Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 20 febbraio 2012

Santa Sede - FSSPX . «Magistero o tradizione vivente?», don Gleize denuncia un falso dilemma

Pubblico una recente interessantissima puntualizzazione di Don Jean-Michel Gleize che centra il problema all'origine dell'apparente "dialogo tra sordi" cui ci è dato assistere in quest'epoca di confusione e oscuramento della verità nel dibattito tra Santa Sede e FSSPX. Il problema non è solo ermeneutico, è molto più profondo, perché vede di fronte due concezioni diverse del magistero, frutto di una vera e propria rivoluzione copernicana, collegata con una nuova concezione di Chiesa, inutile nasconderselo:
  1. quella nata dal concilio, che ha spostato il fulcro di ogni cosa dall'oggetto al soggetto.
    Il Magistero bimillenario della Chiesa poteva dirsi 'vivente' nel senso che trasmetteva inverandolo in ogni generazione - ma curandone l'integrità nella sostanza: eodem sensu eademque sententia - il Depositum fidei della Tradizione Apostolica, fondamento oggettivo, dato, pur se sempre ulteriormente approfondito e chiarito nelle sue innumerevoli ricchezze
  2. il magistero attuale si dice invece vivente, in senso storicistico, perché portatore dell'esperienza soggettiva della Chiesa di oggi (che sarà diversa da quella di domani) perché soggetta all'evoluzione determinata dalle variazioni contingenti legate alle diverse epoche.
Insomma è cambiato il cardine su cui si fonda la Fede, spostato dall'oggetto-Rivelazione al soggetto-Chiesa/Popolo-di-Dio pellegrina nel tempo e di fatto trasferito dall'ordine della conoscenza a quello dell'esperienza.

Non può non essere conseguenza - del resto abbastanza ovvia - della nuova antropologia introdotta dal concilio, passata dal teocentrismo all'antropocentrismo: un uomo centrato su se stesso e non più fontalmente orientato a Dio con le innumerevoli implicazioni, anche in campo liturgico, che non possono ovviamente essere sviluppate qui. Frutto dello storicismo, del personalismo e di ogni altra spinta modernista, che hanno nutrito la Nouvelle Théologie che la sta facendo tuttora da padrona, in una Chiesa non più docente ma dialogante, nella quale il munus docendi viene impropriamente esercitato dai teologi. [Vedi Gaudium et spes 12 24 - Gaudium et Spes 22]

Mi ha colpito la conclusione del documento citato da don Gleize alla fine: una Catechesi del Papa sulla Tradizione di aprile 2006: « ...Concludendo e riassumendo, possiamo dunque dire che la Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. » Sul 'succo' del discorso non possiamo che essere d'accordo; ma il vero problema sta nel fatto che quelle che vengono definite cose o parole come "collezione di cose morte", nella vulgata modernista vengono riferite al "magistero perenne" diventato "cosa morta" da sostituire sempre col magistero vivente, quello attuale...


«Magistero o tradizione vivente?», don Gleize denuncia un falso dilemma.

Durante una Conferenza del 25 gennaio scorso, a Sion (Svizzera), sul tema "magistero o tradizione vivente?" Don Jean-Michel Gleize, professore di ecclesiologia al Seminario di Ecône, ha fatto alcune precisazioni in ordine al suo studio Una question>e cruciale, apparso sull'ultimo Courrier de Rome di dicembre 2011, destinato a corredo della risposta di mons. Fellay al "Preambolo dottrinale". Ecco gli estratti più significativi di questa conferenza:

« Ci si obietta insomma che il magistero vivente, non quello di ieri, è oggi il solo degno di questo nome. Solo il magistero attuale è capace di dire ciò che è conforme alla Tradizione e ciò che le è contrario, perché solo esso rappresenta il magistero vivente interprete della Tradizione. Dunque, delle due l'una: o noi rifiutiamo il Vaticano II giudicandolo contrario alla Tradizione, ma contraddicendo il solo magistero possibile, il magistero vivente, che è quello di oggi (quello di Benedetto XVI), allora noi non siamo cattolici ma protestanti; oppure decidiamo di non essere protestanti e siamo obbligati ad accettare il Vaticano II per obbedire al magistero vivente, che è quello di oggi, il quale dichiara che il concilio è conforme alla Tradizione. C'è un dilemma, cioè un problema senza soluzione apparente, al di fuori delle due indicate: se si vuole sfuggire ad uno dei due ambiti, non si scappa dall'altro. Ma in realtà questo dilemma è falso. perché ci sono dei falsi dilemmi. (...)

Le due alternative sono evitabili, entrambe nelle stesso tempo, perché esiste una terza soluzione. È possibile rifiutare il Vaticano II senza essere protestanti e obbedendone al magistero; è possibile di non essere protestanti e di obbedire al magistero senza accettare il Vaticano II (...) Il dilemma è falso, perché si mostra che esiste una terza alternativa. La nostra risposta consiste dunque nel distinguere:

(...) il magistero vivente si dice non in opposizione al magistero passato; esso si dice in opposizione al magistero postumo. Il Magistero vivente è quello del presente, ma anche quello del passato. L'obiezione che ci viene fatta consiste nell'assimilare magistero vivente al magistero presente, e ad opporre questo magistero vivente a quello passato. Questa assimilazione ha luogo perché ci si pone esclusivamente dal punto di vista del soggetto. Non si distingue più tra i due punti di vista: quello della funzione (in cui il magistero vivente è nello stesso tempo presente e passato) e quello del soggetto (in cui il magistero vivente non è che presente). Si confondono i due punti di vista e si riduce così il magistero vivente a quello presente.

Il sofisma che ci si oppone consiste nel confondere i due sensi dell'aggettivo "vivente" attribuito al magistero. Noi diciamo che il magistero vivente ricopre tutto il magistero passato e presente, o ci poniamo così nel giusto punto di vista della costanza di una funzione sempre in vigore, il cui atto è definito attraverso l'oggetto. Chi obbietta, si pone dal punto di vista del soggetto e pretende che il magistero vivente coincida esclusivamente col magistero di un individuo in vita al momento presente.

Perché questa confusione? Perché ridurre il magistero vivente al magistero del presente? Perché si è voluto inventare, dopo il Vaticano II, un nuovo magistero. Il magistero è ridefinito, perché ha per obbiettivo quello di esprimere la continuità di un soggetto e non più quella di un oggetto. Continuità di un soggetto, ci dice Benedetto XVI nel discorso del 2005, 'che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino'. Per Roma, il magistero vivente è precisamente il magistero di Benedetto XVI, in opposizione al magistero di san Pio X o di Pio XII. E questo magistero è attuale perché è soggettivo, perché esprime la continuità d'un soggetto. È uno dei presupposti della Tradizione vivente, nel discorso del 2005.

Il magistero non si definisce più in funzione della verità eterna e atemporale della rivelazione (che rimane la stessa passata, presente o futura che sia). Questo nuovo magistero si definisce in funzione del soggetto presente dell'autorità, lui stesso organo di un altro soggetto più fondamentale che è l'unico Popolo di Dio in cammino attraverso il tempo. Il magistero vivente è sempre quello di questo tempo presente, perché si situa in riferimento al Popolo di Dio che vive in questo tempo presente. Il ruolo del magistero è di assicurare la continuità di una esperienza, è lo strumento dello Spirito che alimenta la comunione 'assicurando il collegamento fra l'esperienza della fede apostolica, vissuta nell'originaria comunità dei discepoli, e l'esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa' (Benedetto XVI "La comunione nel tempo: la Tradizione", allocuzione del 26 aprile 2006, L'Osservatore Romano n.18 del 2 maggio 2006, p.12) »

24 commenti:

Giampaolo ha detto...

Eh già, un conto è dire vivente nel senso dell'ultimo ha sempre ragione, perché vivo, su chi lo precede, perché morto.
Altro è dire vivente nel senso che nell'ultimo persiste quanto di vivo e vitale era da sempre in ciò che ci precede.

La prima accezione è quella moderna, storicistica. La seconda quella tradizionale, tomista.

L'enfasi sull'infallibilismo sempre e comunque (spesso travestito da formule quali inerranza e indefettibilità, di per sè giuste, ma di fatto usate per spostare il baricentro della dottrina sul polo soggettivo del magistero) per ogni sillaba dei documenti magisteriali è un chiaro esempio del vivente more moderno.

Opportuno riproporne la riflessione.

Un saluto a tutti, e buon inizio di Quaresima per i prossimi giorni.

Ambrosius ha detto...

Cara Mic,

Ho trovato un interessante testo dal titolo "Il Dibattito Sulla Verità TRA Blondel e Garrigou-Lagrange," ma io non so chi sia l'autore. Nonostante questo, il testo è molto interessante informazioni, vedere:

"Secondo Garrigou-Lagrange, mentre “res” indica da un lato stabilità, permanenza, solidità strutturale e da un altro lato oggettività, inseità, indipendenza dalla soggettività, il concetto blondeliano di vita è invece caratterizzato da instabilità, fluidità, perpetuo mutamento, da un lato, e da relatività alle esigenze del soggetto, dall’altro. In effetti, anche se il Professore dell’Angelicum non le citava, si trovavano nell’articolo del 1906 molte espressioni, che potrebbero avvalorare tale interpretazione, come le seguenti: “Né in noi, né fuori di noi, se non per una finzione indispensabile praticamente, ma filosoficamente illegittima non si giunge per via speculativa a degli oggetti fissi, distinti e irriducibili, a degli atomi di coscienza e di sostanza” (DP, p. 232). “Poiché vi è sempre del nuovo nel mondo, non è possibile cogliere l’essere in riposo, in una definizione pura mente statica. (...) La filosofia, fin dal suo inizio, tende al movimento incessante e non cerca fissità se non nell’orientazione del suo cammino” (DP, p. 233)". http://garrigou-lagrange.weebly.com/la-filosofia.html - terceiro texto

Vedere che interessante questa altra parte:

"Certamente esse non sono identiche[nuova definizione di Blondel di verità]; non sono, per così dire coestensive. Per un certo aspetto è più estensiva la definizione tradizionale, in quanto essa vale anche per il sapere scientifico, nel senso più lato del termine (Mentre sarebbe assurdo dire che un teorema geometrico è vero, perché esistenzialmente esperito, perché verificato nella vita!). La definizione blondeliana invece è adatta soltanto per un tipo di conoscenza sapienziale e personale (che non significa però sentimentale o approssimativa, e che è, per ognuno, la conoscenza più importante: “che giova all’uomo possedere il mondo, se poi perde o rovina se stesso?”); in questo senso essa si presta più a descrivere una traiettoria di crescita nella fede, che non il lavoro della teologia .

Adesso guardare quello che il Papa ha detto su la approvazione del Camino Neocatecumenale:

"Cari fratelli e sorelle, [...] poco fa vi è stato letto il decreto con cui vengono approvate le celebrazioni presenti nel "Direttorio catechetico del Cammino neocatecumenale", che non sono strettamente liturgiche, ma fanno parte dell’itinerario di crescita nella fede. È un altro elemento che vi mostra come la Chiesa vi accompagni con attenzione in un paziente discernimento, che comprende la vostra ricchezza, ma guarda anche alla comunione e all’armonia dell’intero "Corpus Ecclesiae". "... CELEBRAZIONE REGOLATA DAI LIBRI LITURGICI, CHE VANNO SEGUITI FEDELMENTE..." http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350149

Sarà 'una semplice coincidenza?

Ambrosius ha detto...

L'approvazione del Cammino Neocatecumenale, avvenuta a causa di un azione, non di essere (sono stati approvati celebrazioni che non sono strettamente liturgica...). Di fronte alla nuova concezione della verità, gli abusi liturgici e più assurde delle cose che vediamo, sono perfettamente normale (crescita nella fede), come si può vedere nella nota 9 di articolo di Padre Garrigou, in cui denuncia la Nuova Teologia:

"Maurice Blondel, lo vide, ha scritto in Annales de Philosopie chrétienne del 15 giugno 1906, pag. 235: "L'astratta e chimerica adaequatio rei et intellectus è sostituita dalla ricerca metodica di questo diritto, adaequatio mentis et vitae". Non senza grande responsabilità che è chiamato chimerica la definizione tradizionale di verità accettata dalla Chiesa per secoli, e che parla di sostituirlo con un altro, in tutti i campi, compreso quello della fede teologale. Sarà che le ultime opere di Blondel correggere questa deviazione? Abbiamo visto che non si può dire. Dice anche a L'Etre et les êtres, 1935, p. 415: "Nessuna prova intellettuale, neanche dei principi - absoluti di per sè e titolare di un necessario valore ontologico - è imposto su di noi con una certezza spontaneamente e infallibilmente obbligatoria". Ammettere il valore ontologico di questi principi necessita di una libera scelta. Prima di questa opzione, tale valore ontologico è quindi solo probabile. Ma dobbiamo ammettere alle esigenze di azione - secundum conformitatem mentis et vitae. E ci non può essere diverso, se sostituisce la filosofia dell'essere e dell'ontologia per la filosofia dell'azione. Così la verità non è più definito come una funzione di essere, ma di azione. Tutto è cambiato. Un errore sulla prima nozione di verità comporta un errore di tutto il resto. Vedi anche La pensée, Maurice Blondel, 19345, t. I, p. 39, 130-136, 347, 355, e t. II, p. 65 e segg. p., 96-196".

L'Autorità non può ritiene i nostri desideri come "chimerico ed astratto" ? Non è questo che fanno molti vescovi, con il rito di san Pio V? Sembra che noi non parliamo la stessa lingua, abbiamo due concetti diversi di verità.

Vale la pena di leggere e studiare i testi e le discussioni tra i membri della nuova teologia e degli scritti di P. Garrigou, Labouderte, Tonquédec, Philipe della Trinitè (che fa la confutazione di Teilhard de Chardin), ecc per capire quello che occore oggi nella chiesa.

Teilhard de Chardin è una storia a parte, perchè non è esattamente un membro della nuova teologia ( Henri de Lubac ha utilizzato qualcosa di lui nella sua "teologia"), ma è un pionero nel dialogo (Padre Trinitè ha scritto un interessante libro, con il titolo: Dialogue avec le marxisme? Ecclesiam suam et Vatican II). Inoltre, è interessante notare che Giovanni Paolo II ha affermato più volte che il Cristo incarnato, se ha unito ad ogni uomo, che sembra essere l'applicazione del pensiero di Teilhard, secondo "l'incarnazione del Verbo, ha santificato tutta la materia".

Sulla questione del magistero dialogante e il silenzio sul comunismo in seno al Concilio, il Padre Trinitè dimostra che il dialogo tra teilhardismo e comunismo, facilmente porta al secondo. Si può dire che Teilhard de Chardin è stato un pioniero del dialogo e anche fatto un'offerta per i comunisti, con la formula:

"La sintesi del Dio cristiano per l'alto, e del dio marxista per l'avanti, questo è l'unico Dio che d'ora in poi possiamo adorade in spirito e verità".

Proposta respinta dai comunisti...


Un Saluto dal Brasile

Anonimo ha detto...

Caro Gederson.
ti ringrazio infinitamente per le tue segnalazioni.
A giorni inserirò un articolo proprio sulla nuova "Chiesa dialogante", su cui sto approfondendo molto.

Dante Pastorelli ha detto...

Nel Magistero c'è un soggetto ed un oggetto. Se l'oggetto è erroneo di vivo c'è solo l'errore. Ed è chiaro che in tal caso il Magistero non è tale.

Dante Pastorelli ha detto...

Nel Magistero c'è un soggetto ed un oggetto. Se l'oggetto è erroneo di vivo c'è solo l'errore. Ed è chiaro che in tal caso il Magistero non è tale.

Marco Marchesini ha detto...

Ripropongo un mio intervento, che forse è sfuggito, ma penso che sia in tema all'argomento.

Sto leggendo ora il libro di mons. Gherardini "Concilio Ecumenico Vaticano II, un discorso da fare". Davvero ottimo e molto ben fatto. Un campitolo interessante e, almeno per me, più complesso è il V: La Tradizione nel Vaticano II.
Ho sempre pensato a torto che la Tradizione fosse la trasmissione integrale della Rivelazione divina in forma non scritta ispirata.

Il Gherardini afferma invece a pag. 122 che:

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Quanto alla Tradizione, sia come l'atto che trasmette la rivelazione, sia come il fatto di tale trasmissione, è sì, raccolta nella Scrittura stessa, nei Simboli della Fede, nella patristica e nella funzione magisteriale della Chiesa, ma il suo contenuto non necessariamente e non tutto vi è incluso e resta per questo motivo un certo margine o vuoto, che rende alquanto azzardata l'affermazione di DV9: "Trasmette integralmente la Parola di Dio".

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Alla domanda di pag. 119 "se nella Tradizione troverà tutta o soltanto una parte della verità rivelata", bisogna quindi rispondere con "una parte". L'altra parte si trova nella Sacra Scrittura.
D'altronde la Sacra Scrittura e la Tradizione sono due fonti distinte e complementari della Rivelazione.

Saluti.
Marco Marchesini

Eruanten ha detto...

Da quel che dice don Gleize mi sembra di poter dire:chi di relativismo ferisce...

Ockham's Razor ha detto...

"Il magistero è ridefinito, perché ha per obbiettivo quello di esprimere la continuità di un soggetto e non più quella di un oggetto".

Mic, non vorrei risultare semplicistico ma uno dei primi pensieri che mi sono scaturiti dalla lettura del tuo articolo è questo: non è un grande passo avanti essere passati dall'oggetto (come se la Verità fosse un insieme di nozioni o una cosa) al soggetto? L'importante è che il Soggetto di cui stiamo parlando sia Dio. La Rivelazione non è in fondo autorivelazione di Dio?

scrive Giampaolo:
"La prima accezione è quella moderna, storicistica. La seconda quella tradizionale, tomista".

Veramente credete che la soluzione sia tornare al tomismo come unico modello? Le categorie di Aristotele esprimono adeguatamente il "fatto" cristiano del Verbo che si fece carne, soffrì, morì e risuscitò? Può essere Dio sottoposto a categorie come "sostanza" e "causa"? Il concetto di causa rimanda al meccanicismo, non a una Persona (o meglio a tre Persone), ad un Soggetto.
Il termine "sostanza" non spersonalizza Dio?
Come tenere insieme infinito e finito, immutabilità e incarnazione, eternità e divenire, le nature divina e umana del Figlio, tenendo conto degli sviluppi teologici e filosofici degli ultimi secoli?
Con un ritorno al tomismo?
Non credo...Fino a che punto possiamo dire che Dio Padre è immutabile? Non è pur sempre una "vita" anche se unica nel suo genere? Sarà rimasto impassibile di fronte alla morte del Figlio, non avra anch'Egli sofferto?

Lo stesso Teilhard de Chardin sopra menzionato, parlava di una crescente personalizzazione dell'universo e di un processo di spiritualizzazione della materia...tesi senza dubbio destabilizzante ma neanche da scartare...

Anonimo ha detto...

Mic, non vorrei risultare semplicistico ma uno dei primi pensieri che mi sono scaturiti dalla lettura del tuo articolo è questo: non è un grande passo avanti essere passati dall'oggetto (come se la Verità fosse un insieme di nozioni o una cosa) al soggetto? L'importante è che il Soggetto di cui stiamo parlando sia Dio. La Rivelazione non è in fondo autorivelazione di Dio?

Chi ha mai detto che la Verità è un insieme di nozioni o una cosa? La Verità è una Persona Viva: il Signore Gesù.
In ogni caso il succo del mio discorso è che la Verità è Una, immutabile, già data, non si evolve insieme all'uomo. Ma va prima di tutto conosciuta (Ragione) poi accolta (Volontà) e amata (non solo sentimento, ma soprattutto connaturalità sempre ulteriore con l'Amore).

Il concilio, invece ha spostato il centro di gravità dalla Verità oggettiva Una e immutabile (Dio, che si è rivelato in Cristo Signore), in una verità da cercare alla pari con gli altri, quando invece è il nostro tesoro più grande ricevuto e custodito per Grazia nella Chiesa.

Inoltre il centro di gravità si è spostato dalla ragione e dalla volontà al sentimento, alla sensazione personalistica (emozionalismi, sensazionalismi di cui siamo sommersi): quella che Romano Amerio chiama "la dislocazione della divina Monotriade" con cui la libertà ruba il primato alla verità. A questo proposito ho scritto molto sulla conoscenza che precede l’azione e non viceversa, concludendo con la necessità del ripristino del munus dogmatico nella Chiesa...

Come fai ad amare ciò che non conosci? Puoi avere un amore sentimentale, ma non è Carità...

Non che l'emozione non abbia valore; ma ogni cosa con equilibrio ed al suo giusto posto...

Il soggetto di cui ho parlato io è l'uomo messo al posto di Dio. Dio è quell'Oggettività fondante che rende ogni uomo vero soggetto capace di governare se stesso e le cose di cui si occupa perché si lascia governare dal Re dei Re. Se non riesci a veder questo, non so come meglio spiegartelo.

Puoi sempre parlare di Dio come Soggetto e costruirci su tanti bei discorsi; ma le belle parole non portano da nessuna parte. Un conto è l'affabulazione, un conto è il discorso chiaro limpido definitorio che mostra la verità senza ambiguità.

Il soggetto ha la sua importanza, perché è il soggetto che percepisce conosce accoglie incarna e vive e scrive la storia con Dio. E la Rivelazione è sì autorivelazione di Dio, che non cessa ovviamente mai.
Ma lo Spirito di Cristo Risorto è stato INVIATO a Maria Vergine e agli Apostoli riuniti nel Cenacolo ed è QUELLO Spirito che ad ogni generazione ricorda "tutto ciò che vi ho detto" quaecunque dixero vobis, Rivelazione che si è chiusa con la morte dell'ultimo Apostolo e dalla quale ogni credente è nutrito e cresce nella conoscenza (in senso biblico) del Signore. Ma se ci si sgancia dalla Sorgente (le due fonti: Tradizione e Scrittura e vita sacramentale nella Chiesa) si è fuori dal "fiume vivo e perenne", quello che porta l'Acqua Viva e che scorre fino alla fine dei tempi.

Ci sono troppe pozzanghere rutilanti in giro di questi tempi!

Anonimo ha detto...

Il termine "sostanza" non spersonalizza Dio?

Prima di usare certi termini e trarne con superficialità delle conseguenze, bisognerebbe imparare bene cosa significano davvero.

Giampaolo ha detto...

Posso dirti questo, caro doctor singularis. Le categorie tommasiane, prima che quelle tomiste, sono molto più efficaci oggi di quanto lo siano quelle moderne, e se ne accorgono proprio gli scienziati, i cui concetti soffrono l'astenia delle filosofie kantiane che per lo li più plasmano, e chiedono, ma in molti casi anticipano, un vigore speculativo proprio di altri tempi.

Aver rottamato a suo tempo la causa finale, a tutto favore di quella efficiente, significò precludersi la comprensione di grossa parte della biologia, la quale oggi sta ripristinando a ritmi sempre più serrati la nozione di fine, si badi non di semplice funzione, e quella di forma, proprio nel senso di causa formale, così cara allo Stagirita. Potrei portare mille esempi di ciò, ma sarebbero evidentemente fuori calibro per quel che qui si sta dicendo.

Per inciso, poi, non è affatto vero che la nozione aristotelica di sostanza rimandi al meccanicismo, semmai quello è il risultato dell'impoverimento nominalistico (e qui Occam un bel mea culpa deve recitarlo ad alta voce) che ha subito in direzione della sola causa materiale...
Considera poi che la Transustanziazione è squisitamente tomista nel suo impianto concettuale e fa agio completamente sulla nozione di sostanza, solo questo dovrebbe invitarci quanto meno alla cautela quando si ipotizza di rottamare S. Tommaso e compagnia bella.

E' chiaro che Dio trascende qualsiasi filosofia, questo nessuno lo nega. Meno chiaro e vale la pena di esplicitarlo invece è che non ogni filosofia è compatibile con la Rivelazione cristiana, sicuramente non lo è quella moderna, sicuramente lo è quella tommasiana. Da qui non si scappa.

Il tomismo aveva trattato sapientemente i temi da te posti in modo problematico, l'ente era proprio all'incrocio tra causa essendi (immutabile) e causa fiendi (immutabile quoad se mutabile quoad aliud). Insomma, è una bufala propalata ad arte da chi non conosce e, peggio ancora, non vuol darsi la pena di conoscere, i tesori della filosofia perenne, quella secondo cui con queste categorie "vecchie" si sarebbe mal-attrezzati per fronteggiare le sfide teologiche e teoretiche contemporanee. E' vero l'esatto opposto.

La tradizione aveva approntato una filosofia formidabile che incontrava le verità perenni disponibili con il solo intelletto con quelle perenni e salvifiche della Rivelazione. Nessun altra filosofia ad oggi si è assunta un onere siffatto, da qui la totale assenza di concorrenti reali al tomismo, non a caso da sempre (fino all'altro ieri cioé) insegnato come approccio filosofico preferenziale per il cattolicesimo.

Cordialmente

Roberto ha detto...

"Fino a che punto possiamo dire che Dio Padre è immutabile? Non è pur sempre una "vita" anche se unica nel suo genere?"

Lasciando perdere il riferimento alla dimensione trinitaria, volevo far notare ad Ockham che, secondo la posizione tomista, non c'é incompatibilitá tra vita ed immutabilitá di Dio. Nel libro primo della Summa contra gentiles Tommaso evidenzia, da un lato il fatto che Dio sia immobile (cap. 13) e dall'altro il fatto che questa sua immobilitá non vada intesa come una forma di morta staticitá, ma, al contrario, come l'espressione piú perfetta e piú piena di vitalitá. Tommaso si sforza di mostrare infatti, non solo che Dio é vivente (cap.97), ma che Egli coincide con la sua vita (cap.98) e che questa sua vita é sempiterna (99).
La nozione stessa di "actus essendi", che costituisce il cuore della metafisica tommasiana, si fonda su questa duplice dimensione.

Volevo inoltre far notare ad Ockham che l'introduzione del divenire (inteso come incremento o decremento di essere) in seno all'Assoluto é uno scandalo per la Ragione che dobbiamo evitare con tutte le nostre forze (anche in un ambito puramente teologico) perché (di nuovo secondo lo spirito tomista) se é vero che le veritá di fede sono soprarazionali, ció non significa che esse siano contro ragione.


Roberto

Dante Pastorelli ha detto...

Veramente il soggetto di cui si parla qui non è Dio, ma l'Autorità magisteriale (Papa e concilio col Papa). Dio, come Verità immutabile è presente nell'oggetto (Rivelazione-Tradizione) ed è presente nell'Autorità soggetto che l'oggetto deve proporre. Ma se l'oggetto si allontana dalla sua fonte non esiste Magistero che possa renderlo verità. Così come l'Autorità che resiste alla voce dello Spirito Santo può non insegnare il vero oggetto.
Quanto al Dio che muta, al Dio che soffre, forse a Razor farebbe bene andare a ripassarsi quanto meno i concetti di soprannaturale (assoluto e relativo) e preternaturale; di grazia; di doni preternaturali della creatura in stato d'innocenza (integrità della natura umana, immortalità e assenza di malattie e dolori, scienza infusa e immune da concupiscenza.
Se la creatura in istato d'innocenza (Adamo, Eva) non sono soggetti a dolore e malattia, può esserlo Dio?

Ambrosius ha detto...

Cara Mic,

E' un piacere contribuire :)

Sulla questione della rivelazione, come Popolo di Dio in cammino, mi ricorda la tesi di dottorato di allora Padre Ratzinger (ora Benedetto XVI) sulla teologia della storia in teologia di S. Bonaventura e Gioacchino da Fiore, vedere la somiglianza nella prefazione fatta da Ratzinger stesso, nella prefazione alla sua seconda edizione:

"Per quanto riguarda il contenuto, ho dovuto affrontare la seconda importante questione di cui si occupa la teologia fondamentale, ovvero il tema della Rivelazione. A quel tempo, in particolare a motivo della celebre opera di Oscar Cullmann "Christus und die Zeit [Cristo e il tempo]" (Zürich, 1946), il tema della storia della salvezza, specialmente il suo rapporto con la metafisica, era diventato il punto focale dell'interesse teologico. Se la Rivelazione nella teologia neoscolastica era stata intesa essenzialmente come trasmissione divina di misteri, che restano inaccessibili all'intelletto umano, oggi la Rivelazione viene considerata una manifestazione di sé da parte di Dio in un'azione storica e la storia della salvezza viene vista come elemento centrale della Rivelazione. Mio compito era quello di cercare di scoprire come Bonaventura avesse inteso la Rivelazione e se per lui esistesse qualcosa di simile a un'idea di "storia della salvezza".

È stato un compito difficile. La teologia medievale non possiede alcun trattato "de Revelatione", sulla Rivelazione, come invece accade nella teologia moderna. Inoltre, dimostrai subito che la teologia medievale non conosce neanche un termine per esprimere da un punto di vista contenutistico il nostro moderno concetto di Rivelazione. La parola "revelatio", che è comune alla neoscolastica e alla teologia medievale, non significa, come si è andato evidenziando, la stessa cosa nella teologia medievale e in quella moderna. Per questo ho dovuto cercare le risposte alla mia impostazione del problema in altre forme linguistiche e di pensiero e addirittura modificarla rispetto a quando mi ero avvicinato all'opera di Bonaventura. Innanzitutto bisognava condurre difficili ricerche sul suo linguaggio. Ho dovuto accantonare i nostri concetti per capire cosa Bonaventura intendesse per Rivelazione. In ogni caso si è dimostrato che il contenuto concettuale di Rivelazione si adattava a un gran numero di concetti: "revelatio", "manifestatio", "doctrina", "fides", e così via. Soltanto una visione d'insieme di questi concetti e delle loro asserzioni fa comprendere l'idea di Rivelazione in Bonaventura". Prefazione al secondo volume dei miei scritti di Joseph Ratzinger - http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1340075


Un Saluto dal Brasile

Dante Pastorelli ha detto...

Sul sito Inter Multiplices Una Vox c'è un bell'articolo di Servodio: Esercizio di esegesi della Tradizione: da Giovanni Paolo II a Mons. Bernard Fellay.

Ockham's Razor ha detto...

"Prima di usare certi termini e trarne con superficialità delle conseguenze, bisognerebbe imparare bene cosa significano davvero.

Mic, Giampaolo, Roberto e Dante, vi ringrazio per le vostre risposte che mi aiutano molto nella mia ricerca personale e colmano anche diverse mie lacune. Io più che altro ho posto domande che esprimono dei dubbi, non volevo proclamare nuove verità o rottamare alcunchè anche se forse non ho usato il tono adatto.
Non ho problemi a mettermi in discussione, non pretendo di avere le categorie giuste per una Verità che in sé è ineffabile...più che definirla e razionalizzarla ho sempre creduto che prima di tutto questa Verità occorre incontrarLa ed amarLa . Cioè non penso proprio che Dio sia interessato ad essere definito e sottoposto a categorie (ma anche questa prendetela come una mia opinione, neanche ci provo più con voi a criticare l'Aquinate, per carità;)resta il fatto che preferisco Platone ad Aristotele)

Mi chiedevi Mic: "Come fai ad amare ciò che non conosci?"

Sempre nei limiti della mia limitata conoscenza mi ricordo che Agostino affermava "Credo ut intelligam" e Pascal parlava di ragioni del cuore che la ragione non conosce, Max Scheler affermava qualcosa che suonerebbe come "Amo per conoscere" e tanti altri autori, (tipo lo Schelling della maturità)hanno affermato qualcosa del genere senza cadere nel sentimentalismo ma parlando dell'amore fondamentalmente come volontà. E' proprio vero che venga prima la conoscenza rispetto all'amore? Cosa ci spinge a conoscere qualcosa, qua'è quel moto interno che ci fa intraprendere il viaggio della conoscenza, una semplice curiosità? Mi sembra poco...non è pur sempre l'amore? Scusate la superficialità degli inteventi, devo ancora studiare e approfondire molto, neanche volevo farvi perdere tempo per dare ripetizioni...però visto che lo avete fatto vi ringrazio.

Dante Pastorelli ha detto...

Il problema non è Aquinate sì Aquinate no. E' in questione la concezione di un Dio mutevole e passibile, quando, essendo assoluta perfezione e assoluto bene non può evolversi per diventare più amabile o perfetto, né esser soggetto a sofferenza perché inattaccabile dal male.
Se dovesse evolversi con la storia o soffrire sia pur per amore sarebbe una creatura non l'Essere perfetto, non più la perfetta essenza ma la cangiante contingenza.
Quanto a Pascal bisogna ricordare che egli opponeva non il fideismo ma la fede in quanto disponibilità al mistero e all'accettazione della sua rivelazione storica, al razionalismo di derivazione cartesiana che vagheggiava il Dio della ragione, dei filosofi, chiuso all'essere. Mentre il Dio della vera ragione, quella aperta all'essere è lo stesso Dio della fede che fa aderire al suo mistero.
L'adesione per fede non esclude la conoscenza razionale entro i suoi limiti, tanto che il tridentino condanna la tesi che Dio non si può conoscere con la ragione.
Ma, messo su questo piano, il discorso si fa per me molto complicato e chiudo qui.
Quanto alla conoscenza noi amiamo Cristo perché lo conosciamo attraverso la Rivelazione e la Scrittura: il Dio fatto uomo che incontriamo non come qualcosa di astratto ma una Persona, un evento che ci ha cambiato la vita dandoci la Vita, riscattandoci con la sofferenza del corpo umano e aprendoci il Paradiso con la sua resurrezione.

Ockham's Razor ha detto...

"Il problema non è Aquinate sì Aquinate no. E' in questione la concezione di un Dio mutevole e passibile, quando, essendo assoluta perfezione e assoluto bene non può evolversi per diventare più amabile o perfetto"

Sig. Dante
Ammette comunque che è un problema quello di cui stiamo parlando.
Per noi poveri mortali è difficile pensare ad una Persona (divina ma pur sempre persona) immutabile, c'è qualcosa che stona...Persona e immutabilità. Un amore che non con-patisce il dolore altrui...Mi rendo conto che affermare un Dio mutabile porta tutta una serie di aporie che lei ha ben descritto, comunque rimane sempre quel qualcosa che non torna, sarà solo la mia sensibilità...Credo anch'io che Dio possa essere conosciuto dalla ragione, ma la ragione umana può conoscere solo il Dio "per noi" non Dio "in sé" o sbaglio?

L'introduzione del divenire in seno all'Assoluto sarà pure uno scandalo della ragione, ma non era uno scandalo per i giudei e una stoltezza per i razionali pagani anche un Dio che muore in croce?

Le mie sono solamente incertezze su qualcosa di troppo grande, perlomeno la mia ragione non mi aiuta granchè giunto a questo punto...quindi anch'io non posso far altro che fermarmi, il discorso è diventato apofatico...in questi casi è più di aiuto la mistica...questa salita del Monte Carmelo è sempre più dura...Buona Quaresima a tutti!

Marco Marchesini ha detto...

caro Dante, una domanda.
Nel mio messaggio precedente ho citato un brano di mons. Gherardini sulla Tradizione. Più rileggo tale brano e più ho problemi a comprenderlo.
Nella Tradizione non si trova tutta la Verità rivelata?
Inoltre che significa "un certo margine o vuoto", la parola "il suo contenuto" a cosa si riferisce?

Un saluto a tutti.
Marco Marchesini

Dante Pastorelli ha detto...

Il divenire nell'Assoluto non può darsi: non sarebbe l'Assoluto (ab-solutus) ma ne condizionerebbe la stessa essenza.
La conoscenza razionale di Dio è possibile nei limiti propri dell'uomo.
La conoscenza limitata ad un Dio per sé stessi è di natura non razionale ma sentimentale, in somma ognuno si crea il Dio a lui più confacente..
Il concetto di "persona" non è facilmente esauribile. I teologi me han parlato in modo assai diverso, ma occorrerebbe un autentico teologo a presentare i ptro e i contro le tesi che so, di Boezio, di Scoto, di Capreole, di S. Tommaso, del Gaetano, del Suarez ecc.
La questione "persona" è stata impostata nella meditazione sui misteri dell'Unità e Trinità di Cristo e dell'Incarnazione.
Boezio la definisce "Sostanza individua di una natura razionale". S. Tommaso: "Distinto sussistente in natura intellettuale". Poi cominciano le discussioni sul concetto di sussistenza.
La tesi più presente nel Magistero è che la sussistenza è l'essere proprio della sostanza. I teologi fan l'esempio dell'Incarnazione: la natura umana di Cristo non è "persona" perché non ha il proprio essere ma sussiste "in forza dell'essere divino del Verbo", vale a dire e quindi "partecipa della sua divina personalità" (Piolanti). Insomma Cristo è unica persona del Verbo sussistente nelle due nature.
Le domande ce le poniamo tutti: qui ci si confronta un po' e nessuno può esser maestro dell'altro, soprattutto in argomenti così specifici che richiedono una preparazione che molti di noi, o almeno io, non hanno.
Quindi bisogna accontentarsi di scambiarci fraternamente opinioni e fede.
Ciao

Dante Pastorelli ha detto...

Caro Marco, nel secondo brano che hai trascritto, don Brunero chiarisce. Le due fonti della Rivelazione sono la Scrittura e la Tradizione.
A me sembra che il sigbnificato sia che le due fonti si integrano pur rimanendo distinte.
La Tradizione, in genere orale, trasmette quanto appreso dagli Apostoli da Cristo stesso e dai loro discepoli dagli Apostoli.
La Scrittura non contiene tutta la Tradizione perché vi è escluso quanto trasmesso solo oralmente. Inoltre nella Tradizione mancano quelle Verità contenute nella Scrittura in modo implicito e che la Chiesa ha esplicitato attraverso i dogmi e che si trasmettono poi col Magistero.

Giampaolo ha detto...

Caro Ockham,

anch'io lascio il terreno del Tommaso sì Tommaso no (chiaramente sposando la tesi del S. Tommaso sì!).
Solo vorrei suggerirti di non avallare, almeno non in modo acritico, la vulgata moderna che vorrebbe l'Aquinate in contrapposizione con S. Agostino, così come Platone Versus Aristotele. Questa lettura dualistica e schematica è impropria e forviante.

Ne trovo traccia, per farti solo un esempio, nella tua opzione per Platone come se questi fosse lontano dal pensiero di S. Tommaso.
Pensa solo a questo, per smentire quell'assunto, e cioè che l'idea di verità come ad-aequatio, ovvero il monstrum tomistico che ogni convinto esistenzialista attacca, deriva proprio dall'idea platonica di orthotheia, così come mille altri e decisivi concetti di Tommaso sono di conio platonico, contro la vulgata che vorrebbe Tommaso solo aristotelico e Agostiono solo platonico.

C'è una via apofatica anche nella teologia tomista che parte dalla concezione di analogia, che è sì un concetto aristotelico, ma che invera un prisma di idee platoniche fondamentali.

Attento insomma a non scolorire nella figura dell'incontro la verità dal suo valore Dogmatico, nel senso di ostensivo. La verità, se è, è per tutti. Poi parlerà a ciascuno con accenti particolari, ma Essa resta Tale sempre, ed esercitarsi a coglierNe i bagliori eterni, che altro non è la teologia, non è esercizio di vuoto intellettualismo, ma la vocazione più nobile dell'intelletto umano che per quello è stato creato, non altro. La contemplazione richiede la conoscenza del contemplato, l'amore precede l'intelletto nel moto verso Dio, così come Giovanni precedette Pietro alla soglia del sepolcro, ma poi occorre che l'intelletto faccia luce, perché s'inneschi il moto amoroso tra creatura e Creatore.

Auguri e buon prosieguo di Quaresima.

Marco Marchesini ha detto...

"ma il suo [=della Tradizione ] contenuto non necessariamente e non tutto vi [=nella Scrittura stessa, nei Simboli della Fede, nella patristica e nella funzione magisteriale della Chiesa] è incluso."

Oppure:

ma il suo [=della Parola di Dio ] contenuto non necessariamente e non tutto vi [=nella Tradizione] è incluso.


Nel primo caso la Tradizione ha un contenuto che va oltre la Sacra Scrittura, i Simboli della Fede, la patristica ed il Magistero. Presi questi elementi separatamente è vero. Infatti ad esempio la Tradizione è più ampia della Sacra Scrittura, è più ampia della patristica, è più ampia dei Simboli della Fede ed è anche più ampia delle definizioni del Magistero. Però se invece li prendo tutti nell'insieme, il vuoto/margine da chi è colmato?

Nel secondo caso giustamente si rimarca come le fonti complementari della Rivelazione (Parola di Dio) sono due: la Tradizione orale e la Sacra Scrittura.
Il margine o vuoto è coperto quindi dalla Sacra Scrittura. Forse è il secondo il significato del testo.

Auguri anche da parte mia per la Quaresima.

Marco Marchesini