Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

venerdì 17 marzo 2017

Sull’essere e la sostanza - Paolo Pasqualucci

Questo testo di Paolo Pasqualucci (fonte) ci è d'aiuto per comprendere esattamente cosa intendere per sostanza, visto che nel linguaggio comune è invalso l'uso dei termini "sostanza" e "sostanziale" come sinonimi di "essenza" ed "essenziale", il cui significato filosofico è, invece, diverso.
In effetti «alla sostanza, che è la realtà individuale nella sua autonoma esistenza e sussistenza, l'essenza si contrappone come la forma generale», «l'universale natura delle singole cose appartenenti allo stesso genere o specie.
La necessità di recuperare i concetti-chiave della metafisica si impone per non acquisire comprensioni distorte o pressappochiste di elementi fondanti della nostra fede. Pensiamo ad esempio al termine transustanziazione, così adeguato a designare la "conversione mirabile e singolare" del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo introdotto dal Concilio Tridentino e che oggi troppi chierici e pastori anche di alto rango considerano attinto al linguaggio di una filosofia superata e quindi da ritenersi inattuale. Ne vediamo le nefaste conseguenze proprio nella Liturgia, fons et culmen della fede e della vita cristiana, e ci riappropriamo della definizione ma soprattutto della comprensione corretta di ciò che è, che accade e dispiega i suoi effetti mirabili per noi che confessiamo che, in virtù della potenza di Cristo e dell'opera dello Spirito Santo, l'identità del pane e del vino viene realmente mutata nell'identità del Corpo Sangue Anima e Divinità del Signore. (M.G.)

Sull’ e s s e r e  e la  s o s t a n z a 

1.  L’essere  in  quanto  essere

a. Il concetto dell’essere è oggi poco di moda.  Si concepisce la realtà all’insegna del divenire e del relativo:  tutto è relativo poiché tutto diviene, incessantemente. Così si crede. Ma si dimentica che il divenire presuppone l’essere, poiché, come scrisse Aristotele nella Metafisica, “il mutamento è da qualcosa a qualcosa” (Γ 1012 b), da punti di partenza a punti d’arrivo, come tali sottratti al movimento; non è un aggrovigliarsi caotico senza punti di riferimento, come tali indipendenti dal moto. Nell’imperversante caos speculativo e non, una riflessione sul concetto dell’essere sembra quanto mai opportuna. Essa può iniziarsi in diversi modi.  Ho scelto una nota frase di Aristotele, come riportata dal prof. Enrico Berti, illustre studioso dello Stagirita: 
l’ente si dice in molti sensi ma è chiaro che di questi il primo è il che cos’è, il quale significa la sostanza”.
Ho tratto la frase da una traduzione premessa dal prof. Berti ad un suo piccolo e recente volumetto intitolato: Aristotele sull’essere, a cura di Enrico Berti, Albo Versorio Edizioni, Milano, 2013, pp. 38.
Il volumetto è diviso in due parti. Nella prima, si riportano tre passi della Metafisica aristotelica, tradotti dallo stesso Berti.  Per uno di essi si danno anche traduzioni in altre lingue. Nella seconda parte, un breve articolo di Berti su Aristotele, intitolato: Ontologia in Aristotele? Il prof. Berti nega che in Aristotele vi sia stato un vero interesse per l’ontologia ossia per “l’essere in quanto essere”. Sarebbe invece prevalso in lui l’interesse per il concetto della sostanza. L’innovativa ed originale interpretazione del prof. Berti richiede un’analisi a parte.    

L’intero passo, dal quale ho tratto, semplificando leggermente, la citazione di cui sopra è il seguente, nella traduzione di Berti:
L’ente si dice in molti sensi, come abbiamo distinto in precedenza nel trattato su quanti sensi; esso significa infatti da un lato il ‘che cos’è’ e l’’un questo’, dall’altro il quale o il quanto o ciascuna delle altre cose che sono così predicate. Ma, dicendosi l’ente in altrettanti sensi, è chiaro che di questi il primo è il che cos’è, il quale significa la sostanza” (op. cit., p. 11). Il testo originale è: Metaph. Z 1, 1028 a  10-15.
b.  Ciò che colpisce qui è l’emergere immediato della domanda sulla sostanza (ousia) non appena posta quella sull’essere (to on), che altri traduce con “l’essente” (das Seiende), trattandosi di un participio presente del verbo essere (einai). Come riassunse il Ross, famoso studioso dello Stagirita: “The eternal question ‘what is being?’ really means ‘what is subtance’?” (op. cit., p. 13).
Dunque, la domanda sulla natura dell’essere trapassa inevitabilmente in quella sulla sostanza: dall’essere che è tale perché è, al che cos’è (to ti esti) e all’un questo (tode ti), al reale concreto qui ed ora, con le sue specifiche determinazioni.  Uno può chiedersi:  ponendo la domanda sul “che cos’è ciò che è” non siamo già al di là dell’essere?  Nel senso, voglio dire, che siamo già passati dalla domanda sull’è a quella sulla natura di ciò che è. Uso il termine natura, che mi sembra render bene il concetto. Natura come sinonimo di sostanza, substantia, parola latina che traduce ousia. Come sappiamo, ousia viene sempre dal verbo greco  eimi, io sono, einai all’infinito: deriva dal participio presente essente, declinato in greco al maschile (ōn), femminile (ousa), neutro (on).  Nel Gemoll, alla voce ousía troviamo: “1. L’essere. a. esistenza, pl. giorni di vita [ousiai]. b. Essenza, realtà. 2. Sostanze, proprietà, possesso”.

c. Secondo Aristotele, dunque, il primo significato, quello più importante, che si ritrova nel concetto dell’essere è quello della sostanza.
Ma l’essere non è in primo luogo ciò che è? Quando si pensa all’essere, non ci si riferisce forse sic et simpliciter a ciò che è?    
Quando l’essere si contrappone al non-essere, non vi si contrappone forse come ciò che esiste a ciò che non esiste, al nulla?  Quando diciamo che qualcosa è, non ci limitiamo a constatare che esiste? Se è falso che non sia, è; allora esiste, e quindi è. Stabilito che è, si potrà poi cominciare a determinarne l’essenza o sostanza, la sua vera natura. La sostanza appare come l’essenza della realtà (della c o s a concreta) che è l’essere: l’essenza o la sua intima natura. Anche essenza, dal latino essentia, è un modo di tradurre ousia e viene in effetti usato anche oggi quale sinonimo di sostanza: “la sostanza o l’essenza della cosa non è questa”, “andiamo alla sostanza o all’essenza del problema”. Il termine latino compare già con Seneca, proprio come traduzione dell’originale greco, nell’Epistola 58, 6.  Lo si ritrova poi in Quintiliano, 2, 14, 2 e in altri autori latini (Georges-Calonghi).

Sul perché di questa traduzione con essentia, Seneca così si esprimeva: “[…] Altrimenti, cosa succederà, Lucilio mio? Come si renderà la parola ousía, la realtà necessaria, la sostanza che ha in sé il fondamento di tutte le cose? Ti prego pertanto permettimi di utilizzare questa parola…”[1]. Nella medesima lettera, Seneca traduceva to on, l’essere, con “quod est”, ciò che è[2].  
Prima di affrontare il concetto della sostanza, bisogna tuttavia esaminare in tutta la sua portata il concetto dell’essere in quanto essere, ossia valutare con tutta l’attenzione che merita il fatto indubitabile che l’essere in primo luogo è, senza ulteriore determinazione. Che cosa si ricava da questa imprescindibile constatazione?  Innanzitutto che l’essere si determina per noi in due modi.

d. C’è l’essere dell’ente determinato, che si trova  n e l l a  realtà come entità nello spazio e nel tempo, dizione nella quale si racchiude il concetto di una qualsiasi realtà finita, parte del tutto della realtà.
C’è l’essere della realtà stessa, che potremmo chiamare l’essere dell’essere, se l’essere è il Tutto della realtà del mondo, del cosmo, di tutto l’esistente, includente anche noi.
Abbiamo quindi l’essere dell’ente, determinato e finito, e l’essere della realtà intesa come il Tutto che da ogni lato ci ricomprende, nello spazio e nel tempo, del quale non vediamo né inizio né fine, apparendoci quindi indeterminato.  Entrambi dovrebbero comprendersi nel medesimo concetto dell’essere. Ma in quale concetto dell’essere possono esser ricompresi la parte (l’ente determinato) e il tutto indeterminato del quale la parte è parte? 
Si dovrebbe trattare del concetto dell’essere di ciò che è, dell’è, appunto senza ulteriori determinazioni. Tuttavia le determinazioni si impongono immediatamente. Infatti, l’essere dell’ente determinato è finito e lo possiamo constatare con i sensi, articolando i nostri giudizi in base alle categorie del prima e del dopo, del grande e del piccolo, del pieno e del vuoto, del moto e della quiete. L’ente o la cosa che io sono è finito, come lo è il globo terrestre, o una qualsiasi stella, una cellula, e così via.  L’essere del Tutto che ricomprende tutti gli enti che sono, è al contrario infinito.  Siamo pur costretti ad ammetterlo, dal momento che non non riusciamo a stabilire alcun limite al tutto cosmico, né nello spazio né nel tempo. Ciò che è determinato lo è da un terminus, che lo rinchiude entro confini (linee, volumi, superfici) che lo rendono finito, separandolo dall’altro da sé. L’indeterminato, al contrario, è senza termini, ovvero senza confini e ciò rimanda all’idea dell’infinito.
Abbiamo, quindi, che l’essere ci appare simultaneamente finito ed infinito. Ossia: ciò che semplicemente è, l’essere in quanto semplice essere dell’ente, senza che si sappia ancora che cosa sia quanto alla sua natura intrinseca e specifica, ci appare tuttavia qualificato nel senso del finito o dell’infinito, già in quanto semplice essere.
Questo duplice apparire dell’essere per noi scaturisce dalla constatazione della presenza o assenza di un limite in relazione all’essere concreto che ci si presenta innanzi. L’ente individuato come parte di un tutto e del Tutto ci si configura con dei limiti ben precisi, che sono quelli costituenti la sua forma esteriore specifica di ente che è quello che è e non è altro.  Invece, l’ente costituito dal Tutto stesso dell’universo, ci si configura come quella realtà spazio-temporale che è, che esiste pur in assenza di ogni limite al suo esser od esistere che dir si voglia.

e. Ora, nell’esser finito dell’ente e nell’esser infinito della realtà cosmica che lo ricomprende, non abbiamo già una loro qualità (finito e infinito) che possiamo considerare come appartenente alla  s o s t a n z a  di questi due enti?  Per meglio dire: abbiamo stabilito l’esistenza dell’ente finito (l’ente in senso determinato o la cosa, parte del Tutto) e di quello infinito (l’ente che è il Tutto spazio-temporale). Nel far ciò, non abbiamo enucleato una  q u a l i t à  essenziale di questi due enti, che sicuramente, dobbiamo dire, appartiene alla loro sostanza, nel senso delineato da Aristotele, quello del loro “che cos’è”? Infatti, dire di una determinata realtà che è finita o infinita non significa limitarsi a riconoscerla in quanto è, e quindi nella sua semplice esistenza; significa cominciare a chiarirne la  n a t u r a,  spiegando che cosa essa è. E la natura della cosa, dell’ente, quale che sia, è ciò per cui esso è ciò che è, ossia la sua sostanza, che lo distingue da tutto il resto.
Diceva dunque bene Aristotele, quando affermava che la domanda sull’essere implicava quella sulla sostanza, come la più importante, poiché definisce la natura o l’esser-in-sé della cosa. 

f. Da quanto detto finora, sorgono alcune questioni.
In primo luogo, se il concetto dell’essere non sia un concetto limitato, quanto alla sua capacità di ricomprendere il tutto della realtà in un  u n i c o   concetto. Difatti, abbiamo visto che la definizione dell’ente in quanto ente che è, che esiste, conduce a stabilire l’esistenza dell’ente finito e di quello infinito. E come è possibile racchiudere entrambi in un unico concetto?  L’unico concetto sarebbe qui quello dell’essere, che dovrebbe allora ricomprendere due realtà opposte quali il finito e l’infinito.  Ma questo non si può ammettere.
Oppure, seconda obiezione:  si può ammettere, ma allora bisogna conferire al concetto dell’essere un significato solo  d e s c r i t t i v o .  Esso si limiterebbe a ricomprendere l’essere di ciò che è, di tutto ciò che è, di tutto ciò che esiste, e lì si fermerebbe, senza poter andar oltre. In effetti, lo stesso Aristotele sembra dire che l’essere si qualifica innanzitutto con lo svelarci la sostanza di ciò che è, più che come semplice “essere in quanto essere”.

g. Circa la prima obiezione, possiamo rispondere in questo modo:  gli opposti, come l’ente finito e quello infinito, si contraddicono quanto al loro significato ma non si escludono a vicenda, nel senso che non si cacciano reciprocamente dalla realtà: ci sono e ci restano bellamente, dal momento che essi s o n o .  Godono entrambi della qualità dell’essere: il finito e l’infinito sono realtà che beneficiano della stessa qualità, quella di essere e quindi partecipano dell’essere. L’essere ricomprende allora l’ente finito che è nello spazio e lo spazio stesso in quanto ente infinito, insondabile ed indeterminato vuoto cosmico. Li ricomprende senza contraddirsi poiché sia l’ente nello spazio che lo spazio  s o n o  entrambi, cioè esistono simultaneamente. Bisogna pertanto inchinarsi alla forza dell’essere, alla forza di ciò che è, del positivo rappresentato dall’essere nella sua effettualità.
Annotava Pascal: “- Incompréhensible. Tout ce qui est incompréhensible ne laisse pas d’être.  Le nombre infini. Un espace infini, égal au fini”[3].
E aggiungo: la materia e il pensiero s o n o  contemporaneamente, dal momento che pensiamo restando sempre nel nostro corpo, e occupano il medesimo spazio. Non posso dire, infatti, che occupino  d u e spazi diversi. L’immateriale ed anzi lo spirituale che è il nostro pensare è  n e l l o spazio o fuori di esso? Se è nello spazio, allora il pensiero viola l’impenetrabilità dei corpi e lo spazio contiene nello stesso luogo realtà tra loro incommensurabili, quali la materia e lo spirito (il nostro pensiero). Ad esser incommensurabili non sono solo il finito e l’infinito. Nello stesso luogo noi possiamo avere: la materia, p.e. il nostro corpo; l’immateriale, nell’energia che l’attraversa e lo pervade; lo spirituale, come il nostro pensiero, che possiamo certamente ricondurre all’anima, la quale viene sentita come un’ulteriore “dimensione” puramente spirituale (ulteriore, rispetto al pensiero).
Ma torniamo al nostro tema.

h. L’ente, ciò che è come è, essente e sussistente in sé e per sé, sia esso parte del Tutto o il Tutto stesso, già qualifica a pieno titolo l’essere come essere, prima ancora che ne sia emersa la sostanza ovvero l’intrinseca ed individuale natura, con le sue caratteristiche o qualità (accidenti, secondo l’antica terminologia, di origine scolastica).
Alla forza del negativo, invocata dal pensiero moderno, che procede ricercando sempre l’opposizione, la discordanza, la contraddizione; convinto che l’armonia del tutto o comunque il risultato del divenire che è la realtà dipenda dall’operare della negazione, la negazione come molla del divenire – a questa concezione bisogna opporre la forza del positivo, costituito dalla presenza dell’ente che è invece di non essere. Rivendicare la forza di questa presenza, prima ancora di comprenderne la sostanza o natura intrinseca, che lo fa essere ciò che è e non altro.  L’essere come esser qui , Da-sein o esserci, semplice esistenza di tutto ciò che è.
Questa nozione dell’essere appare ancora preliminare, non svelando essa la sostanza, il “che cos’è”. Non per questo è da scartare.  Su di essa poggia la contrapposizione fondamentale di essere e non essere.
“È necessario il dire e il pensare che l’essere sia:  infatti l’essere è, il nulla non è [esti gar einai, mēden d’ouk estin]”.[4]
Integriamo, allora, senza contraddirla, la sentenza di Aristotele:  la domanda sull’essere trova una risposta ancor prima di giungere a determinare la sostanza di ciò che è. Questa risposta, comunque, non esaurisce la domanda poiché non ci dice ancora nulla sulla natura dell’essere. Tuttavia, essa dimostra che è possibile determinare l’essere dell’essere senza giungere a svelarne la sostanza. A poter dire dell’essere, con assoluta certezza, che esso innanzitutto è.
Bisogna dunque ribadire l’importanza della contrapposizione tra l’essere e il non essere poiché su di essa si fonda il principio di contraddizione, fondamentale per il buon uso della recta ratio. Tale principio si ricava dallo “essere in quanto essere”. E ciò risulta dallo stesso Aristotele, che discute di questo principio nel libro Gamma della Metafisica. In che senso si ricava dall’essere in quanto essere, dato che esso è un principio del ragionamento, sembrando così appartenere al pensiero e non all’essere; al modo di procedere del nostro pensare, non all’essere che esiste esternamente al pensiero? Ma anche il pensiero è, e quindi appartiene anch’esso all’essere. Inoltre, il principio di non contraddizione, in quanto categoria generale del nostro discorrere e ragionare, viene posto proprio in relazione all’essere in quanto essere, non al concetto della sostanza. Ciò che è si distingue per ciò stesso dal nulla o non-essere, per il puro fatto di essere, del suo esser-qui, hic et nunc, non perché sia questo o quello, finito o infinito, bello o brutto, e così via:  si distingue dal non-essere per la sua semplice presenza non per la sua natura, quale che sia.
“Questo è di tutti i princìpi il più saldo:  esso, infatti, ha i caratteri che dianzi determinammo, poiché è impossibile che uno stesso pensi la stessa cosa essere e non essere [adynaton gar hontinoun tauton hypolambanein einai kai mē einai], secondo che alcuni credono dicesse Eraclito. Vero è che non è necessario che tutto quello che uno dice, lo pensi anche.  Ma non potendo i contrari trovarsi insieme nella stessa cosa […], e dacché un’opinione è contraria all’opinione contraddittoria, è chiaro non esser possibile che lo stesso uomo pensi che la stessa cosa sia e insieme non sia:  chi fosse in quest’errore avrebbe ad un tempo [hama] le opinioni contrarie” [5].
Siamo quindi giunti ad una conclusione importante, dovremmo dire, e cioè che il fondamentale principio di non contraddizione  si costruisce già a partire dalla definizione dell’essere in quanto essere, dal momento che tale definizione non può non affermare che l’essere è e il non essere non è; si intende, l’essere del quale non sappiamo ancora “che cos’è”, quanto alla sua natura o essenza.  

2.  L’essere e il principio di non contraddizione.
     Critica del concetto hegeliano dell’essere.

Continuo qui il discorso sull’essere e la sostanza. Si sta analizzando il rapporto tra l’essere in quanto essere e il principio di non contraddizione, principio che a un certo momento è apparso inevitabilmente sulla scena, scaturito per intima necessità dalla constatazione che l’essere è e il non-essere non è. Critica della concezione hegeliana, secondo la quale “l’essere in quanto essere” o “puro essere” è concetto astratto, la cui indeterminatezza equiparerebbe l’essere al nulla:  in tal modo Hegel ha cercato di invalidare il principio di non contraddizione.
 --------------------------------------------------------------------------------------

Nel paragrafo precedente (§ 1) abbiamo concluso riflettendo sul fatto che il principio di non contraddizione si costruisce già a partire dalla definizione dell’essere in quanto tale, non ancora indagato nella sua sostanza, nell’essenza o natura sua, di ente determinato.
In effetti il citato, famosissimo dictum di Parmenide: “l’essere è, il nulla non è”, non contiene forse una patente anche se implicita dimostrazione del principio di non contraddizione?  Se l’essere è per definizione ciò che è, ne consegue che “il nulla” non è. La contrapposizione è frontale, inconciliabile. L’essere e il suo contrario, il nulla, che si può rappresentare anche come non-essere, non possono essere ossia esistere simultaneamente. Sostenerlo, significherebbe voler imporre un’aperta contraddizione in termini. Si deve pertanto affermare che di nessuna realtà, quale che sia, si può pensare e dire che è e non è nello stesso tempo. O è o non è. Tertium non datur.
E che sia così, bisogna dirlo dell’essere in quanto essere, dell’essere in quanto tale, senza ogni ulteriore determinazione
La frase in corsivo era tipica di H e g e l, ostilissimo all’idea dell’essere, al quale contrapponeva il divenire. Al puro essere, Hegel attribuiva una “indeterminata immediatezza”, che lo rendeva “uguale a se stesso e pure non disuguale [nicht ungleich] rispetto all’Altro”, nel senso (interpreto) che non lasciava percepire la sua differenza rispetto a quest’ultimo, al non-essere; pertanto “privo di ogni differenza interiore ma anche verso l’esterno”. In definitiva: “pura indeterminatezza e vuoto”, da mettere sullo stesso piano del nulla.  Perché? Se avesse una qualche “determinazione o contenuto”, proseguiva Hegel, differenziantisi al suo interno o che lo facessero apparire come differente rispetto ad un altro da sé, “non potrebbe mantenersi nella sua purezza”. Ne consegue che “in esso non v’è nulla da intuire, ammesso che si possa parlare qui di intuizione; oppure, è solamente questo puro, vuoto intuire. Tanto meno c’è in esso qualcosa che sia pensare, oppure è esso stesso questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminata immediatezza, è in realtà il Nulla, e nient’altro che nulla”.
Ma l’audacia di Hegel non finiva qui:  egli descriveva allo stesso modo il Nulla, inteso come “il puro Nulla”, attribuendogli la stessa indeterminatezza e lo stesso vuoto del puro essere. In tal modo il puro essere e il puro nulla venivano posti sullo stesso piano, resi uguali dal punto di vista del concetto: “Das reine Sein und das  reine Nichts ist also dasselbe”.
Dopodiche Hegel passava a far dipendere il concetto del  v e r o  dall’esser trapassati il puro essere e il nulla l’uno nell’altro, onde la verità di entrambi  risulterebbe in “questo movimento dello sparire immediato dell’uno nell’altro: il divenire; un movimento nel quale entrambi sono differenti ma tramite una differenza che si è per ciò stesso immediatamente dissolta”[6].
La realtà per Hegel si pone come divenire, questo è il concetto fondamentale. L’essere in quanto essere (il “puro essere”) viene ridotto a momento del divenire e per far ciò bisogna equipararlo al nulla, sul piano dei concetti. Secondo Aristotele il divenire presuppone l’essere. Secondo Hegel, esso risulterebbe invece di una sintesi-superamento dell’essere e del nulla.  Il divenire non è un modo dell’essere, che resti sempre all’interno dell’essere dell’essere: è invece il superamento dell’essere che scompare nel suo contrario, rappresentato dal nulla. E dal nulla che scompare nell’essere che diviene. Il divenire poggia, quindi, non solo sull’essere ma anche sul nulla, sul non-essere.
In questo primo capitolo della Logica, Hegel fa poi seguire nutrite pagine di approfondite Annotazioni ai suoi assunti preliminari, costituenti la celebre triade essere-nulla-divenire posta a fondamento della sua visione dialettica della realtà.  Non lo seguirò qui nel suo complesso argomentare.  Mi limiterò ad alcune osservazioni, in relazione al nostro tema, che è quello dell’essere in quanto essere, indagato in tutta la possibile ricchezza del suo concetto, visto che da esso si ricava, in sostanza, il fondamentale principio di non contraddizione.      
Se la proposizione parmenidea “l’essere è, il nulla non è” è vera, essa impedisce a priori un’equiparazione tra l’essere e il nulla come quella fatta da Hegel. Il quale, dal canto suo, accusa Parmenide di porre il suo principio in modo “assolutamente astratto”, sì da non cogliere l’effettivo nesso di essere e non-essere che caratterizzerebbe la realtà[7]. Ma che vuol dire qui “astratto” e in un modo “assoluto”? L’interpretazione più attendibile sembra la seguente: astratto in modo assoluto è quel principio che valga come pura opposizione sul piano logico, senza che gli corrisponda alcuna opposizione sul piano della realtà. Che resti, quindi, sul piano puramente logico senza potersi applicare a quello ontologico
Ma già Aristotele ci offre una serie di dimostrazioni del fatto che il principio non è astratto ma “si fonda sulla impossibilità ontologica della coesistenza dei contrari”[8]. Per “coesistenza” si intende, ovviamente, l’esser presente simultaneamente nel medesimo ente, nell’essere in quanto essere; “ontologica”, che appartiene alla natura concreta dell’essere (letteralmente dell’essenteontos, in greco), alla cosa in sé, non solamente al pensiero, in quanto tale distinto dall’essere, del quale è solo una parte.
Una delle critiche più radicali al concetto dell’essere di Hegel è stata, come è noto, quella di Adolf Trendelenburg (1802-1872). Egli ha scritto: “Alla prima astrazione dell’essere puro non corrisponde infatti nella realtà alcunché. É una costruzione forzata del pensiero che separa, e in nessun luogo si indica un diritto a trovare nel puro essere il primo germe di uno svolgimento oggettivo”[9]. La tesi di Trendelenburg è che la figura hegeliana del “puro essere”, che sarebbe l’essere concepito nella sua astrazione di semplice o puro essere ancora indeterminato, è a sua volta astratta, dato che essa non corrisponde a nessuna realtà concreta. Si sta parlando, aggiungo, dell’essere, che è il concetto della realtà nella sua concretezza immediata e presente: come può Hegel considerarlo, invece, il massimo dell’astrattezza, rispetto alla realtà? Per qual motivo il pensiero dovrebbe partire dalla determinazione di un “puro essere” in sé del tutto indeterminato, vuoto? Privo di ogni contenuto, quando invece l’è dell’essere esprime di per sé il massimo del contenuto, quello dell’esistenza effettiva di ciò che è?
Inoltre, rifacendosi ai rigorosi criteri della logica, come fissati già da Aristotele nella sua dottrina del sillogismo, Trendelenburg dimostra che l’equiparazione di essere e nulla, posta da Hegel alla base del suo concetto del divenire, contiene un errore, dal punto di vista puramente logico.
“Nell’identità che riconduce il concetto dato e il suo opposto all’unità di una più alta figura, è possibile riconoscere la seconda figura della sillogistica aristotelica, concludente però positivamente, cosa che la logica proibisce. Per esempio: il puro essere è immediato, il nulla è immediato, dunque il nulla è puro essere, oppure, se si scambiano le premesse, il puro essere è il nulla.  La logica mette in guardia da tali sillogismi, perché la seconda figura, se concludente in modo positivo, è quella forma in cui si fa della X una U o della U una X (U è una lettera, X è una lettera, allora X è U; come sopra). Per la loro stessa natura i sillogismi della seconda figura che concludono positivamente sono e rimangono fallaci e ingannevoli”[10].
In effetti, dall’affermare che U è una lettera e che  X è una lettera, non si può dedurre che U e X siano lo stesso, come se fossero l’identica lettera:  essi restano due lettere diverse e pertanto non possono esser considerati “lo stesso”.  Allo stesso modo, dall’affermazione che il puro essere è la semplice e astratta immediatezza priva di contenuto e che il puro nulla è del pari la semplice e astratta immediatezza senza alcun contenuto, non si può concludere che essi sono uguali, che l’uno sia “pertanto in generale lo stesso” che l’altro.
Trendelenburg imputa a Hegel anche un altro errore, sempre sul piano della logica.
“La logica dimostra che non si deve invertire il giudizio universale affermativo semplicemente e senza limitazioni. La dialettica del pensiero puro non ha timore di farlo. Nel suo primo movimento dice infatti così: “Il nulla, in quanto immediato e uguale a sé, è d’altra parte quello stesso che è l’essere”, dopo che si era solo mostrato che il puro essere in quanto semplice immediato è nulla. Dalla proposizione “il puro essere è nulla” non segue che il nulla è inversamente quello stesso che è l’essere e ciò non segue neanche dall’avere essere e nulla predicati uguali”[11].

Se osserviamo nel dettaglio le argomentazioni di Hegel in questo suo famoso incipit della Scienza della Logica, possiamo aggiungere le seguenti critiche:

a. Egli sostiene, come punto di partenza, che il “puro essere”, in quanto “indeterminata immediatezza” non offre un concetto capace di differenziarlo dall’altro da sé (gegen Anderes). Ma, se l’altro rispetto all’essere in quanto essere è il nulla, questo “altro” non esiste, non è per definizione e quindi l’essere non ha qui un “altro” da cui differenziarsi; differenziarsi, voglio dire, in un modo diverso da quello per cui si differenzia dal Nulla per il semplice fatto di esistere, di essere l’essere che è. L’esistenza immediata dell’essere è proprio ciò che, di per sé, lo differenzia dal nulla. È essa a fare la differenza.

b.  Come possono esistere un’intuizione o un pensiero vuoto di contenuto, ossia privo di oggetto proprio? Si pensa sempre a qualcosa, il mio pensare ha sempre un contenuto che ne costituisce l’oggetto specifico, quale esso sia. Ma proprio questo Hegel afferma a proposito del concetto del “puro essere”. Nell’essere concepito in questo modo “non c’è qualcosa che sia pensare, oppure è esso stesso questo vuoto pensare”. In modo per lui caratteristico, Hegel pone sullo stesso piano il contenuto del pensiero e il pensiero come attività, il pensato e il pensare: il puro essere sarebbe inconciliabile col pensiero, in esso si dà solo un “vuoto pensare”. Ma per l’appunto: “vuoto pensare” sembra un ossimoro, una contraddizione in termini.

c.  Tornando al rapporto tra l’essere e l’altro (il non-essere), Hegel dice che il “puro essere”, a causa della sua “immediatezza”, è “uguale a se stesso” e tuttavia “non disuguale rispetto all’Altro”.  L’uso del termine “non disuguale” sembra creare una certa difficoltà.  Il punto di partenza del ragionamento è che l’essere in quanto essere o “puro” è “uguale a se stesso”. Abbiamo quindi, di fatto, una formulazione del principio d’identità (A = A), già implicito del resto nel principio di non contraddizione (se A = A allora A non è = B ed anzi non è tutto ciò che non è A, ragion per cui A non può simultaneamente esser B o non-A).  Ora, per il solo fatto di esser “uguale a se stesso”, vale a dire di esser ciò che è, il “puro essere” non si distingue forse da tutto ciò che esso non è?
L’esser ciò che è, in sé, implica quindi, per intrinseca necessità logica, la sua distinzione dal non essere, inteso in senso assoluto, come Nulla, che è l’assenza di tutte le cose ed anzi del Tutto stesso della realtà. E questa distinzione, che si impone come logicamente ineludibile, non rende forse l’essere una realtà di per sé già determinata dal suo semplice esistere, che è appunto l’esistere dell’aristotelico “essere in quanto essere”? Come può, quindi, Hegel sostenere che l’esser uguale a se stesso dell’essere non lo distingua dall’Altro da sé, tanto più se rappresentato dal non-essere che è il Nulla?
Si è visto che la supposta mancanza di distinzione è posta da Hegel in modo singolare, come “non disuguaglianza”. Ora, una “non disuguaglianza”, come dobbiamo intenderla? Se una cosa “non è disuguale” da un’altra, vorrà dire che sarà ad essa uguale. Ma non è questo che sembra voler qui dire Hegel. La sua idea è che l’essere -- concepito come “puro essere”, poiché è quell’essere “solamente uguale a se stesso” in preda ad una “indeterminata immediatezza”, in definitiva all’immediatezza (termine che per ora non cerchiamo di spiegare) di ciò che è irrelato a tutto il resto, all’Altro in generale -- non mostra alcuna “differenza entro di sé” (infatti è “vuoto”) e per conseguenza nemmeno nei confronti dell’Altro.
Ma poiché l’esser in sé di ciò che è ossia l’esser-qui, l’esserci, l’esistere dell’essere, già lo differenzia dal non essere, dal Nulla, non si comprende come il “puro essere” possa considerarsi “non disuguale” (ossia uguale) a ciò che esso non è e quindi al Nulla.  Il principio di identità, espresso nella dizione “esser uguale a se stesso” di tutto ciò che esiste, impedisce che tutto ciò che esiste, l’essere in generale, possa esser posto sullo stesso piano del Nulla, come se l’esistenza stessa delle cose fosse “non disuguale” rispetto al suo contrario, rappresentato dal Nulla. L’insostenibilità dell’uso per così dire dialettico del principio d’identità, fatto qui da Hegel, sembra pertanto evidente.  Il ragionamento di Hegel conduce a questa assurda conclusione: che l’essere in quanto tale, il “puro essere”, non mostrerebbe differenza alcuna nei confronti del Nulla. Ma, non mostrandola, dovrebbe essere lo stesso del Nulla e pertanto non esistere, non essere: conclusione obbligata ma manifestamente assurda.

d. Ci sarebbero poi molteplici riflessioni da fare sul concetto della verità che qui compare. La verità consisterebbe appunto nel divenire, concepito come risultato del rapporto tra l’essere e il nulla. Ma ciò significa che il concetto del vero in sé e per sé viene concepito all’insegna del divenire. Tradotto nelle categorie della filosofia della storia hegeliana, ciò significa che il concetto del vero diventa figlio del proprio tempo, escludendosi la possibilità di una verità sottratta alla dialettica del divenire. È pur vero che il divenire deve corrispondere alle categorie della dialettica dello Spirito che si rivela nella storia, articolazione di tre immodificabili categorie: Spirito soggettivo, oggettivo, assoluto. Esse mostrano di saper comprendere il processo storico come alternarsi di ascesa e decadenza, e il significato delle epoche della storia umana, superando l’unilateralità della filosofia della storia illuministica, erroneamente convinta di un progresso lineare all’infinito della “ragione” contro le supposte “tenebre” della religione e della tradizione. Ma resta comunque il fatto che l’unica verità assoluta, per Hegel, non è più quella della Verità rivelata della religione cristiana bensì quella dello Spirito che si rivela come autocoscienza dello sviluppo storico, impersonata, questa autocoscienza, da un popolo o comunque dalle forze che sembrino dominarlo La verità assoluta è quella posta dallo Spirito che riconosce se stesso nel farsi della storia, in sostanza dalla coscienza del significato del proprio tempo appresa speculativamente dagli individui che lo vivono.
Qui però entriamo in un altro campo, che richiede ovviamente un discorso a parte. 
Per tornare all’essere, bisognerebbe ora vedere in che modo Aristotele abbia dimostrato la natura ontologica e non semplicemente logica del principio di non contraddizione. 
Come conclusione provvisoria, possiamo dire che la concezione della realtà e della storia come divenire sia tuttora predominante. Vi si sono innestati altri elementi rispetto all’hegelismo: il marxismo, che da esso deriva, pur rappresentandone nello stesso tempo una deviazione; l’evoluzionismo di origine darwiniana, che ha fatto scadere la visione della storia come progresso ad una sorta di biologismo a sfondo naturalistico.   Tuttavia la triade dialettica di “essere-nulla-divenire” sembra costituire sempre in qualche modo l’archetipo o, se si preferisce, l’intelaiatura nascosta del divenire nel quale mostra di credere l’uomo del nostro tempo. 
Non si può certo negare che la realtà del nostro mondo ed anzi del cosmo tutto sia caratterizzata anche dal divenire.  Tuttavia, la sua comprensione non può esser disgiunta da quella dell’essere:  il divenire va ricondotto entro l’essere, espungendo l’intrusione rappresentata dal concetto del Nulla, che non può evidentemente rientrare in nessuna combinazione.

3.  Natura reale del principio di non contraddizione

Nell’intervento iniziale sul tema dell’essere e della sostanza, apparso in questo blog il 15 dicembre 2016, abbiamo visto come il principio di non contraddizione si costituisca a partire dal concetto dell’essere in quanto essere. Tale principio appare già nella proposizione: “l’essere è”, implicante quella secondo la quale “il non-essere non è”. Considerando le due in relazione al tempo, si deve dire che essere e non-essere non possono esser simultanei, nel senso che l’essere che è, che esiste qui ed ora, non può nello stesso tempo non essere, non esistere qui ed ora.  Lo potrà in un momento successivo, appunto nel caso dell’ente (uomo, animale, pianta) che prima c’è, è vivo e poi muore, scompare. Ma mentre è qui, presente nella realtà,  non può simultaneamente non esser presente, non esserci, non esistere. E viceversa, non può simultaneamente esser qui ciò che ancora non è.
Il principio di non-contraddizione afferma dunque l’esclusione vicendevole di proposizioni manifestamente contraddittorie. Ma questo principio è valido solo sul piano logico o anche su quello ontologico, della “natura delle cose”, la natura concreta, reale dell’esistente nelle sue varie forme?
La risposta sembra ovvia: anche su quello della realtà effettiva. Si potrebbe persino dire che già lo si può ricavare da una semplice riflessione sulla nostra esperienza quotidiana. Vedo una persona seduta su di una sedia in una stanza, che poi si alza ed esce dalla stanza. Riflessione semplice, semplice:  la stessa persona non può star nello stesso tempo seduta e non seduta sulla sedia, ossia la sedia o la sua stanza non possono esser nello stesso tempo libere e occupate da qualcuno:  o l’una cosa o l’altra.  Io posso anche pensarlo, che potrebbero, ma questo pensiero, lo vedo subito, non corrisponderebbe mai alla realtà che cade sotto i nostri sensi. 

a.  Vediamo come Aristotele motivi la natura reale (o se si vuole ontologica) del principio di non contraddizione, nel libro Gamma della Metafisica.
“Anzitutto è chiaro che questo almeno è vero:  che le parole “essere” e “non essere” hanno un significato ben determinato, per cui non ogni cosa è possibile che sia e non sia così.  Parimenti, se la parola “uomo” ha un significato solo,  sia esso quello di “animale bipede”.  Dicendo che ha un solo significato, intendo che, se uomo vuol dir questo, ove ci sia un essere che è uomo, esso sarà ciò che per uomo s’è definito”[12].
Qui Aristotele si preoccupa di respingere l’opinione di coloro che vorrebbero negare il principio di non contraddizione argomentando dal fatto che una medesima parola può avere significati diversi.  Perché il discorso sia possibile, bisogna dare a ciascun termine un unico e preciso significato.  Una volta stabilito che, sulla base dell’esperienza, uomo vuol dire, descrittivamente, “animale bipede”, non si potrà più dire, per esempio, che voglia dire anche “animale non-bipede” o qualsiasi altra cosa e quindi che l’essere, il cui specifico significato è qui “animale bipede” possa contemporaneamente essere un “non-bipede” ovvero non-essere in quanto animale bipede. “Ove ci sia un essere che è uomo”: ogni volta che ci troveremo in presenza di un essere vivente “che è uomo” ossia “animale bipede”, tale essere vivente sarà inequivocabilmente “ciò che per uomo s’è definito”, l’animale bipede.
Se poi, continua Aristotele, si volessero dare significati diversi ma finiti  alla medesima parola racchiudente il concetto dell’uomo: “ebbene, si dia un nome appropriato a ciascuno di essi”. La cosa è legittima purché  le definizioni siano limitate e a ciascuna si dia un nome particolare, definito.  Se però ci si vuole sottrarre al compito dicendo che “i diversi significati di quel nome sono infiniti [ápeira]”[13] si fa cosa priva di senso. Infatti, in questo caso un termine, un nome “non avrebbe più alcun senso, poiché, se non significa una cosa determinata [ma infinite cose], è come non significhi nulla; e quando le parole non hanno senso, è tolta la possibilità di discorrere con altri, anzi, propriamente, anche seco stesso; giacché non può neanche pensare chi non pensa una cosa determinata: e se egli è in grado di pensare, dovrà dare anche un nome unico alla cosa cui pensa”[14].
Non ha senso rifiutarsi alla logica del principio di non contraddizione con la scusa che i significati di un nome possono essere infiniti.  Se il termine che si usa non si riferisce a una “cosa determinata” (nell’originale greco hen, uno; a un uno nel senso di realtà nettamente individuata, circoscritta, unica) è “come non significasse nulla” poiché il suo concetto si perderebbe nell’indeterminato dei molti significati, rendendo impossibile il significare stesso.

b. Di particolare interesse mi sembra la frase “non può neanche pensare chi non pensa una cosa determinata”; letteralmente:  “infatti non [gli] è possibile pensare, al non pensante uno [a colui che non pensa un uno], e se [è] possibile, [costui] porrà un solo nome a questa cosa [che sta pensando]”.  Non si pensa in generale o in modo indeterminato:  il nostro pensiero lo è sempre di una realtà singola, specifica, finita, che Aristotele racchiude nel termine uno, una sola cosa o pragma.  E il contenuto determinato, unico del nostro pensiero in atto, proprio perché esprime una realtà finita e circoscritta, riconoscibile anche per esclusione ovvero da ciò che essa non è (se non lo fosse, sarebbe a sua volta indeterminata), deve vedersi attribuito un nome specifico, che sarà solo quello “della cosa cui pensa”.  Pensiamo, quindi, dando sempre un nome a ciò cui stiamo pensando, nome unico per ogni cosa che pensiamo, perché sempre quello e mai un altro.
Si vede quindi che l’essere e il non essere della cosa, in relazione al principio di non contraddizione, non si riferiscono alla sola definizione della cosa bensì alla cosa stessa significata nel nome con il quale la pensiamo.
“Stabiliamo, quindi, che, come s’è detto da principio, ogni parola significa qualcosa, anzi qualcosa di unico [hen]. Ora, esser-uomo non potrà significare lo stesso che non-esser-uomo, se la parola uomo ha un significato non soltanto come predicato di un unico oggetto, ma in quanto significa essa stessa un oggetto unico”[15].
La distinzione sembra piuttosto chiara. In che senso una parola ha un significato, un significato uno cioè unico, riferito esclusivamente all’ente al quale si riferisce, quale che sia?  Ce l’ha, questo significato unico, allorché è usata non tanto come “predicato di un oggetto unico” bensì come significante l’oggetto stesso e quindi un solo o unico oggetto. Quand’è, allora, che una parola ha un unico significato? Lo ha, quando si riferisce ad un oggetto (o soggetto) determinato, non ai suoi attributi. Ricorro qui a Tricot, che rende il testo in modo meno letterale ma più chiaro, con una perifrasi: “car nous n’entendons pas établir qu’il y a identité entre signifier un sujet déterminé, et signifier quelque chose d’un sujet déterminé, pour la raison que, s’il en était ainsi, musicien, blanc et homme signifieraient aussi une même chose, de telle sorte que tous les êtres seraient un seul être, car ils seraient univoques [una cosa sola]”[16]. 
Non è la stessa cosa definire l’oggetto determinato e gli attributi di questo stesso oggetto. Se fosse la stessa cosa, gli attributi di un uomo bianco che sia un musico, non si differenzierebbero dal “soggetto determinato” o oggetto, cosa di cui sono attributi, costituita dall’uomo in questione, come se tra loro non vi fosse differenza. Invece la differenza c’è perché c’è nella realtà, dato che i vocaboli uomo, bianco e musico indicano tre cose o soggetti completamente differenti. La differenza qui stabilita dai tre nomi si fonda sulla differenza che esiste fra questi tre enti nel mondo esteriore. Per cui, conclude: “Quel che è in questione non è già se lo stesso possa insieme essere e non essere uomo di nome, ma di fatto”[17]. Di fatto, ossia nella realtà effettuale:  non tanto (o non solo) essere o non essere in relazione “al nome” (tò ónoma) quanto e soprattutto in relazione “al fatto” (tò prâgma), all’essere esistente. Ancora Tricot:  “mais la question n’est pas de savoir s’il est possible que le même être, à la fois soit et ne soit pas un homme quant au nom, mais s’il est possible qu’il le soit quant à la chose elle-même”[18].
Ma questo lo si può sapere solo se applichiamo correttamente il principio di non contraddizione allorché istituiamo il rapporto tra la cosa e il nome che la significa per noi. Il nome deve esser quello della cosa specifica, quella e non altra; determinato, quindi, nel suo unico significato, in relazione alla cosa; mai indeterminato, ossia consegnato ad una pluralità simultanea di significati, come se potesse applicarsi simultaneamente ad una pluralità di cose, vanificando se stesso e impedendo a priori ogni discorso provvisto di senso.
Paolo  Pasqualucci -  domenica 22 gennaio 2016 - [Fonte: Iter]
___________________________________________
[1] Lucio Anneo Seneca, Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, a cura di Giovanni Reale, con la collaborazione di Aldo Marastoni e Monica Natali, Rusconi, Milano, 1994, p. 1040. Nello stesso paragrafo Seneca invocava l’autorità di Cicerone a sostegno dell’uso di essentia. Tuttavia, il termine non è riscontrabile nelle opere ciceroniane che noi possediamo (vedi op. cit., p. 1369, Note alle Lettere, nota n. 311).
[2] Op. cit., ivi.
[3] Pascal, Pensées, in ID., Oeuvres complètes, edizione curata ed annotata da J. Chevalier, Pléiade, Paris, 1954, p. 1226,
[4] Parmenide, Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, tr. it. con testo greco a fronte, note di G. Reale, saggio introduttivo  e commentario filosofico di L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991, p. 95.
[5] Aristotele, Met., Γ, 1005 b, 6-7.  Ho citato dalla traduzione della Metafisica di Armando Carlini, Laterza, Bari, 19654, pp. 119-121.  Per l’originale greco:  Aristotelis Metaphysica, rec. W. Jaeger, Oxford, 1957.
Ho tenuto presente anche la traduzione di Tricot:  Aristote, La Métaphysique, introduction, notes et index par J. Tricot, Vrin, Paris, 2 voll., nouvelle édition entièrement refondue, avec commentaire, 1991; vol. I, pp. 195-196.  So che la traduzione di Carlini, il cui originale è del 1928, è considerata vecchia e superata, anche perché troppo legata a schemi interpretativi di tipo idealistico (Carlini era gentiliano). Si usa oggi quella assai più recente in due volumi di Giovanni Reale, che io però non posseggo. Che la traduzione di Carlini sia però “cattiva” e da buttare, come qualcuno insinua, non è vero. Conserva ancora il  suo valore.  
[6] Tutti i passi di Hegel sono tratti dalla sua Logica:  G.W.F.  Hegel, Wissenschaft der Logik, 1812 e 1831, ediz. di G. Lasson, Meiner, Hamburg, 1963, rist. ediz. del 1934, pp. 66-67. Traduzione mia.
[7] Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., p. 68.  La proposizione parmenidea esprimerebbe solo “l’esaltazione del pensiero che si costituisce per la prima volta nella sua assoluta astrazione”.
[8] La frase è di Tricot, nel commento a Met., Γ 4 1005b, 35, dove Aristotele rinnova l’attacco contro quelli che sostengono la stessa cosa essere e non essere contemporaneamente:  “il résulte que, suivant Aristote, l’impossibilité logique d’affirmer et de nier en même temps le prédicat du sujet, se fonde sur l’impossibilité ontologique de la coexistence des contraires (3 1005 b 24)” (Arist, La Métaphysique. cit., vol. I, p. 197, nota n. 2).
[9] Friedrich Adolf Trendelenburg, Il metodo dialettico, tr. it. e Introduzione di Marco Morselli, il Mulino, Bologna, MCMXC [1990], p. 82.  Il saggio contiene il terzo capitolo delle famose Ricerche Logiche di Trendelenburg (Logische Untersuchungen), la cui prima edizione è del 1840. Il capitolo contiene appunto la critica al concetto hegeliano dell’essere.
[10] Op. cit., p. 95.
[11] Op. cit., p. 97. Trendelenburg cita il concetto hegeliano  nella formulazione datane dalla Encyclopädie dello stesso Hegel, ai parr. 87 e 88.
[12] Aristotele, Met., Γ 4, 1006 a,  25-30;  nota intr., tr. it. e note di A. Carlini, La Metafisica, Laterza, Bari, 19654, pp. 122-3.  Ciò che per uomo s’è definito:  letteralmente: “la quiddité d’homme”, come traduce Tricot il greco: tò anthrópō einai, l’esser all’uomo (è il quid sit degli Scolastici). Vedi: Aristote, La métaphysique, tome I, traduct. et commentaire par  J. Tricot, Paris, Vrin, p. 201. 
[13] Op. cit., p. 123
[14] Op. cit., ivi.
[15] Op. cit., ivi. Riporto anche la traduzione di Tricot: “Ceci posé, il ne peut pas se faire que la quiddité d’homme signifie précisément la quiddité de non-homme, s’il est vrai que homme signifie non pas simplement l’attribut d’un sujet déterminé, mais bien un sujet déterminé” (op. cit., p. 202). Qui il termine sujet equivale all’italiano oggetto.
[16] Aristote, La métaphysique, cit., p. 202.
[17] Aristotele, La metafisica, tr. di Carlini, cit., p. 124.
[18] Aristote, La métaphysique, cit., p. 203.

14 commenti:

Anonimo ha detto...

SILVANA DE MARI:
"Non sono sotto inchiesta, ma questa falsa notizia diffusa dal Corsera è stata una fortuna. Ha ancora di più rilanciato quello che sto dicendo . La gaytudine causa patologia, è basata sul dolore, la penetrazione anale causa dolore , come testimoniato da gay.it e causa fuoriuscita di feci , come testimoniato da gay .it. Quindi è falso che sia naturale e normale. Grazie a questa notorietà sto raggiungendo i miei scopi. Altri medici e altri endoscopisti stanno aggiungendo le loro voci alle mie per parlare del disastro sanitario che è il mondo gay, mondo di dolore e sottomissione secondo le loro stesse affermazioni, mondo di dark room, glory hool e pugni infilati nella cavità anale. Adolescenti , miei lettori, mi hanno scritto: mi chiedevo se sono gay, dopo aver letto quello che lei scrive mi sono risposto che non lo sono, e mi sono chiesto come mi fosse venuta un'idea del genere. Io lo so. Una martellante propaganda basata su narrazioni, film e telefilm dove il gay è sempre presente è sempre bello, etico, buono e perseguitato oltre che al l'indottrinamento scolastico e mediatico hanno determinato la spinta verso la gaytudine. Il nostro cervello funziona con i neuroni specchio, in particolare in adolescenza. Per l'adolescente uniformarsi al modello che è contemporaneamente buono e trasgressivo è irresistibile. All'inizio la gaytudine è una scelta. Non può esistere in natura una pulsione istintiva a mettere il pene in mezzo ai batteri fecali di un altro uomo o di una donna, non può esistere in natura l'istinto di farsi infilare il pene nella cavità anale: se viene fatto senza lubrificante, le prime volte un intero tubetto di gel anestetico (luan) come raccomandato su gay.it, il dolore è intollerabile e le conseguenze (ragadi) quasi certe. Con il tempo si instaurano lesioni dello sfintere interno ed esterno, con allargamento del diametro dell'ano e un meccanismo di inversione del senso del piacere e del dolore fondamentale in ogni relazione sado maso. Il secondo risultato che ho ottenuto è che un esercito di donne sta trovando il coraggio di ribellarsi alla penetrazione anale, che , grazie alla pornografia , è stata imposta a mogli, compagne, alle prostitute. Il dolore può essere talmente forte che per tollerarlo molte persone usano analgesici e miorilassanti. Grazie all'articolo del Corsera la frase : questo non è naturale , non è normale , è stata letta in tutta Italia, e l'esercito di persone che da sempre lo pensa ha finalmente trovato una voce. Una voce che non si fermerà".
Silvana de Mari.

Luisa ha detto...

Bergoglio ha acceso una fiammetta non c`era da dubitare che le lobby influenti, dopo decenni di lavoro sotterraneo, oggi contino raccoglierne i frutti e far passare la piccola fiamma ad un fuoco pronto a bruciare e ridurre in cenere anche il celibato sacerdotale:

https://www.ncronline.org/blogs/faith-and-justice/now-time-married-priests

Anonimo ha detto...


I coiti anali ed orali sono sempre stati giustamente condannati dalla Chiesa come "atti contro natura". Sono gli atti delle "turpi passioni" denunciate da san Paolo nella Lettera ai Romani 1, 26 ss. quando condanna l'omosessualità, sia maschile che femminile. Il carattere contro natura e turpe di tali atti non poteva che esser confermato dalla scienza, quella vera.

Luisa ha detto...

Sul tema del nuovo cantiere aperto da Jorge Bergoglio un`analisi di don Gleize:

http://laportelatine.org/vatican/sanctions_indults_discussions/026_01_02_2017/17_03_2017_vers_le_mariage_des_pretres_gleize.php

irina ha detto...

"Oppure, seconda obiezione: si può ammettere, ma allora bisogna conferire al concetto dell’essere un significato solo d e s c r i t t i v o ."

"Dopodiche Hegel passava a far dipendere il concetto del v e r o dall’esser trapassati il puro essere e il nulla l’uno nell’altro, onde la verità di entrambi risulterebbe in “questo movimento dello sparire immediato dell’uno nell’altro: il divenire; un movimento nel quale entrambi sono differenti ma tramite una differenza che si è per ciò stesso immediatamente dissolta”[6]."

In questi due periodi mi è sembrato di cogliere due caratteristiche del modernismo e di parte di gran parte dei pensieri che andiamo combattendo. Nel secondo mi è venuta in mente la nascita del bambino, "lo sparire immediato l'uno nell'altro" che è reale ed è bene.Mentre come esemplificazione del primo,"il descrittivo" tutto il magistero del e post CVII, non definitorio.

Anonimo ha detto...


Ringrazio Mic per aver generosamente pubblicato le mie semplici riflessioni filosofiche e Irina per le sue acute osservazioni, che forniscono ampi spunti alla riflessione.
Il discorso per il recupero del concetto della sostanza e dell'essere di contro alle molteplici filosofie del divenire in circolazione, è ovviamente solo all'inizio. Sarei contento se riuscissi a promuovere energie speculative in questo senso. Un ulteriore livello del discorso consisterebbe nel misurarsi con la negazione del concetto della sostanza fatta dalla scienza contemporanea, in particolare dalla fisica, che crede di poter interpretare quantisticamente la realtà, affidandosi al principio del caso, come se l'ordine che vediamo nella natura e nell'uomo potesse essersi costituito per caso!
Trump ha detto, poche ore fa, dopo il colloquio con Merkl: "immigration is a privilege not a right". Frase notevole, rivoluzionaria, oggi. L'immigrazione e'un privilegio non un diritto. Giusto. Al divenire basato sul supposto diritto di ognuno di emigrare dovunque voglia, bisogna opporre l'essere, l'argine rappresentato da una volontà che riaffermi l'esigenza razionale del limite e del senso del limite, il diritto di una società e di uno Stato alla propria indipendenza e difesa. E'lo Stato sovrano a concedere il privilegio di entrare o meno ai c.d. "migrants". Ma su questo, anche Hegel sarebbe stato sicuramente d'accordo. Per lui, l'individualismo atomistico che si considera portatore di tutti i diritti era solo un momento negativo del "farsi autocosciente" dello Spirito, una antitesi necessaria alle esplodere delle contraddizioni di un mondo in decadenza. PP

Epiphanio ha detto...

Le riflessioni di PP sono lodevoli, e il voler presentare il tema in un articolo del web lo sono ancora di più, nel senso della limitatezza dello spazio.
Mi sembra che il discorso sulla distinzione di essere e sostanza ed essenza sia molto confuso e intricato, e penso sia dovuto allo spazio espositivo. A mio parere manca una spiegazione dei termini in questione, ancor di più se parliamo della filosofia greca e la filosofia scolastica. Molte volte si parla del pensiero aristotelico con categorie scolastiche senza definire prima cosa intendevano i greci per certi termini, come einai, on, ousia, e come sono passati all'uso dei pensatori latini. Perché Aristotele usava il vocabolo "ousia" mentre i filosofi latini cominciarono a usare "essentia" e poi "susbtantia"? La tematizzazione dell'"essere in quanto essere" non era una questione di Aristotole, che usava piuttosto "on" che "einai", un suo sinonimo. L'ente/essere (on/einai) per lo Stagirita era sempre qualificato in una categoria, mai era presentato da solo, perciò il significato principale di "ousia".
Sarebbe bene chiarire semanticamente i termini in questione prima di fare di Aristotele un tommista ante litteram. Lo stesso accade con il concetto di "actus", il quale non è l'"energeia" aristotelica. Bisogna capire il cambiamento semantico dal termine greco a quello latino e le ragioni che hanno motivato l'uso nella filosofia scolastica.
Buon articolo di PP. nonostante la compressione.

irina ha detto...

@PP
Sono certa che la Chiesa per salire sul treno della contemporaneità abbia lasciato, di volta in volta, parte del suo bagaglio nella stazione di Queltempo. Molte volte ho citato Santa Ildegarda perchè in lei mi sembra di vedere un modo di essere e di conoscere il mondo, completo, non diviso. Questa mattina mi è tornato in mente Mendel,molto più vicino a noi.Insomma quello sguardo cristiano che nella creazione vede e loda il Creatore. Accostarsi al creato non per estrarne il meccanismo ma per riconoscerne la Via, la Verità, la Vita e guidarla da uomini, corona della creazione. San Tommaso ha lasciato le Summae che vanno zappate a lungo e concimate con la propria testa e ridette con le proprie parole, rispondenti alle sue. Non conosco San Tommaso, forse una paginetta qui e basta, però quel poco l'ho trovato geniale. Sono certa che è la guida giusta per il nostro pensiero di oggi, senza capo nè coda, ma occorrono una umiltà ed una sana disciplina oggi sconosciute. Sana perchè non si tratta di imporsi a se stessi con un "volli sempre volli", ma con Chi rende il giogo dolce ed il carico leggero.

Anonimo ha detto...


@ Replica a Epifanio

Mi sembra di capire che la critica sia questa: non avrei spiegato sufficientemente i termini aristotelici, anzi attribuendo loro significati (substantia, essentia, esse) che sono quelli attribuiti ad Aristotele dalla Scolastica. (Non è una critica nuovissima, in verità).
La critica mi sembra infondata, pur considerando il fatto che, come ho detto, queste riflessioni sono ancora allo stadio iniziale.
Infondata, poiché documento nel testo vari e diversi modi di tradurre i termini aristotelici. Ho utilizzato anche la celebre traduzione francese di Tricot, per far vedere le differenze. Inoltre, sono andato a scovare il passo nel quale Seneca, rifacendosi a Cicerone, traduce la ousia aristotelica con "essentia", ben prima della Scolastica dunque. E Seneca traduceva lo o n di Aristotele (l'essente o essere, per noi) con "quod est", in modo affine alla posteriore Scolastica, mi sembra. Volendo renderli in latino, i concetti di Arist., questi sono in sostanza i termini. In effetti, il participio presente di einai, essere, ovvero: "essente", non indica forse "quod est", ciò che è? Che altro indica? E ciò che è non è forse l'essere in quanto essere? quello che, per il solo fatto di essere, si contrappone al nulla e quindi fa già apparire il principio di non contraddizione, poiché, se è, non può simultaneamente non essere?
A mio avviso, bisogna stare attenti a non fare delle questioni terminologiche una barriera che poi ostacola il necessario sviluppo dell'analisi dei concetti. Fermo restando il fatto che l'analisi terminologica non è certo assente dal mio articolo.
PP

Epiphanio ha detto...

Ringrazion PP per la replica.
Confermo che la mia critica non è nuovissima, ma è certamente fondata sulle riflessioni allo stato iniziale, altrimenti non avrei criticato.
Se torniamo alla citazione di Seneca dobbbiamo considerare che per la spiegazione del terminie "ousia" non cita il libro delle Categorie di Aristotele, ma comuncia la sua Epistola 58 citando Platone, e così continua esplicando il termine "to on". Con questo piccolo esempio, vorrei richiamare l'attenzione che lo sfondo filosofico de la derivazione dei termini latini è platonio-stoico. Pertanto è necessario ammettere con il prof. De Libera che il merito grandioso di S. Tommaso d'Aquino è stato la "deplatonizzione" di Aristoele, benché ci siano tesi sul suo accentuato neoplatonismo nelle opere ultime (vide ad ex. De causis).
Il problema che si pone da alcuni anni è il ritorno a un certo "platonismo", nel senso di quel ritorno all'unità, al dialogo, alla comunione, in detrimento delle distinzioni, delle differenze, caratteristica della filosofia aristotelica e eccelsamente interpretata e commentata dall'Aquinate.
Accetto volentieri l'osservazione di PP sullo sviluppo concettuale, ma dobbiamo prendere atto che un discorso sul significato dei termini importa in quanto in essi si veicolano i concetti, basta vedere come la metafisica di Aristotele sia lasciato da parte negli studi ecclesiastici dopo l'ultimo concilio in pro di una filosofia dell'unità.

Anonimo ha detto...


Il discorso sull'essere e la sostanza da dove deve cominciare e a qual fine?

L'ho cominciato partendo da Aristotele perché mi sembrava corretto dal punto di vista metodologico. Ma lo possiamo fare anche senza nominare nessun filosofo, partendo dalla semplice osservazione empirica di noi stessi, del nostro io e del mondo esterno a noi. Incominciandolo in questo modo, credo si arriverebbe agli stessi concetti. Ossia, saremmo costretti ad imbatterci nei medesimi concetti: l'essere in noi e fuori di noi che si pone come "ciò che è" senza bisogno di dimostrazione, costringendoci subito dopo a chiederci che cos'è questo qui "che è", di fronte a noi e dentro di noi (il quid sit del quod est, per usare la terminologia scolastica). In questo ragionare sul "ciò che è" non scaturisce spontaneamente il nesso "sostanza-accidenti", il problema del rapporto tra l'interno e l'esterno, l'apparenza e la sostanza, che pur costituiscono un'unità nell'individuo concreto, e così via?
Ho fatto questi esempi per dire che il problema, secondo me, non è ritornare ad una forma di platonismo o aristotelismo ma ristabilire in primo luogo la chiarezza e precisione dei concetti fondamentali, unico modo per arrivare di nuovo ad una visione della realtà realistica, fondata sulla recta ratio.
In questo compito, Aristotele, san Tommaso e anche Platone, possono naturalmente esserci di fondamentale aiuto. Ma non si tratta di elaborare nuove forme di neotomismo, neoaristotelismo o neoplatonismo, bensì di riuscire ad utilizzare la metafisica classica in modo da elaborare qualcosa di nuovo, che sia capace di controbattere quello che è oggi il nemico principale, lo scientismo dominante, la pretesa della scienza di ergersi a filosofia, dalla fisica alla psicoanalisi.
Così la rimeditazione del concetto della sostanza sui suoi fondamenti classici dovrebbe servire poi a controbattere la pretesa della fisica quantistica contemporanea di averne dimostrato l'inesistenza perché la realtà degli enti sarebbe quella di essere delle semplici concentrazioni di energia prodotte dal caso, continuamente in movimento,immagine del tutto assurda. PP

irina ha detto...

"...perché la realtà degli enti sarebbe quella di essere delle semplici concentrazioni di energia prodotte dal caso, continuamente in movimento,immagine del tutto assurda."

"...un gruppo di biologi ha quantificato la possibilità di ottenere('per evoluzione non guidata dall'esterno' come è stato specificato) anche solo gli oltre duemila enzimi necessari al funzionamento del corpo umano. Si è calcolato così che la probabilità è pari a quella di ottenere sempre un dodici per cinquantamila volte di fila, senza mancare un sol colpo, gettando sul tavolo due dadi." (V.Messori, perchè Credo,Piemme,2008, p.328)

Epiphanio ha detto...

Il discorso sull'essere comincia dall'ente il cui primo significato è "sostanza". Il ragionare sul fondamento dell'ente porta a "risolverlo" nell'essere, come atto di ogni atto e forma di ogni forma, da qui si inferisce la Causa che noi chiamiamo Dio, Essere subsistente.
Le parole usate precedentemente --se si sia d'accordo e meno-- suppongono già un bagaglio concettuale, non ne possiamo farne a meno. I termini chiavi come "essere", "ente", "sostanza", "resolutio", "sussistente", hanno uno sfondo carico di contenuto, perciò sarebbe molto difficile cominciare da sé.
Lo scientismo dominanate deriva dal rifiuto della metafisica e, in ultima istanza, dal rifiuto dell'ente come dato estramentale. Questa deriva lo dobbiamo a Kant, chi ha cambiato il rapporto del soggetto all'ente trasformando questo in oggetto ed elevando il soggetto al livello "trascendentale" --altro termine che Kant usa, ma si pone in dubbio se aveva capito la dottrina dei concetti trascendenti.
Kant è l'acuto filosofo che pur usando termini della scolastica cominciò a cambiare il loro contenuto. L'ente tuttavia non viene da lui eliminato, come farà dopo Hegel, ma è la cosa in sé, isolato, fuori dello spazio e del tempo. Quando un dato entra nell'ambito di queste forme dell'intuizione possiamo già considerarlo come oggetto Object).
Che l'ente sia una concentrazione di energia dimostra che la comprensione del concetto di "ente" è subordinata alla misurazione e calcolabilità, cioò a qualcosa che non è l'ente. Che gli enzimi siano ciò che fa funzionare il corpo umano dimostra che, oltre a non capire l'ente, si ha un concetto errato del principio formale del corpo vivo.
Sono due linguaggi diversi, e se ci mettiamo a discuttere diventa un linguaggio "da pazzi". Possiamo comunque sempre cominciare una discussione constatando che qualcosa c'è. Da lì segue la determinazione se quella cosa lì dipende da me o no. Dunque, mi sembra che un principio di discussione è determinare il primo atto (actus), e uno scientista o un neoterico lo deve dare sotto pena di cadere nel mutismo. Più o meno è quello che hanno fatto i quattro cardinali presentando i Dubia al Papa: "qual è il primo atto?" Se tutto progredisce, qual è il punto di partenza?, che tradotto in termini filosofici sarebbe: qual è il primo ente in atto?
Buona domenica.

irina ha detto...

"Che gli enzimi siano ciò che fa funzionare il corpo umano dimostra che, oltre a non capire l'ente, si ha un concetto errato del principio formale del corpo vivo."

Non posso parlare a nome di V.Messori, a nome mio però sì. Se lei legge l'inizio del brano, da me ricopiato, si parla di biologi, che hanno un loro linguaggio ed una loro visione del mondo. Che lascio a loro. La ragione per cui io ho ricopiato era "il caso" e le probabilità di riuscita "casuale". Quando lo lessi mi fece sorridere, l'ho ricopiato per far sorridere anche il mio prossimo di tastiera e quindi anche lei. Non sono specialista in nulla. Cerco solo di capire quello di cui si dice. Buona Domenica a lei.