Caravaggio, chiamata di Matteo |
La frase mi colpì e m'indusse a pensare. Oggi, alla distanza di molti mesi, ci penso ancora e mi confermo nelle convinzioni che desidero qui di seguito esporre con un certo ordine.
1 - Quella frase coglieva un aspetto non proprio della Chiesa in quanto tale, bensì della complessa fenomenologia religiosa ai vari livelli della Chiesa stessa e degl'insediamenti umani - storici, sociologici, culturali - nei quali essa si è "trapiantata" ed effettivamente incarnata. Un aspetto, dicevo, e non certamente il peggiore, nonostante il senso restrittivo che tradizione riceve dal suo contrapporsi a conversione. È evidente, infatti, che il senso di codesto contrapporsi non ha nulla a che fare con il concetto teologico di Tradizione in quanto fonte della verità rivelata al pari della Sacra Scrittura e vita della Chiesa, anzi principio inesausto del suo ringiovanirsi nella scansione degli anni e dei secoli. La tradizione che cederebbe all'incedere della conversione è qualcosa di più modesto, che ha un suo valore, innegabile ma non determinante né costitutivo della realtà ecclesiale: quello del "s'è sempre fatto così". È il valore che ha consentito alle comunità cristiane di regolar il proprio comportamento pratico fin alla "rivoluzione" del Vaticano II e del burrascoso postconcilio. Tutta la tradizione che veniva invocata e rimessa in gioco non trascendeva i limiti del "s'è sempre fatto così"; li presupponeva, li trasferiva nel presente e s'identificava con essi. Proprio ad essi si doveva se credenze e pratica religiosa conferivan attualità e qualche guizzo di vitalità al quel "sempre" che riportava il passato nel presente e questo sposava con quello.
Non ci vuol molto, tuttavia, a capire che il "s'è sempre fatto così" copriva una certa inerzia mentale e pratica, e non sfuggiva al pericolo della superficialità e del disimpegno. Correva anzi il rischio d'una pratica religiosa abitudinaria, priva di vibrazioni spirituali, muta sorda e cieca dinanzi al rinnovarsi del Mistero nei riti sacramentali, prigioniera dell'accadimento esteriore del rito e del suo ripetersi. Sotto quest'aspetto, c'era dunque del vero nel giudizio sulla Chiesa prevalentemente di tradizione. Era però una verità che si fermava alla scorza e non supponeva neppure che, al di sotto di essa, avrebbe trovato la vera ed autentica Tradizione.
Non ci vuol molto, tuttavia, a capire che il "s'è sempre fatto così" copriva una certa inerzia mentale e pratica, e non sfuggiva al pericolo della superficialità e del disimpegno. Correva anzi il rischio d'una pratica religiosa abitudinaria, priva di vibrazioni spirituali, muta sorda e cieca dinanzi al rinnovarsi del Mistero nei riti sacramentali, prigioniera dell'accadimento esteriore del rito e del suo ripetersi. Sotto quest'aspetto, c'era dunque del vero nel giudizio sulla Chiesa prevalentemente di tradizione. Era però una verità che si fermava alla scorza e non supponeva neppure che, al di sotto di essa, avrebbe trovato la vera ed autentica Tradizione.
Il passaggio, peraltro dato per scontato dalla frase in esame, non seguirebbe la traiettoria da una nozione deficitaria ad una nozione sott'ogni punto di vista perfetta di Tradizione, quella nella quale la Chiesa ritrova la sua più definita identità, bensì da un valore ad un altro, con scavalcamento della tradizione deficitaria ed approdo alla conversione. Si tratterebbe, dunque, del passaggio da un valore ad un altro e non dal meno al più all'interno d'uno stesso valore. Se infatti il passaggio intravisto si fosse verificato, o stesse verificandosi, da uno stato d'imperfezione ad uno più perfetto o addirittura assolutamente perfetto della Tradizione ecclesiale, si sarebbe trattato d'uno scarto di qualità sull'asse d'un medesimo valore. E stante l'incidenza della Tradizione sull'essere e la prassi della Chiesa, questa ne sarebbe uscita indubbiamente arricchita, più autentica, più credibile, più se stessa. Il passaggio, invece, fu costatato da una sponda ad un'altra, da quella d'una generica ed indeterminata tradizione a quella della conversione. Peccato che non si sia avvertita l'opportunità di specificare la natura di codesto punto d'approdo, perché, linguisticamente parlando, passaggio e conversione anche se non s'equivalgono, son quasi sinonimi. Passaggio indica un transito, un trasferimento, lo spostarsi da un punto ad un altro; e conversione è pure un transito, ma più specificato nel senso opposto a quello di partenza, una giravolta, una curva ad "u" come dicon gli automobilisti. Essa infatti traduce il concetto neotestamentario di m e t à n o i a , dal verbo metanoèin, cioè "poenitentiam agere, peenitere, poeniteri". E s'identifica quindi con un pentimento sincero e radicale, quello che imprime al penitente un orientamento nuovo ed un nuovo tenore di vita. La scomposizione della parola greca mette in evidenza la natura e le ragioni di tanta novità: metà sottolinea un superamento, l'abbandono d'una condizione per entrar in un'altra, e nous - donde metànoia - è in pari tempo il valore di partenza che vien lasciato dietro le spalle e quello d'arrivo sul quale si ferma l'approdo: una mentalità nuova ed una nuova adesione ai valori che si voglion incarnare nella propria esistenza. Si può quindi dedurne che la conversione consta di due elementi, necessari ed inscindibili: il pentimento ed il cambiamento: li ritroviamo nel principio che sintetizza tutto l'evangelo di san Marco: "naetanóeite kài pistèuete en tó euangèlion, pcenitemini et credite evangelio, pentitevi e credete nell'evangelo" (Mc 1,15).
Non sembra proprio che nella conversione del testo in esame i due elementi sian chiaramente individuabili. È anch'essa il punto terminale d'un trascendimento che vorrebbe portare da un meno ad un più: da una pratica tradizionale non del tutto rispettosa del concetto teologico di Tradizione, ad un atteggiamento spirituale di vero e proprio cambiamento, cioè di conversione, senza che di essa vengan sottolineinate le componenti essenziali del pentimento e del rinnovamento interiore. Se, pertanto, quel testo ha un significato, lo deduce più dall'ambito sociologico che da quello teologico.
Si prenda, tuttavia, per buona la distinzione di quel testo e ragioniamoci sopra. Se per un verso essa prende spunto dal venir meno della Chiesa attestata prevalentemente sulla tradizione, per un altro intende dar il dovuto risalto alla Chiesa che va prevalentemente attestandosi sul traguardo, meglio sarebbe dire sull'ideale e sulla pratica della conversione. L'avverbio "prevalentemente" ripetuto due volte conferma il carattere sociologico dell'osservazione, nonché il suo riferirsi a quanto sta avvenendo non in tutto il complesso ecclesiale, ma in una sua componente maggioritaria. E quanto sta avvenendo comproverebbe l'abbandono dell'atteggiamento tradizionale da parte della componente ecclesiale maggioritaria a favore d'una sua scelta qualitativamente diversa e con approdo definitivo su un valore che trascende del tutto la base di partenza, ovvero la pratica tradizionale. Tra le pieghe del testo in esame s'avverte, dunque, lo stridore d'una contraddizione: il "terminus ad quem" annulla il "terminus a quo", la conversione caratterizza oggi la Chiesa che ieri era invece caratterizzata dalla pratica tradizionale. È vero che questa non era l'autentica Tradizione, dalla quale peraltro qualche cosa attingeva, forse di modesta entità e, in certi casi, di non univoca fedeltà, ma tale da consentirle indirettamente e perfino paradossalmente di testimoniar in qualche misura la Tradizione autentica. È altrettanto vero, inoltre, che la conversione, come penitenza e cambiamento, non può prescindere dalla Tradizione, è anzi un tuffo in essa ed un ritrovar in essa il Cristo della Chiesa, al quale ci si converte. Una contraddizione, pertanto, fra Tradizione e conversione diventa la contraddizione del testo stesso che la propone. Se infatti la conversione è anzitutto un pentirsi, questo potrà verificarsi soltanto in rapporto a tutto quanto d'essenziale è nella Tradizione e che, come tale, o non fu apprezzato o fu rifiutato: di ciò ci si pente. Se col pentirsi si salda, mediante la conversione, un cambiamento spirituale, questo non potrà esser altro che adesione all'evangelo e quindi a tutto quanto, dagl'inizi ad oggi, è elemento costitutivo della Fede. È veramente difficile, in un quadro siffatto, trovar il dato anche minimamente giustificativo d'una conversione che si sostituisce alla Tradizione: l'una infatti è vera solo se non prescinde da quella. Ma "de hoc satis": doveva esser semplicemente un preambolo all'argomento da trattare, la conversione, e strada facendo ha assunto una dimensione imprevista.
2 - Il sottolineato collegarsi della penitenza con un cambiamento di mentalità e di costumi non è esclusivo del Nuovo Testamento; lo si riscontra, infatti, anche nell'Antico e non una volta sola. Il suo messaggio è chiaro: chi vuol esser perdonato e gratificato da Dio deve pentirsi del proprio peccato e, allontanandosi dal medesimo, ritornare umilmente e fiduciosamente al servizio dell'Altissimo(1). C'è un verbo specifico che, sulla base del pentimento, esprime codesto fiducioso ritorno: súbh (2), vale a dire volgersi, far ritorno, cambiare strada. Il peccatore in tanto si pente e fa penitenza dei suoi peccati, in quanto cambia strada e si mette sulla rotta di Dio, alla ricerca del suo volto, implorando il suo perdono. La conversione è per lui un cercare nuovamente JHWH e la sua volontà (3}, un sincero desiderio d'incontro (4) con Lui, al quale umilmente confessa le proprie colpe e chiede pietà e misericordia. Per ottener di nuovo e rinsaldar il rapporto con JHWH i profeti a più riprese metton l'accento sulle disposizioni interiori: la volontà d'abbandonare le vie del male e seguire quelle del bene (5); la necessità d'un radicale cambiamento di vita attraverso un "lavaggio" del cuore ed il suo rinnovamento(6); la decisione d'una mai pienamente realizzata e conclusa docilità al volere dell'Eterno (7) . Tale docilità, nel periodo postesilico, troverà concreta espressione ed attuazione nella fedele osservanza della Tórà fin a fossilizzarsi in essa.
Pur richiedendo ad ogni buon israelita un'opzione fondamentale per Dio, la conversione veterotestamentaría non si risolve né in una semplice azione, implicando l'esigenza della continuità e della crescita come condotta di vita (8), né la presunzione di realizzarla da sé, con il proprio sforzo o col titanismo del proprio impegno, laddove l'esito dello sforzo umano dipende da Dio e dalla sua grazia. Di ciò ben consapevole, l'israelita affida a JHWH l'esito del proprio impegno con le parole seguenti: "Fammi tornare (ossia, convertimi) ed io ritornerò (cioè, mi convertirò, (perché) tu sei il mio Dio" (9}. Una tale conclusione spiega il perché dell'implorazione: colui che implora si sente incapace di mettersi con le proprie forze sulla strada di Dio, ma sa d'esser sua proprietà, ben saldo nelle sue mani, e per questo affida a Lui il compimento della sua conversione. Soltanto se Lui, l'Onnipotente, darà esito allo sforzo umano, la conversione sarà vera efficace reale: "Sanami e sarò sanato; salvami e sarò salvo" (10).
Dico sforzo umano, perché anche l'Antico Testamento conosce la sinergia di due soggetti e non fa del soggetto umano un semplice campo d'atterraggio di quello divino: l'uno, infatti, dovrà mettercela tutta pur sapendo che "invano s'affatican i costruttori della casa, se non l'edifica Dio" (11); l'altro, premia con la sua onnipotenza e la sua grazia lo sforzo umano, altrimenti sterile: chi infatti restaura le sorti d'Israele è solamente Dio. Il quale "prende in braccio i figli" del suo popolo, nonostante che "non capiscano il suo grande amore" ."Con vincoli d'amore li attira a sé. Per essi è come chi alleva un figlio: su di lui si china e gli dà da mangiare". Con tristezza l'agiografo annota che essi "non vollero convertirsi [...] e si rivolsero a Baal", provocando l'ira del loro Dio. Ma Lui, il Santo, la reprimerà e non distruggerà il suo popolo, lo chiamerà a sé con la forza d'un leone che ruggisce(12), "e torneranno allora i suoi figli dall'occidente e come uccelli accorreranno dall'Egitto e come colombe dall'Assiria, ed io li farò abitare nelle loro case"(13). Si, perché chi converte Israele è Lui; chi gli crea un cuore nuovo è Lui; chi gl'infonde un nuovo spirito è ancora Lui(14). Ne aspetta solo il primo passo; ma è poi Lui che l'accompagna alla meta: "Se ti convertirai, io ti convertirò" (15).
La sinergia, alla quale poco sopra alludevo, si rivela dunque nel misterioso incontro delle povere ed inefficaci forze umane, inutilmente impegnate nell'immane impresa di passare dalla sponda dell'odio e della ribellione a quella dell'amore e della fede, fin a quando la mano amica di Dio le solleva e le salva dalla loro inane sterilità e ne corona lo sforzo convertendole a sé, al proprio servizio, alla propria sequela. Ovviamente, fin a che tutto questo non venga sfiorato dall'accennata interpretazione legalistica della conversione.
3 - Il Nuovo Testamento non solo riassume con Marco tutta la logica della "lieta notizia" nel pentimento e nel correlativo salto di qualità spirituale e morale, ma tutto ciò dichiara in sostanziale continuità con il richiamo degli antichi profeti alla conversione come abbandono del peccato e compimento del divin beneplacito. Si coglie codest'aspetto fin dall'inizio, nella figura del Precursore, il cui messaggio è sol un ripetuto invito alla conversione(16). Non men insistente è quello di Gesù, il quale dichiara apertamente di "non esser venuto per i giusti, ma per chiamar i peccatori a penitenza"(17). Gli fanno eco gli Apostoli i quali, appena scelti ed istruiti da Cristo sulla loro missione apostolica, incominciano a "predicare di far penitenza"(18). Il Signore, infatti, aveva chiesto loro di convertire tutte le gemi, a partire da Gerusalemme, predicando "in suo nome la penitenza e la remissione dei peccati" (19).
Quella che ho definito "sostanziale continuità" con la predicazione profetica non è, tuttavia, una ripetizione meccanica. Possiede infatti i due elementi essenziali della conversione, il pentimento ed il cambiamento di vita. Ma il pentirsi neotestamentario assume un significato speciale, perché identifica il veterotestamentario "volgersi a Dio" nell'andar verso Cristo, raggiungerlo nel mistero della grazia, unirsi a Lui e viver di Lui. La conversione diventa in tal modo vita di fede non solo cristiana ma eristica, e si finalizza ad una restaurazione, mediante la fede, dell'intero genere umano.
Chi, però, volesse descrivere o meglio ancora definire la natura della conversione su base neotestamentaria, potrebb'incontrare qualche difficoltà. Alla conversione si riferiscon alcuni richiami di Gesù e non poche delle sue parabole. Alla conversione si riferisce pure la predicazione del Precursore. Ma non tutto, nel dettato dell'uno e dell'altro, collima. In Gesù, la conversione s'imparenta con la fede stessa e questa è non tanto un rivestimento esteriore, quanto e piuttosto un'assimilazione interiore di valori che trascendono le pure e semplici ragioni del quotidiano, del sociologico, del culturale. Anche quando parla del vestito - la "veste nuziale" - Gesù ne fa una metafora per far capire che cosa occorra assumere per presentarsi al Signore e sedersi al suo "banchetto": un cuore nuovo, una mentalità opposta tanto a quella legalistica, quanto a quella dell'egoismo, della prepotenza, della ricchezza, della violenza, insomma del peccato; un cuore che sia luce pubblicamente esposta e risplenda all'intorno perché tutti la vedano e ne approfittino(20) e si dispongano in umiltà orante a ricevere il perdono di Dio(21). Si capisce da ciò che la conversione è per Gesù un modo di vivere: un atteggiamento costante, radicato nelle profondità del proprio essere, d'aprirsi coerentemente a Dio e alla sua grazia; un "diventare come i fanciulli"(22), anzi addirittura un rinascere dall'acqua e dallo Spirito Santo" che trascenda la pura e semplice nascita dalla carne, poiché "quel che proviene dalla carne, è carne; quel che nasce dallo Spirito, è Spirito"(23). Insomma, la conversione è il superamento del limite carnale per l'irruzione, in esso, dello Spirito Santo. La conversione è non solamente un vivere lontani dal peccato e nemmeno il solo pentirsi dei peccati commessi, bensì una vita nello Spirito e secondo le sue mozioni interiori.
Non esattamente a questo tende la predicazione di Giovanni, il Precursore. Nella sua parola sembrerebbe riflettersi qualche reminiscenza degli antichi profeti, i quali accompagnavano l'invito alla conversione con la minaccia di condanne e disgrazie. È impressionante, oltre che tipico della spiritualità veterotestamentaria, il seguente passo d'Is: "Come una lingua di fuoco divora la paglia e la fiamma incenerisce il fieno, così la loro stirpe sarà come pula e la loro prole svanirà come polvere, perché hanno infranto la legge d'JHWH Sebaot e schernito la parola del Santo d'Israele. Contro il suo popolo s'è accesa per questo l'ira d'JHWH, ed egli ha steso la sua mano contro di lui e l'ha percosso. Ha fatto tremar i monti e ridotto il cadavere (degl'Israeliti) come pattume in piazza. Il suo furore non per questo s'è placato e la sua mano è ancora tesa"(24). Altrettanto fosche son le tinte con le quali Giovanni annuncia l'imminenza della fine: "Ormai la scure è alle radici dell'albero" e la paglia finirà "nel fuoco inestinguibile"(25). Giovanni percorse "l'intera regione del Giordano, predicando un battesimo di penitenza in remissione dei peccati, secondo quanto sta scritto in Is: una voce grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri. Che si riempia ogni avvallamento ed ogni monte e colle sian livellati, i luoghi scabrosi addolciti ed appianate le piste scoscese"(26). Il linguaggio è figurato, perché è quello del profeta. Non quello di Giovanni, che arringa le folle con la sua personale veemenza, dichiarando una "Razza di vipere" i suoi correligionari, perché presumono di "sfuggire all'imminente ira" del Signore che viene e non si preparano ad accoglierlo con "frutti degni di penitenza" (27). Son parole, queste, che rivelano quanto lontane sian tra di loro le due conversioni: quella predicata da Cristo e quella predicata da Giovanni. L'uno auspica un cuore nuovo, l'altro, ignorando l'esigenza del cuore nuovo, si contenta dell'elemosina, in base all'idea del tutto giudaica(28) ch'essa riscatta i peccati (29).
In dichiarazioni varie e varie parabole di Gesù si ha l'idea del suo vero concetto di conversione: tutto può certamente concorrere ad orientare l'anima a Dio, anche il digiuno, dinanzi al quale Gesù sembra piuttosto indifferente(30), o altre pratiche penitenziali; ma non in tutto la conversione trova il suo elemento costitutivo. Secondo il pensiero di Gesù, un pensiero peraltro chiarissimo, la conversione è farsi piccoli come bambini, accoglier un bambino in suo nome e mai scandalizzare uno di essi(31). È l'esser poveri nello spirito, miti, affamati di giustizia, misericordiosi, col cuore puro e pacifico. In un siffatto ideale c'è qualcosa di più di qualunque pratica penitenziale esterna; qualcosa che va ben oltre la semplice fuga dal peccato ed aggiunge ad essa la semplicità di chi, come un bambino, pone la propria mano in quella di Chi tutto e tutti conduce. Conversione è lo spogliarsi del proprio io, delle capacità proprie e dei propri meriti, è il passaggio dalla criteriologia umano-razionale a quella del discorso sul monte, nonché la convinzione che un tale passaggio è più opera di Dio che dell'uomo. La conversione, anzi, si perfeziona in tutta la sua entità e portata al termine di codesto passaggio.
Si tratta, in effetti, di quel metanoèin che risonò sulle labbra del Signore Gesù fin dagli esordi della sua missione, quando invitò non i soli momentanei uditori, ma l'intero genere umano ad entrare nel Regno ormai venuto, o quanto meno alle porte (32), ponendo le due condizioni per l'ingresso in esso, ch'è quanto dire per la conversione: penitenza e fede. Non una delle tante pratiche esteriori della tradizionale ed ormai farraginosa spiritualità giudaica, ma qualcosa di profondamente intimo e spirituale: la penitenza, che rompe nettamente col peccato e quindi dispone l'animo a Dio, e la fede che, mediante l'adesione all'evangelo di Cristo, porta Dio nel cuore dell'uomo. Il passaggio sta tutto qui: da una condizione spirituale ad un'altra, che lo stesso Lutero indicava come "transmentatio" e questa come "transitus mentis et phase (33): un passaggio, dunque, simile a quello della Pasqua (phase), una novità, una rinascita. L'insistenza sull'idea del transito porta la conversione, come già accennato, nella sfera concettuale del súbh, quasi come un tornar indietro, abbandonando la strada sbagliata per quella giusta, la cattiva per la buona. La conversione è allora un ritorno a Dio, un disfarsi di tutto ciò ch'è vecchio perché è peccato, ed un rivestirsi di quella sempre nuova eppur sempre immutabile novità ch'è Dio, il suo giudizio, il suo volere, il suo amore. È un transito che, lungi dal fermarsi alla fase dell'osservanza puramente legalistica, come vorrebbe la spiritualità - oggi non poco ammirata - di Qumràn, per un ritorno, in una forma più pura, alla legislazione mosaica(34), va invece tanto più in alto quanto più in basso. Là dove lo sguardo s'incrocia con quello di Dio e proprio con Dio si stringe il rapporto che giudaicamente si blocca sulla sua legge.
Decisiva è la seconda condizione, la fede. Che poi, così com'è esposta da Mc, non è senza problemi. Si sa che la fede è un concetto non univoco, nel senso che ha per oggetto o una dichiarazione o il dichiarante, ma anche nel senso che l'oggetto può considerarsi specifico della fede religiosa o teologica se l'espressione letteraria è "credere in", più vago o comunque meno specifico se l'espressione è "credere a". In Mc 1,15 pistèuete en to euangelìo indica il primo caso, eco della costruzione ebraica b`, che però non indica l'oggetto del credere nella persona di Cristo, bensì nel suo evangelo. Ci si può chiedere se Mc riconosca ed in pari tempo identifichi l'evangelo nella persona stessa di Cristo(35). Qualunque sia la retta interpretazione del brano, una cosa è fuori d'ogni dubbio: per convertirsi a Cristo e per accedere al regno, la penitenza è il primo passo, ma non sufficiente se la penitenza stessa non s'integra e non si perfeziona nella fede in Cristo e nella sua Parola.
4 - Occorre scavar ancora nel concetto neotestamentario di conversione, sia per aver conferma di quanto già acquisito, sia per scoprirvi qualche altra sfumatura.
Anzitutto un rilievo: il quarto evangelista sembra ignorare gl'inviti di Gesù alla conversione; lo fa sia perché tali inviti son già stati richiamati dai Sinottici, sia perché scrive in un momento di già avvenuta conversione, durante il quale la necessità impellente è quella di rimaner saldi nella fede contro il diffondersi del suo pericolo mortale, la gnosi. Ciò nonostante, non è del tutto esatto il dire che Giovanni ignora perfino la parola conversione. Essa affiora nell'Apocalisse sotto alcune forme verbali di metanoèin (36) e poco importa che il significato di esse metta in evidenza solo il primo elemento della conversione, la penitenza. Il fatto stesso del pentirsi comporta, non in assoluto bensì nell'ambito mentale del cristiano, un motivo formale scontato: quello del "surgam et ibo ad patrem meum", il ritorno all'amplesso del Padre.
Nell'Apostolo delle genti il concetto s'arricchisce e si modifica. Paolo non si ferma al rifiuto del peccato e all'affermazione del ritorno a Dio, ma tutto questo innesta sul processo rigenerativo della creazione nuova. A lui interessa soprattutto il fatto che i battezzati son "i familiari di Dio" (37), "il tempio santo di Lui, dove abita lo Spirito Santo"(38). In ognuno di essi rivede la sua stessa esperienza di convertito, cioè intimamente rinnovato e rinato a novità di mente e di costumi(39). Rispetto al proprio passato, nonché a quello dei suoi seguaci, il definirsi creature nuove sarebbe riduttivo di quel fenomeno ineffabile ed enorme ch'egli definisce kainè ktísis, non creatura ma creazione nuova, opera di Cristo, perché Cristo è fonte originaria ed inesausta di vita e scaturigine della nuova Alleanza (40). Son queste le premesse dalle quali scaturisce in Paolo l'idea-luce della rigenerazione: un rinascere dallo Spirito e rinnovarsi senza soluzione di continuità in esso, "in un bagno di rinascita e di rinnovamento", non per ricuperare una condizione andata perduta, ma per esser costituiti nello stato assolutamente nuovo della "grazia, che ci fa eredi secondo la speranza della vita eterna"(41).
Nel quadro generale della rigenerazione, ma parlandone pochissimo, Paolo inserisce il discorso sulla conversione. Ed anche in quel pochissimo non è facile riconoscere le componenti formali della conversione secondo i Sinottici. La metànoia non è per lui un passaggio qualunque da uno stato ad un altro, dal paganesimo al cristianesimo; ma un passaggio qualitativo, dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita, dalla non-conoscenza "alla conoscenza della verità" la metànoia diventa così lo strumento di tale conoscenza(42). Il passaggio c'è, vero reale indiscutibile, ma è rinascita: Dio, cioè, che trasferisce i battezzati dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, dal loro personale esser tenebra alla condizione personale di "luce nel Signore" perché "trasferiti nel regno del suo amore" (43).
Quella, insomma, che gli altri agiografi neotestamentari son soliti chiamare conversione, è detta da Paolo, come s'è visto, ora rigenerazione/rinascita, ora e non meno frequentemente vita. Vita soprannaturale. Per lui essa è il trionfo del soprannaturale nella quotidianità del battezzato. Il quale, se dal punto di vista naturale è già vivente e come tale si muove sente respira ama e muore, dal punto di vista soprannaturale diventa titolare, col battesimo, d'una vita nuova, di segno totalmente ed infinitamente altro, imperitura immarcescibile eterna. È infatti la vita stessa di Cristo (44), sviluppatasi dall'innesto battesimale su di Lui(45); è un vivere in Lui e di Lui, in piena partecipazione e comunione con Lui: e per questo da Lui si riceve la sua stessa vita (46). Ognuno può pertanto ripetere con Paolo: "Non più io vivo, ma Cristo vive in me e la mia stessa vita carnale è vita nella fede di Cristo" (47).
5 - Dopo così alte e vertiginose attestazioni di ciò che nelle fonti della dottrina cattolica è la conversione, si stenta a rimettere gli occhi su un testo com'è quello dal quale ho preso l'avvio: gli occhi, infatti, incantati da tanta bellezza e da altezze tanto sublimi, sembran automaticamente chiudersi dinanzi a qualunque loro contraffazione, foss'anche puramente materiale, non voluta o addirittura nemmeno come tale percepita. Concedo ogni possibile attenuante, ma non che si dia un effettivo "passaggio da una Chiesa prevalentemente di tradizione ad una Chiesa prevalentemente di conversione". L'abitudine ormai diffusa di parlar a ruota libera, senza verificare le proprie asserzioni sul contenuto delle fonti, mette in bocca perfino a pastori d'alto rango e di lungo corso non poche ambiguità. Una di esse è proprio la conversione in antitesi alla tradizione.
Da quanto precede si dovrebb'aver capito che la conversione attiene alla fede e si verifica come un fatto di fede. Sia nel suo aspetto prevalentemente negativo - abbandono della vita peccaminosa - sia in quello positivo d'inserimento in uno stato di testimonianza e d'esperienza cristiana, non si dà conversione se non come un fatto di fede. Perfino nel caso d'una conversione abitualmente vissuta come abbandono del meno in vista del più, determinante è la fede. Nel dir fede, escludo in assoluto una nozione di essa al di fuori o contro quella teologica: sentimentalismo, fideismo, superstizione, e via dicendo. Solo in codesto senso deteriore il passaggio di cui sto negando la possibilità potrebbe rivelarsi possibile. In genere, la fede è l'atteggiamento di chi rispetta il significato originario del lemma e crede all'altrui parola; pertanto, anche nel suo significato specificamente teologico, la fede è l'adesione ad una parola proveniente dall'esterno. Credo perché, sotto l'influsso della grazia, aderisco alla parola di Dio, a quanto Dio ha rivelato, non perché la sua rivelazione abbia un'evidenza intrinseca, ma perché trae dall'autorità stessa di Dio rivelante una sua estrinseca evidenza. Ciò che Dio ha rivelato è contenuto nell'Antico e nel Nuovo Testamento, nonché in una Tradizione vivente ed attuale se ed in quanto inde ab initio fin ad oggi ininterrotta. Credo oggi - e crederanno domani le nuove generazioni - tutto e solamente quello che Gesù, l'eterna Parola di Dio, rivelò nel tempo della sua permanenza in mezzo a noi e gli Apostoli trasmisero alla Chiesa nascente e questa accolse per ritrasmetterlo. Chi pertanto si converte esprime la sua adesione a quel Cristo che rivive nella Tradizione costante di quanto rivelò in vita e che la Chiesa ci ripropone a credere. Si potrebbe, pertanto, sostenere che chi si converte, in ultim'analisi si converte alla Tradizione.
Per non destituir in assoluto la dissociazione di conversione e tradizione d'una qualche attendibilità, volutamente l'ho collegata a quel "s'è sempre fatto così", che potrebb'esser tradizionalismo, ma non tradizione autentica. E può darsi che il convertito non nutra nemmeno nell'anticamera del cervello una sua adesione al "s'è sempre fatto così". Quando però la Tradizione è quella autentica, con la T maiuscola, quella che porta nell'oggi il valore d'ieri e lo proietta verso il domani, allora Tradizione e conversione son conglutinate insieme dalla fede. E chi si converte non dà affatto un calcio alla Tradizione, ma l'assume nella propria vita.
B. GHERARDINI
(1) IISm 12,1; ISm 7,5; I Re 21,27; Lv 5,5; 16,21; si vedano i salmi penitenziali, spec. 25,7; 32,5; 38,19; 41,5; 51,6; 65,4.
(2) HOLLADAY W. L., The root súbh in the Old Testarnent, Leida 1958. Da súbh deriva súbadh, cui si può riconoscere il significato di vera conversione, com'esigenza d'allontanarsi dall'indirizzo morale finora seguito ed assunzione di quello stabilito da Dio, in piena adesione ed obbedienza al suo volere divino.
(3) IISm 12,16; 21,1; Os 5,6; Sof 2,3.
(4) Am 5, 4-6: Is 55,6: Os 10,12.
(5) Sam 5,14; Is 1,17; Sal 34 (33) 15; 37 (36) 27; in questo senso insistono specialmente Geremia ed Ezechiele.
(6) Ger 4,14; 7,3; 26,13; Ez 18,31; 36,25; Is 1,16.
(7) Is 31,6; Ger 3,14-22; 4,1; Ez 14,6; 18,30; Os 14,2; Zac 1,3.
(8) Ez 18.
(9) Ger 31,18; cfLam 5,21; Sal 80 (79),4.8.20; Zac 1,3.
(10) Ger 17,14.
(11) "Sal 127 (126) 1. L'azione umana, da sola, è priva di valore ed è sterile (Dt 8,17; Prov 3,5).
(12) Am 1,2: Ger 21,30.
(13) Os 6,11; 11,3.11.
(14) Ger 15,19; 17,14; 24,7; 31,31; 32,39; Ez 11,19; 36,26.
(15) Ger 15,19 cui fa eco Lam 5,21: "Convertici a te, Signore, e noi ci convertiremo".
(16) Mc 1,4-8.14; Mt 3, 1-12; 4,17; Le 3,3-18; Gv 1,19-27.29-34.
(17) Lc 5,32; Mt 9,13; Mc 2,17.
(18) Mc 6,12.
(19) Lc 24,47; Att 17,30.
(20) Cf Mt 22,1-14; 5,3-16.
(21) Lc 18,10-14.
(22) Mt 18,3.
(23) Gv 3,5-7.
(24) Is 5,24-25; cf Is 1,4; 8,1ss; 9,8-17; 47,14; Es 15,7; Gioel 2,5; Nahum 1,10; 2Re 9,37; Ez 6,14; Ger 4,24 et alibi
(25) Mt 3,10.12; Le 3,9.
(26 ) Lc 3,4-6; cf Is 40,3-5.
(27) L'espressione è un semitismo per indicare la conversione come inizio d'una vita nuova.
(28) Cf Dan 4,24; Is 58,7; Sir 3,10.
(29) Lc 3,11: "Qui habet duas tunicas dei non habenti; et qui habet escas, similiter faciat".
(30) Ai Farisei ed ai discepoli di Giovanni che l'interpellano sul digiuno, Gesù risponde ch'esso è intempestivo per i figli della camera nuziale" (SWETE H. B., The Gospel according to St. Mark, Londra 1920, p. 44,), finché lo Sposo è presente. Un digiuno pubblico (Meghillat Ta'anit) nei sette giorni della festa nuziale è infatti impensabile, ed altrettanto nel tempo del Messia, ch'è il tempo della gioia.
(31) Mt 18,3-10.
(32) C'è una discussione sul perfetto di eggbìzo (Mc 1,15) che gli uni traducono "venuto", gli altri "imminente". La presenza fisica di Gesù dovrebbe troncare la discussione sul nascere.
('33) LUTERO M., Resolutiones disputationum de indulgentiarum virtute, 1518,
WA 1,530: "Poenitentiam agite, quod rigidissime transferri potest transmentamini, i. e. mentem et sensum alium induite, resipiscite, transitum mentis et phase facite".
('34) 1QS (Manuale della disciplina) 5,8ss, in BRAUN H., Spatjudisch haretischer and fruhchristlicher Radikalismus, Tubinga 1957, volume primo p. 25; e volume secondo p. 17.
(35) Non mancan esegeti d'ieri e d'oggi che danno a en to il significato di "per mezzo dell'evangelo" ed indirizzano la fede sulla persona di Cristo. Ottimo il fine, ma temo che letterariamente la proposta non possa sostenersi. L’invito alla penitenza solo in Mc ha la connessione esplicita con quello alla fede; Mt, sia quando lo fa proclamare da Gesù (4,17), sia quando lo mette sulle labbra del Battista (3,2), sia in altri contesti, tace il richiamo esplicito alla fede, a meno che tale richiamo non risuoni nella frequente associazione dell'evangelo al regno di Dio.
(36) Soprattutto in matanòeson d'Ap 2,5.16 e 3,3; in metanoèse, metanoésai e metanoèsousín d'Ap 2,21; in metanoèsan d'Ap 9,20 e 16,9.
(37) Ef 2,19.
(38) 1Cr 3,16; Ef 2,22.
(39) Rm 6,4; 7,6.
(40) Gal 6,15; 1Cr 11,25; 2Cr 3,6; 5,17.
(41) Tit 3,5-7.
(42) 2Tm 2,25: "...cum modestia corripientem eos, qui resistunt veritati: ne
quando Deus det illis pwnitentiam - metànoiam - ad cognoscendam veritatem".
(43) 1Ts 5,4-5; 2Cr 6,14; Col 1,12-13.
(44) 2Cr 5,14-15: "Si unus pro onmibus mortuus est, ergo omnes mortui sunt; et pro omnibus mortuus est Christus, ut, et qui vivant, non sibi vivant, sed ci qui pro ipsis mortuus est et resurrexit".
(45) Rm 6,5. Il testo allude alla conseguenza di codest'innesto: "Si ením compiantati facri sumus similitudini mortis eius, simul et resurrectionis erimus".
(46) 2Cr 4,10-ll; 1Cr 15,22; Rin 6,8.10; Gal 2,19-20; Col 3,3; 2Tm 1,2.
(47) Gal 2,20.
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[Fonte: Divinitas, Rivista Internazionale di Ricerca e di Critica Teologica, n.3/1012, pag.263-377]
2 commenti:
"Un aspetto, dicevo, e non certamente il peggiore, nonostante il senso restrittivo che tradizione riceve dal suo contrapporsi a conversione."
Oggi non è proprio il concetto di tradizione ad essere stato cambiato, per cui risulta in "divenire" anche ciò che non dovrebbe?
Ci ristoriamo con questo contemplare e parlare genuinamente cattolico!
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