DOMENICA 3 APRILE 2022
INCONTRO DEI RAGAZZI E DELLE FAMIGLIE IN PREPARAZIONE ALLA SANTA PASQUA
ISAIA 5, 1-7 - GIOVANNI 15, 1-11
Care Mamme e cari Papà,
Carissimi amici, socii e comites,
nella domenica di Pasqua e in tutti gli otto giorni successivi, nella Liturgia risuonerà questa espressione tratta dal Salmo 118:
“Haec dies quam fecit Dominus exsultemus et laetemur in ea. Alleluia.
“Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso. Alleluia!” (Salmo 118, 24).
Così sapientemente la Liturgia ha adatto l’antica profezia, contenuta in questo ultimo dei cinque Hallel, i Salmi di esultanza e ringraziamento che, ancor oggi, ogni pio ebreo recita al termine di ogni festività giudaica.
Il testo ebraico, infatti, coniuga al futuro sia il verbo rallegrarsi che quello esultare:
זֶה־הַ֭יֹּום עָשָׂ֣ה יְהוָ֑ה נָגִ֖ילָה וְנִשְׂמְחָ֣ה בֹֽו׃
zeh-hay-yō-wm ‘ā-śāh Yah-weh nā-ḡî-lāh wə-niś-mə-ḥāh ḇōw
“Questo è quel giorno fatto da Yahweh, ci rallegreremo e saremo esultanti in esso. Alleluia!” (Salmo 118, 24).
Anche Gesù ha cantato questo antico Hallel prima dell’inizio della sua Passione. L’Evangelista Marco annota, infatti: “Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi” (Marco 14, 26).
Il tempo del futuro “ci rallegreremo e saremo esultanti”, nella Pasqua del Signore Risorto, sono diventati, in realtà, il tempo del presente, del nostro presente e dell’eterno presente di coloro che sono di Cristo.
Per questo, noi ora diciamo e cantiamo: “Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso. Alleluia!” (Salmo 118, 24).
Perché, però, dovremmo rallegrarci ed esultare per un evento tanto lontano nel tempo come la Resurrezione del Signore dopo la sua Passione e Morte; per un evento così misterioso nelle sue dimensioni e, insieme, incomprensibile o, persino, irrilevante in questa nostra società, dove noi contemporanei pur di non morire abbiamo imparato a smettere di vivere?
Che significato può ancora avere parlare di morte e vita e vita ancora, al di là di quella porta oscura, che umanamente è la tragedia della morte in un tempo - il nostro tempo! - che ha reso la nuda vita biologica le scopo supremo del vivere, anzi l’unico possibile significato del vivere e dell’esistere?
Perché, ancora, esultare e rallegrarci?
In questo nostro tempo in cui - come ha brillantemente scritto un antropologo italiano - abbiamo assistito a una concatenazione di eventi perfettamente coerente, che rivela la nascita di un vero e proprio credo religioso, laico, di massa, dove non c’è nulla di trascendente e metafisico, una sorta di religione protestante 2.0, dove ci sono forti elementi etici, ma non c’è una visione né metafisica né trascendente.
Questo nuovo credo ha il suo credo dogmatico, la scienza; i suoi profeti ed evangelisti, gli scienziati, specialmente se virologi; i suoi simboli d’identità, la mascherina; il suo certificato di battesimo, il green-pass; i suoi comandamenti, il distanziamento sociale e i gesti barriera; i suoi rituali, l’igienizzazione; i suoi sacramentali, il gel igienizzante e il tampone; il suo sacramento, il vaccino; i suoi peccati mortali, l’assembramento e il dissenso; il suo comandamento supremo: “vaccinarsi è un atto d’amore”; e anche i suoi castighi, la positività; e infine il suo inferno, l’esclusione sociale (cfr. Martino Nicoletti, Covidismo 2.0: La nuova religione globale, Bologna, 2022).
Perché, ancora, esultare e rallegrarci?
Il popolo ebreo dopo la Pasqua di liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, attraversato il Mar Rosso, in realtà trovò solo il deserto, per ben quarant’anni, e non una terra dove scorre latte e miele.
Non è forse così anche per noi credenti che, dopo ogni Pasqua di Resurrezione, ci ritroviamo a fare i conti con una storia che è fatta sì di gioie e speranze, ma anche di angosce, di sofferenze, di miserie, di violenza, di barbarie e ancora di morte?
Perché, infine, esultare e rallegrarci?
A questa domanda, sant’Agostino d’Ippona così risponde: “Se Cristo dormì (nel sonno della morte per tre giorni) è perché stessimo svegli noi, Lui che era morto perché fossimo vivi noi” (Sermo 221, 4).
A tanti secoli, ormai, da quell’evento storico che è stata la vita terrena di Gesù di Nazareth, il suo annuncio per gli uomini, i tragici fatti della sua dolorosissima Passione, della sua morte in Croce e della sua gloriosa Risurrezione, possiamo e dobbiamo allora chiederci che senso ha “essere svegli” grazie al sonno mortale dell’Uomo della Croce; “essere vivi”, in virtù della sua Passione, Morte e Resurrezione. E, dunque, “rallegrarci ed esultare”!
Nessun altro, se non Gesù stesso, può offrirci una risposta sensata e convincente a queste domande!
La Croce di Cristo, che nel Venerdì Santo noi innalzeremo come “vessillo regale, unica speranza dell’uomo e per la quale ai pii è donata la grazia e ai colpevoli è perdonato l’errore” (cfr. Vexilla Regis), infatti, è stata, è e sempre rimarrà “uno scandalo e una stoltezza” (cfr. 1 Lettera ai Corinzi 1, 23) per chi rifiuta e nega la solo Salvezza che viene da Dio e il solo Salvatore che è Cristo Gesù.
Solo Cristo, dunque, può offrirci la risposta al senso dell’ “essere svegli” e dell’ ”essere vivi” per noi e che è il frutto del grande Mistero Pasquale.
La risposta convincente e certa ci è offerta da Gesù stesso all’inizio del capitolo XV del Vangelo di San Giovanni
ἐγὼ εἰμί, “Io sono”. Queste le prime e semplici due parole del brano evangelico.
Gesù sta vivendo le ultime ore che precedono il suo arresto, la sua Passione e la sua Morte, e “sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Giovanni 13, 1).
Sì! Proprio questo amore vissuto e portato - come dice il testo greco: εἰς τέλος - fino alla compiutezza dei suo ultimo obiettivo, consente a Gesù, infine, di rivelare ai Dodici la sua piena identità: ἐγὼ εἰμί, “Io sono”!
Nell’Antico Testamento, il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe si era fatto conoscere a Mosè, nell’epifania del Roveto Ardente, con le parole אֶהְיֶה אֲשֶׁר אֶהְיֶה ʾehyeh ʾašer ʾehyeh - “Io sono Colui che sono” (Esodo 3, 14), come vengono comunemente tradotte, ma che possono essere più letteralmente interpretate in: “Io sarò Colui che sarò”.
Ecco, Gesù con due sole e semplici parole comunica ai Dodici che questo “Io sarò Colui che sarò” è, ora, compiuto perfettamente in Lui: ἐγὼ εἰμί, “Io sono”!
Con queste due sole e semplici parole, Gesù indica ai Suoi che tutta la Storia di Salvezza vissuta fra Dio e il popolo ebraico è ora riassunta, assunta e riferita a Lui, perché “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni 14, 9) e “Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi” (Giovanni 15, 9).
Questa espressione teologica ἐγὼ εἰμί, “Io sono”, nel testo del Vangelo di San Giovanni, compare da sola cinque volte; poi, invece, la troviamo altre sette volte - e non a caso proprio sette volte! - accompagnata da sette definizioni figurative: “Io sono il pane della vita”; “Io sono la luce del mondo”; “Io sono la porta”; “Io sono il buon Pastore”; “Io sono la resurrezione e la vita”; “Io sono la via, la verità e la vita”; e, infine, “Io sono la vera vite”!
Sette volte, appunto, come i sette giorni della Creazione biblica, perché solo l’”Io sono” di Gesù può ri-creare e “restaurare” - come spesso si esprimono i Padri della Chiesa - quell’originale e provvidenziale disegno di Dio per l’Umanità, che aveva trovato il suo “ostacolo d’origine” nella colpa originale di Adamo ed Eva e, con loro, dell’intera Umanità.
La vera missione di Gesù, il “Figlio di Dio” e il “Figlio dell’Uomo” - come annunciato dai Profeti e dai Salmi - è quella di ri-creare quell’Umanità e quella Creazione, che in Adamo era stata dis-sacrata del suo originale progetto divino.
La vera missione di Gesù, il “Figlio di Dio” e il “Figlio dell’Uomo” - come annunciato dai Profeti e dai Salmi - è quella di re-staurare quell’Umanità e quella Creazione che in Adamo era stata de-strutturata della sua originale dignità.
La vera missione di Gesù, il “Figlio di Dio” e il “Figlio dell’Uomo” - come annunciato dai Profeti e dai Salmi - è quella di tra-sfigurare quell’Umanità e quella Creazione, che il peccato di Adamo aveva sfigurato.
La vera missione di Gesù, il “Figlio di Dio” e il “Figlio dell’Uomo” - come annunciato dai Profeti e dai Salmi - è quella di restituire l’immortalità a quel’Umanità e quella Creazione, che il peccato di Adamo aveva reso irrimediabilmente mortale.
Ἐγώ εἰμι ἡ ἄμπελος ἡ ἀληθινή, “Io sono la vera vite”, dice Gesù nel testo di San Giovanni. Traducendo più fedelmente dovremmo meglio dire: “Io sono la vite, la vera” o anche “Io sono la vite, quella vera”!
Perché - possiamo chiederci - Gesù ha bisogno di chiarire che Lui non è solo la vite, ma è ἡ ἀληθινή, la vera vite, la vite, quella vera?
Isaia partecipa ai festeggiamenti di סֻכּוֹת Sukkot, la Festa delle Capanne.
Una festa ebraica durante la quale per sette giorni - ancora ai nostri giorni - gli ebrei vivono e festeggiano in capanne fatte di frasche d’albero e ricordano così i quarant’anni del viaggio nel deserto verso la Terra Promessa, dopo la liberazione dall’Egitto.
L’ultimo dei sette giorni, chiamato שמחת תורה Simchat Torah, è proclamata nelle sinagoghe l’ultima parte della Torah - i primi cinque libri dell’Antico Testamento - poi è usanza uscire per strada, portando i rotoli della Torah, cantando e ballando.
Possiamo immaginarci così il profeta Isaia giunto per far festa e mentre canta esultante: “Canterò per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna” (Isaia 5, 1 e ss.).
Quel canto e quella festa, tuttavia, volgono ben presto in tragedia perché la vigna - il popolo ebraico - dove Dio stesso “vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino” - ebbene sì! - quella vigna tanto amata e curata ha prodotto solo “uva selvatica”
Sì, “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.
Allora “il cantico d’amore per la sua vigna” diventa un vero e proprio grido di maledizione: “Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: […] La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia”.
La “vigna dell’Antica Alleanza” piantata di molte e scelte viti, che significava il patto mosaico fra Dio e gli uomini, è ora sostituita dall’unica e sceltissima Vite che si proclama: Ἐγώ εἰμι ἡ ἄμπελος ἡ ἀληθινή, “Io sono la vera vite”; “Io sono la vite, quella vera!”.
Sì, Gesù è la vite, la vera! Sì, Gesù è la vite, quella vera!
La vite che - a differenza di quella dei tempi del profeta Isaia - rimane per sempre e né può essere sradicata, né può essere più abbandonata, né può essere, infine, giammai, saccheggiata.
Questa vite, questa vite vera, è definitivamente di Dio, perché attraverso il suo stesso Figlio, Dio vive in essa!
Con il mistero dell’Incarnazione di Gesù, infatti, la promessa di Dio è divenuta irrevocabile, come è perfetta e indissolubile l'unità fra il Padre e il Figlio, unigenito della stessa sostanza del Padre.
Questo è il nuovo, grande e definitivo passo della Storia di Salvezza fra Dio e gli uomini e della Storia tout-court che si compie con l’Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di Gesù!
Questa vite, poi, ha un’altra caratteristica: ὁ πατήρ μου ὁ γεωργός ἐστιν: il Padre mio né il γεωργός, vale a dire, insieme il proprietario e colui che la coltiva e se ne prende cura.
Al posto della vigna devastata perché produceva uva selvatica, nel campo della Storia, Dio ha piantato il suo Figlio Gesù, la vite vera, da cui usciranno frutti nuovi e veri e non più, come dalla vigna di Giuda, spargimento di sangue e oppressione.
Questa vite, infine, ha un’ultima peculiarità: ἐγώ εἰμι ἡ ἄμπελος, ὑμεῖς τὰ κλήματα: Io sono la vite - dice Gesù di se stesso - voi i tralci - ripete Gesù anche a noi e oggi.
E “il tralcio” - ben lo sappiamo - “non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite”.
Così era, invece, capitato alla “vigna di Giuda”, al popolo ebraico, di cui parla Isaia alla metà del 700 a.c.: la prosperità materiale aveva generato il degrado spirituale e morale del Popolo Eletto, che Isaia denunciava con severe parole: “Guai a voi, gente peccatrice, popolo carico di iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti!
Avete abbandonato il Signore, avete disprezzato il Santo di Israele” (Isaia 1, 4).
Quella vigna, infatti, aveva prodotto uva selvatica e non vero frutto della vite. Quella vigna aveva tradito quelle dieci e sacre parole, i Dieci comandamenti, che Dio aveva inciso per Mosè e il suo popolo come Legge Divina, come confine eterno e insuperabile fra la Benedizione e la maledizione, fra la Vita e la morte.
Ecco, allora, che Gesù, la vite, quella vera, ripete per dieci volte - ancora una volta non è un caso! - lo stesso verbo che nel testo originale greco è il verbo μένω, che significa stare saldamente in, stare attaccati o come abbiamo ascoltato: rimanere!
“Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Chi rimane in me e io in lui. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore”.
Nell’Antica Alleanza le dieci parole del Decalogo donato da Dio a Mosè e al suo popolo dovevano essere e significare l’esclusivo “rimanere” del Popolo Eletto nella Verità di Dio e nella comunione con Dio.
Ora nella Nuova Alleanza scaturita dalla Passione, Morte e Resurrezione di Cristo è solo il rimanere in Gesù dei tralci - di noi suoi discepoli! di noi battezzati! - che può garantire che i frutti della vite siano molti e siano quelli buoni!
Ecco, allora di questi dieci “rimanere” proviamo a considerarne almeno tre.
Il primo: “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Giovanni 15, 5).
Commentando questa espressione di Gesù, sant’Agostino così scrive: “Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. (In Evangelium Sancti Iohannis Tractatus 81, 3).
Infatti: “Chi non rimane in me è buttato via, come il tralcio, e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco, e bruciano (Giovanni 15, 6).
E così, commenta ancora Agostino: aut vitis, aut ignis; si in vite non est, in igne erit: ut ergo in igne non sit, in vite sit! (Ibidem).
A te la scelta amico, a noi la scelta o amici: o la vite o il fuoco: se non siamo nella vite saremo nel fuoco; quindi, se non vogliamo essere nel fuoco, rimaniamo nella vite!
Il secondo “rimanete”: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto (Giovanni 15, 7).
L’espressione del testo originale greco ὃ ἐὰν θέλητε αἰτήσασθε καὶ γενήσεται ὑμῖν sarebbe meglio tradotto così: quello che volete chiederete e avverrà a voi così.
Nel linguaggio del Nuovo Testamento il verbo αἰτέω - che significa chiedere, richiedere, ma anche supplicare - è il verbo che propriamente indica la preghiera.
Come può - ci chiediamo - la linfa della vite passare ai tralci, e dunque comunicare quel flusso vitale che genera i frutti?
Come possiamo noi, tralci di quella Vite, quella vera, che è Cristo stesso, ricevere la sua vitale energia per portare molto frutto nella nostra vita?
La risposta di questo secondo “rimanere” è: la preghiera!
Come può la Parola Viva di Cristo trasmettere un entusiasmante vitalità a tutte le mie giornate?
La risposta è, ancora una volta è: la preghiera!
“Ascoltare, meditare, tacere davanti al Signore che parla è un'arte, che si impara praticandola con costanza” - scriveva Papa Benedetto XVI - “Certamente la preghiera è un dono, che chiede, tuttavia, di essere accolto; è opera di Dio, ma esige impegno e continuità da parte nostra; soprattutto, la continuità e la costanza sono importanti. […] Oggi i cristiani sono chiamati a essere testimoni di preghiera, proprio perché il nostro mondo è spesso chiuso all'orizzonte divino e alla speranza che porta l’incontro con Dio. Nell’amicizia profonda con Gesù e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, con la nostra preghiera fedele e costante, possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. Anzi, nel percorrere la via della preghiera, senza riguardo umano, possiamo aiutare altri a percorrerla: anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini” (Udienza Generale, 30 novembre 2011).
Sì, cari amici, l’abbiamo spesso dimenticato!
Forse per pigrizia o per quieto vivere per troppo tempo abbiamo evitato di domandarci: come prego io? Come preghiamo noi? Quale tempo dedico al rapporto con Dio? Si fa oggi una sufficiente educazione e formazione alla preghiera?
Gesù, oggi, ce lo ripete: quello che volete, chiederete e avverrà a voi così.
Nella preghiera, in verità, possiamo scoprire che fra le braccia del nostro Signore e Salvatore, possiamo sentirci sicuri.
Nelle preghiera possiamo scoprire che se lui ci custodisce, non abbiamo nulla da temere.
Se, invece noi l’abbandoniamo, allora non abbiamo più nulla da sperare!
Infine, il terzo e l’ultimo dei “rimanere”: il più breve e incisivo, ma che è al cuore stesso di quanto Cristo comunica agli Apostoli in quell’ultima sera prima della Passione; e oggi, comunica a noi.
Rimanete nel mio amore. μείνατε ἐν τῇ ἀγάπῃ τῇ ἐμῇ; ancora una volta da meglio leggersi: rimanete nell’amore a me!
Ai nostri giorni si fa un gran parlare di una fare in riferimento all’amore e addirittura si è parlato di una fare un qualche cosa come un “atto d’amore”.
Di più, sempre ai nostri giorni, alcuni grandi affaristi o addirittura grandi speculatori finanziari si autoproclamano “filantropi”; per non parlare di chi predica un amore cristiano che, in realtà, è solo un vago sentimento universalista, come se l’amore fosse questione di quantità o estensione.
Già ai suoi tempi, e siamo a metà del 1800, il grande teologo inglese, San John Henry Newman così osservava: “Alcuni dichiarano con magniloquenza di amare tutta quanta la razza umana con un affetto onnicomprensivo, di esser amici di tutta l’umanità e cose simili. A che cosa pervengono queste vanagloriose professioni? Che questi tali hanno certi sentimenti di benevolenza verso il mondo – sentimenti e niente più – niente più che sentimenti instabili, il mero frutto di una immaginazione irrazionale, frutti che nascono soltanto quando le loro menti sono sovreccitate e poi, senza fallo, vengono loro meno nell’ora del vero bisogno. Questo non è amare gli uomini, non è altro che cianciare di amore” (Parochial and Plain Sermons, Christian Classics, Oxford, 1966-1968, p. 55).
Nella cultura classica come nell’Antico Testamento, l’amore derivava dalla proporzione e intensità di amore che si aveva verso se stessi.
Come, infatti, recita il comandamento contenuto nel Libro del Levitico: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Levitico 19, 18).
Nell’illuminismo europeo l’amore è diventato l’imperativo categorico di agire “in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo” (Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, Torino, 1995, p. 88).
E ai nostri giorni che possiamo ancora intendere di questo: rimanete nell’amore?
Un filosofo contemporaneo ha acutamente osservato: Viviamo in un mondo a capitalismo integrato, nel mondo della mercificazione totale. In un globalitarismo, che non è altro che un nuovo totalitarismo glamour omniavvolgente, dominato dal politicamente corretto e moralmente corrotto, guidato da una elitaria gender-crazia del neutro, che ha minato i fondamenti del rapporto interpersonale, rendendo ogni cosa e ogni persona solo e soltanto una merce, pertanto vendibile e acquistabile (cfr. Diego Fusaro, Il nuovo ordine erotico. Elogio dell’amore e della famiglia, Milano, 2018, pp. 11-24).
Carissimi amici,
di quale “rimanere nell’amore” invece, e, dunque, di quale Amore ci parla oggi Gesù?
L’Amore di Cristo è, innanzi tutto, quello che Lui ha ricevuto da Dio stesso e ha condiviso con i suoi discepoli e ora con noi: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Giovanni 15, 9).
Gesù, tuttavia, non ha solo condiviso un Amore, quello del Padre e del Figlio unigenito per le sue creature, ma si è fatto egli stesso Amore nella sua Passione e Morte, perché “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Giovanni 15, 13).
Ecco, infine, l’ultima risposta al nostro perché “rallegrarsi ed esultare” nell’ormai prossima Pasqua.
Ci rallegriamo ed esultiamo, perché abbiamo creduto e crediamo all'amore di Dio che si è pienamente manifestato nella Passione, Morte e Resurrezione di Gesù!
Ci rallegriamo ed esultiamo, perché abbiamo in noi quella gioia che solo Cristo può dare, e lui solo - come dice Gesù ai discepoli - può donare una ἡ χαρὰ πληρωθῇ, una gioia pienamente realizzata: “La mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”
Sì! Noi crediamo all’Amore: così, possiamo esprimere la scelta fondamentale della nostra vita cristiana.
Sì! All’inizio del nostro essere cristiani, infatti, non c’è infatti una decisione etica o una grande idea.
All’inizio della nostra vita cristiana c’è un incontro con un avvenimento, la nostra Redenzione e la nostra Salvezza. Un incontro con l’Amore!
All’inizio della nostra vita cristiana c’é una Persona, Gesù il Risorto, che dando la sua Vita per noi dà alla nostra vita un nuovo orizzonte.
Questo nostro incontro con Cristo, il Risorto, ci salva dall'oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, ci consacra all'amore di Dio Padre e ci unisce nella comunione dei santi.
Questo nostro incontro con Cristo, il Risorto, è per noi fonte di luce e di gioia piena, perché sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, dona la gioia agli afflitti; dissipa l'odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace.
Questo nostro incontro con Cristo, il Risorto, ha acceso in noi una luce che mai si spegne, e ci ha spalancato un giorno che non conosce tramonto.
Sì! Nella sua Pasqua e nella nostra pasqua, la luce del Re eterno, Gesù il Risorto, ha vinto le tenebre del mondo.
Sì! Nella pienezza di quell’Amore e di quella gioia vera che solo la vite vera, la vite quella vera, può dare ai suoi tralci - a noi! - allora ben presto canteremo:
“Haec dies quam fecit Dominus exsultemus et laetemur in ea. Alleluia!
“Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso. Alleluia!” (Salmo 118, 24).
1 commento:
Molti, specialmente le donne, cadono nel grave errore di credere che il servizio che noi rendiamo a Dio senza piacere, senza tenerezza di cuore e senza sentimento, sia meno gradito alla Maestà divina; al contrario, le nostre azioni sono come le rose che, quando sono fresche, sono più belle, quando invece sono secche emanano un profumo più acuto: lo stesso avviene per le nostre opere; quelle fatte con tenerezza di cuore piacciono più a noi, dico a noi, perché noi guardiamo soltanto il nostro piacere; quelle invece compiute con aridità e sterilità, sono più profumate e hanno più valore davanti a Dio.
(San Francesco di Sales)
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