impegnati, hanno fatto sacrifici. Eppure, quando cercano lavoro, si scontrano sempre con lo stesso ostacolo: la loro identità cristiana. La scena è sempre la stessa. Al termine del colloquio, dopo tutte le domande tecniche, arriva quella finale: “Di quale religione sei?” Quando rispondono “Cristiano”, il tono cambia. “Ti faremo sapere.” È una frase di cortesia che, da noi, significa semplicemente: “Non ti richiameremo.”

La cosa non mi sorprende più. Ho 38 anni e ricordo benissimo di aver vissuto la stessa identica esperienza quando avevo vent’anni e cercavo il mio primo lavoro. Andavo ai colloqui preparata, piena di speranza, convinta che contassero le competenze. Invece, anche allora, la mia fede diventava un problema. Durante un colloquio per insegnante d’inglese mi chiesero: “Cosa dice la Bibbia se qualcuno ti dà uno schiaffo sulla guancia?” Risposi: “Porgere l’altra guancia. Ma cosa c’entra con un colloquio per insegnare inglese?” Risero. “C’entra eccome.” Era chiaro che non stavano valutando la mia capacità di insegnare, ma se la mia identità religiosa fosse “accettabile”.

Sono passati quasi vent’anni, e i nostri giovani vivono ancora le stesse dinamiche. Nonostante l’istruzione, nonostante i progressi, la discriminazione rimane un muro invisibile che blocca intere generazioni. È un meccanismo silenzioso ma concreto, che costringe la nostra comunità a rimanere indietro, senza possibilità di competere alla pari, quando non subisce persecuzioni, anche cruente [qui - qui - qui]. 

Condivido tutto questo non per suscitare compassione, ma per far capire a chi vive altrove come stanno realmente le cose in Paesi come il Pakistan. Molti non immaginano nemmeno quanto sia un privilegio crescere in società dove la religione non è un criterio per accedere al lavoro, dove nessuno ti chiede quale fede professi prima di valutare le tue capacità. Da noi non è così. Da noi, la fede cristiana diventa la ragione per cui una vita può essere limitata, frenata, respinta.

Questa è la realtà che viviamo qui. Una realtà scomoda, spesso ignorata, ma che continua a segnare il futuro di migliaia di giovani cristiani. E non la racconto per chiedere pietà, né per presentare la nostra comunità come vittima: la racconto perché il silenzio protegge solo chi discrimina, mai chi subisce. Chi vive in Paesi dove la religione non determina il valore di una persona spesso non immagina cosa significhi crescere sapendo che il tuo cognome, la tua fede, la tua identità possono decidere se avrai un’opportunità o no. Per molti è un concetto lontano; per noi è la quotidianità.

E tuttavia, nonostante tutto questo, continuiamo ad andare avanti. Continuiamo a studiare, a formare, a sostenere i nostri giovani. Continuiamo a bussare a porte che spesso non si aprono, ma non smettiamo di farlo. Perché la nostra comunità non si arrende. Perché i nostri giovani meritano un futuro costruito sul merito, non sulla religione. Perché nessun sistema, per quanto ingiusto, potrà spegnere il desiderio di dignità e libertà che portiamo dentro.

E un giorno, ne sono certa, la nostra perseveranza sarà più forte della discriminazione che abbiamo dovuto subire. Un giorno, le storie dei nostri giovani non saranno più esempi di ingiustizia, ma testimonianze di una comunità che ha avuto il coraggio di resistere, di rialzarsi e di cambiare la propria storia. Fino ad allora, continueremo a dire la verità. Senza paura. Perché è così che si apre la strada a un domani diverso. 
Zarish Imelda Neno

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Chi pecora si fa il lupo se la mangia.
E il Cattolicesimo modernista, quello del sentimento malato, cioè tra il decadente e il buonista, si è messo nella condizione di diventare eppoi essere masochista. Non è casuale la presenza sado/maso tra gli omosessuali consacrati. Il forte può anche porgere l'altra guancia da forte, che è modo dell'essere persona. Eppoi le guance son due fisicamente, scientificamente. Quindi il forte porta l'altra guancia , ha mostrato al suo schiaffeggiatore di che stoffa è fatto. Sono percezioni queste che avvertono anche le bestie sane. Non conosco islamici, ma conosco la gnagnera di una spiritualità, di una cultura che pratica il sentimentalismo, il decadentismo, il buonismo e ...tutti gli altri ismi ipocriti, falsi del caso. E si ritorna al saper dire il sì sì, no no al momento giusto, secondo Verità, con adulto e serio convincimento interiore. E invece si cede sempre per fare i graziosi, che all'occhio dello sgamato appaiono quelli che sono, imbelli, rinunciatari, ipocriti . Bisogna smettere di fare i graziosi e rinforzarare lo spirito con uno studio serio del Cattolicesimo Vero, quello che non faceva il grazioso, ma sapeva dire con certezza 'si sì, no no' a tempo e luogo.

Anonimo ha detto...

Aldo Maria Valli 4 ore fa
Tutti gli errori di “In unitate fidei”, ennesimo disastro teologico ed ecclesiale

Anonimo ha detto...

" Il forte porge l'altra guancia..." : dopodiche comincia a sua volta a menare.

da ex studente di Giurisprudenza ha detto...

Già avevo fatto un commento piuttosto "critico" sull'atteggiamento della Chiesa oggi nel post sull'essere "soldati di Cristo", che ancora nel 1976 poteva anche significare dover essere, se richiesto, soldati di un vero esercito ed impegnarsi anche in guerre che in taluni casi potevano essere anche offensive.
Ma visto anche cosa è successo qualche giorno fa in Nigeria (oltre 200 fra insegnanti e studenti di una scuola cattolica rapiti, verosimilmente da islamici) quell'insegnamento di catechesi mi ha fatto sorgere un dilemma: era aria fritta quello o è aria fritta l'insegnamento di oggi? Pure, la nostra età era piuttosto bassa, il più grande aveva 14 anni e il più piccolo 10, io ne avevo 12, cosa pensavano che capissimo di guerre offensive o difensive (no, non avevano spiegato quando una guerra offensiva era lecita).
Pare che ieri Leone XIV abbia detto qualcosa sul fatto in Nigeria. Stavolta quello che è stato zitto è stato Trump, che pure aveva ipotizzato (o straparlato?) di un intervento militare in Nigeria per proteggere i cristiani ben prima di questo fatto. Sospetto che si sia reso conto del rischio di fare un passo più lungo della gamba, dato che si è infilato già in due teatri di guerra che non possono certo dirsi già chiusi (Venezuela e Iran).