“VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”
Versailles-Parigi 4-5-6 gennaio 2013
resoconto di Cristina Siccardi
Alessandro Fiore ha chiuso il primo giorno compiendo una esaustiva rassegna sui dibattiti e sulle pubblicazioni sul Concilio Vaticano II che in questi ultimi anni hanno caratterizzato il panorama intellettuale italiano, sollecitato anche dal celebre discorso del 22 dicembre 2005 di Benedetto XVI alla Curia romana quando il Sommo Pontefice parlò delle diverse ermeneutiche dell’Assise.
Il 2009 è stato definito «l’année Gherardini», nel marzo di quell’anno, infatti, uno dei teologi più grandi della contemporaneità, Monsignor Brunero Gherardini, ha pubblicato il celebre libro Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, dove l’autore, con approfondite argomentazioni ha posto in evidenza l’importanza di mettere sul tavolo la questione Concilio, e da allora ha pubblicato altri libri dello stesso tenore. Il suo appello non è rimasto senza risposta: nel dicembre 2010 la congregazione dei Francescani dell’Immacolata ha organizzato un importante Congresso di studi sul Concilio Vaticano II, dove sono intervenuti Padre Serafino Lanzetta, Monsignor Luigi Negri, Monsignor Brunero Gherardini, i professori Yves Chiron e Roberto de Mattei, Monsignor Athanasius Schneider, don Nicola Bux, padre Florian Kolfhaus e il Cardinale Velasio De Paolis [p. Rosario Sammarco].
Nel 2011 è stato pubblicato Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta di de Mattei che con innumerevoli documenti è stata ricostruita la storia dell’Assise, documenti che dimostrano la volontà di un chiaro spirito di rottura con la Tradizione della Chiesa. Nello stesso anno don Pietro Cantoni, che venne ordinato sacerdote da Monsignor Lefebvre ed ebbe come maestro all’Università Lateranense Monsignor Gherardini, ha scritto il libro Riforma nella continuità. Vaticano II e l’anticonciliarismo per rispondere polemicamente alle affermazioni di Gherardini nel tentativo di dimostrare la continuità del Vaticano II con la Tradizione della Chiesa alla luce dell’ermeneutica della riforma nella continuità proposta da Benedetto XVI. Il testo ha naturalmente suscitato la reazione del maestro Gherardini, attaccato personalmente dal suo antico allievo, reazione che ha prodotto un nuovo libro dell’insigne teologo, dal titolo Il Vaticano II. Alle radici d’un equivoco. Nel mese di ottobre Roberto de Mattei ha pubblicato Apologia della Tradizione, dove l’autore fa notare come in più episodi della storia della Chiesa ci si è opposti alle decisioni e agli insegnamenti delle autorità ecclesiastiche in nome della Tradizione. Nel 2012 padre Lanzetta, teologo dei Francescani dell’Immacolata, ha pubblicato Iuxta modum. Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione della Chiesa, dove sottolinea la necessità di ricondurre il Concilio nel suo giusto alveo, togliendo quel marchio di «superdogma» che gli è stato esageratamente imposto.
Il dibattito sul Concilio Vaticano II, ha ancora affermato Fiore, si svolge anche su Internet, dove si possono trovare molti articoli di diversi autori. È indubbio che ci sia stata una benefica influenza delle discussioni tenute tra la Fraternità San Pio X e Roma sui dibattiti del Concilio. Lo storico della Chiesa Giovanni Miccoli, di chiare simpatie progressiste, ha scritto un libro La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma; l’autore mostra la sua preoccupazione per un’operazione a Roma di restaurazione contro i progressi del Concilio, utilizzando lo strumento della FSSPX, Fraternità peraltro elogiata da Monsignor Gherardini nel suo saggio Quod et tradidi vobis. Anche il domenicano padre Giovanni Cavalcoli con il suo libro Progresso nella continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del post-concilio ha affermato di voler offrire un contributo utile alle discussioni fra Roma e la Fraternità stessa. «Si può dunque dire che la Fraternità gioca un ruolo molto importante per fare avanzare il dibattito, per animare una discussione costruttiva, per esporre pubblicamente le sue posizioni e per avvalorare la sua stessa esistenza». È chiaro che si è ormai aperta una strada che non potrà più essere chiusa, una via che si oppone all’idea di un Concilio carismatico e mistico di chiara impostazione soggettivistica, che tende a mitizzare, se non ad adorare, il Vaticano II a discapito di tutti gli altri Concili della storia. Nelle considerazioni conclusive Fiore ha affermato che il «Concilio Vaticano II non è più “intoccabile”, non è più un super-Concilio. Anche al di fuori del tradizionalismo si notano sempre più le carenze», certi teologi non esitano a formulare delle critiche radicali e coloro che vogliono difendere a tutti i costi l’ortodossia del Concilio spesso ammettono le deficienze del piano pastorale, ovvero del livello specifico del Vaticano II, che ha mancato la sua finalità propria e ha formulato delle attestazioni ambigue. Don Cantoni, per esempio, nel suo libro Riforma nella continuità. Vaticano II e anticonciliarismo, riconosce che nei documenti non è stato detto nulla circa i pericoli del laicismo degli Stati. Padre Lanzetta parla sia di un certo «pluralismo contraddittorio» nel Concilio, dove non sono chiari i limiti della pastoralità e della dogmaticità, sia di discontinuità teologiche. Padre Kolfhaus rimarca l’ottimismo dei padri conciliari che hanno rinunciato alle definizioni dottrinali e alle solenni condanne. Padre Cavalcoli ammette che il linguaggio del Concilio manca di precisione, univocità e chiarezza «che si trova nei Concili precedenti», un linguaggio che ha finito per dividere in qualche modo la Chiesa. Alessandro Fiore ha ancora affermato che il «Vaticano II è un Concilio “mancato”: voleva essere pastorale, e non è stato pastorale. In generale si percepisce un bisogno sempre più grande di chiarezza dottrinale dopo la confusione creata dal Concilio e il dopo Concilio». Monsignor Gherardini supplica il Santo Padre di mettere chiarezza in quale misura il Concilio è stato fedele alla Tradizione; padre Lanzetta desidera un documento metafisico-dogmatico del Magistero per definire l’interpretazione corretta del Concilio; Monsignor Schneider ha proposto un Sillabo degli errori circa l’interpretazione del Concilio Vaticano II; de Mattei sottolinea l’urgente necessità di un nuovo Sillabo o di una nuova Professio fidei. «È chiaro che le discussioni teologiche dureranno ancora per molto tempo, ma a me sembra, ed è quello che volevo dimostrare, che diventiamo sempre più consapevoli, almeno in alcuni ambienti, non solamente dei mali che affliggono la Chiesa, ma anche delle cause di questi mali e delle responsabilità dell’ultimo Concilio. Non possiamo che desiderare che un giorno le autorità riconoscano tutto ciò e vengano applicati i rimedi - quale rimedio migliore se non la Tradizione? - per il bene della Santa Chiesa».
Sabato 5 gennaio è stato preso in esame il punto di vista dottrinale e sono intervenuti padre Patrice Laroche, professore del Seminario tedesco di Zaitzkofen («Un tentativo di dogmatizzare il Concilio Vaticano II»); il professor Giovanni Turco dell’Università di Udine («La modernità e il Vaticano II); padre Yves le Roux, direttore del Seminario di Winona negli Stati Uniti («Un Concilio non come gli altri»); padre Franz Schmidberger, Superiore del distretto di Germania («L’ermeneutica della continuità o della rottura?»); padre Jean-Michel Gleize, professore del Seminario di Écône («Due concezioni di Magistero») e padre Alain Lorans, redattore di D.I.C.I. («Lo sguardo della fede e la lezione dei fatti»).
Padre Laroche ha spiegato che il tentativo di dogmatizzare il Concilio Vaticano II è viziato fin dalla partenza. «Alla domanda sui rapporti tra Roma e la FSSPX, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Monsignor Gerhard Ludwig Müller ha affermato, nell’autunno 2012 in un’intervista alla radio tedesca Norddeutscher Rundfunk: “La porta è sempre aperta... ma non vi è alcun compromesso in termini di fede cattolica, soprattutto perché è stata definita regolarmente dal Vaticano II ... Non possiamo negoziare la fede cattolica, non ci può essere nessun compromesso». Con queste parole pare che con il Vaticano II si sia dato un insegnamento definitivo e, quindi, immutabile e infallibile o quasi. Ebbene, ha proseguito il professore, oggi «come lo era 30 o 35 anni, Roma è estremamente imbarazzata» quando si afferma che esistono alcuni testi del Concilio sbagliati o che alcune decisioni del Vaticano II sono dannose per la fede. Esistono dei significativi esempi al riguardo: il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Cardinale Seper, scrisse a Monsignor Lefebvre il 28 gennaio 1978, a proposito della libertà religiosa: «Questa Dichiarazione conciliare è chiaramente un insegnamento del Magistero, anche se non è l’oggetto di una definizione, richiede obbedienza e consenso (cf. Cost.. Dogm. Lumen Gentium, 25). Perciò non è lecito respingerlo come errato».
A proposito del Novus Ordo, ancora il Cardinale Seper ha detto: «Un fedele non può mettere in dubbio la conformità con la dottrina della fede di un rito promulgato dal Supremo Pastore, soprattutto se è il rito della Messa, che è al centro della vita della Chiesa». Sullo stesso argomento il Cardinale ha chiesto a Monsignor Lefebvre, durante un interrogatorio alla Congregazione per la Dottrina della Fede, il 12 gennaio 1979:
«Può un fedele cattolico pensare e dire che un rito sacramentale, specialmente nella Messa, approvato e promulgato dal Sommo Pontefice, sia incompatibile con la fede cattolica o favens haeresim?». Monsignor Lefebvre diede questa risposta: «Questo rito non professa la fede cattolica chiaramente come l’ordine della Messa di prima e, quindi, può promuovere l’eresia». Inoltre, disse ancora il fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X: «la cosa stupefacente è il sapore protestante dell’Ordine di questa Messa e quindi favens haeresim». Monsignor Lefebvre dichiarò, quando fu rimproverato di un comportamento “scismatico”: «Penso che sia possibile, come hanno fatto molti altri nella storia, manifestare riluttanza, su alcune decisioni, nei confronti del Papa e della Curia Romana. [...] Fino a quando non si impegna l’infallibilità papale, la presentazione pubblica di certe difficoltà, da parte di un vescovo, non è un crimine di ribellione, se la presentazione stessa è basata sulla tradizione».
È importante, per chiarire ogni cosa, considerare l’autorità dottrinale del Concilio Vaticano II. La risposta la troviamo in un comunicato ufficiale della Commissione dottrinale del 6 marzo 1964, ribadita il 16 novembre 1964, in cui si afferma esplicitamente:
«Compte tenu de l’usage des conciles et du but pastoral du concile actuel, celui-ci ne définit comme devant être tenus par l’Eglise que les seuls points concernant la foi et les mœurs qu’il aura clairement déclarés comme tels. Quant aux autres points proposés par le Concile, en tant qu’ils sont l’enseignement du magistère suprême de l’Eglise, tous et chacun des fidèles doivent les recevoir et les entendre selon l’esprit du Concile lui-même qui ressort soit de la matière traitée, soit de la manière dont il s’exprime, selon les normes de l’interprétation théologique».
Alla base di tutte le dottrine moderne, vi è un nuovo concetto del rapporto della Chiesa con il mondo e tale disegno di base non ha radici nella Scrittura e nella Tradizione plurimillenaria della Chiesa cattolica romana. Questo è ciò che può rendere le decisioni non infallibili, sospendendo, pertanto, l’obsequium religiosum, necessario in circostanze normali. San Paolo (Gal 2, 11-14) non ha resistito a san Pietro, perché Pietro aveva sbagliato ad associarsi a coloro che «non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo»?
Con valide ragioni Monsignor Lefebvre ha scritto che la nuova professione di fede è accettabile, ma, nella fattispecie, con la condizione di non cadere in dottrine che si contraddicono fra di loro. Si può, allora, notare che il Vaticano II e il Magistero post-conciliare sono diventati «più esigenti di quanto fosse la Chiesa prima del Concilio. In precedenza il religiosum obsequium è stato richiesto quando si trattava di errori di condanna o punti controversi che il Papa ha voluto risolvere. Oggi un cattolico dovrebbe accettare ciò che insegna Roma, anche se si tratta di nuove dottrine, una volta condannate, anche se le applicazioni portano alla perdita della fede e sono rovinose per la vita cristiana. Il obsequium religiosum è diventato un modo di pensare e di agire».
Il professor Giovanni Turco ha poi affrontato la questione del metodo, precisando che l’autentica intelligenza filosofica è la via, «il pronao», per l’intelligenza teologica. [Un suo precedente testo sul problema metodologico dell'approccio qui] «Il Concilio Vaticano II si presenta programmaticamente ed intenzionalmente come “pastorale” (pur senza definirne esplicitamente la nozione). La pastoralità ne individua perciò la natura ed il criterio - donde la peculiarità, l’indole ed il registro - e perciò il limite intrinseco (dichiarato esplicitamente dagli stessi testi conciliari). Anzi, la pastoralità -che propriamente è inconfondibile con il campo dottrinale e con quello disciplinare, pur essendo ovviamente ad essi strettamente connessa - ne fissa la singolarità (assoluta). In tal senso il Vaticano II, con i suoi documenti, eleva un metodo ed un linguaggio - quello appunto pastorale - a criterio di elaborazione e di espressione di ogni suo testo e di ogni suo atto. Sicché il metodo ed il linguaggio precedono il contenuto (tanto sotto il profilo dottrinale quanto sotto quello disciplinare). Il metodo sarebbe dato, il contenuto da darsi. Il linguaggio sarebbe fissato, il messaggio sarebbe da formulare. Il metodo ed il linguaggio assurgono così al rango di filtro attraverso il quale occorre comunicare qualsivoglia nozione.
Da tale premessa si profila, a ben vedere, un primo problema essenziale ed imprescindibile. Esso riguarda il significato stesso del metodo e del linguaggio, in rapporto ad un contenuto (quale che sia). Nei suoi termini essenziali ne emerge un quesito ineludibile. È possibile fissare un metodo ed un linguaggio aprioristicamente rispetto al proprio oggetto? Può darsi un metodo ed un linguaggio che costituiscano un prius (per se stesso) rispetto al proprio contenuto? In altri termini, può il metodo ed il linguaggio subordinare a sé il proprio oggetto (sia pure, per quanto attiene al proprio campo)? Ovvero, può il metodo ed il linguaggio essere considerato autonomamente rispetto al proprio contenuto?
Come si rileva, tale questione è filosoficamente ineludibile. La risposta affermativa o negativa rinvia al rapporto tra metodo e fondamento ed altresì tra linguaggio ed oggetto. È il metodo per sé fondante? Il metodo dipende dal fondamento o il fondamento dipende dal metodo? Il linguaggio dipende dal suo oggetto oppure l’oggetto dipende dal linguaggio? Altrimenti, il linguaggio ha un rapporto estrinseco oppure intrinseco al suo oggetto? A ben considerare, tertium non datur.
Anzitutto è da osservare che né il metodo né il linguaggio sono metafisicamente ed assiologicamente indifferenti. Nessun metodo, come nessun linguaggio, è neutrale rispetto ai principi logici ed etici. Nessun metodo, come nessun linguaggio si risolve in una mera tecnica. Al contempo neppure la tecnica è per sé indipendente dal suo oggetto e dal fine per il quale è impiegata. Il problema del metodo non è un problema di metodo. Il problema del linguaggio non è un problema di linguaggio. Il metodo non spiega il metodo. Il linguaggio non spiega il linguaggio. Analogamente può essere rilevato che la pastoralità non spiega la pastoralità (né come metodo né come linguaggio). Come per se stesso il finito non spiega il finito, ma esige necessariamente il fondamento.
Tanto il metodo quanto il linguaggio - anche ovviamente quando l’uno e l’altro si connotano come pastorali - rinviano al “ciò per cui” essi sono tali, ovvero rimandano a ciò che, trascendendoli, ne costituisce l’intima ragion d’essere, ed assicura ad essi validità specifica. Tanto il metodo quanto il linguaggio sono tali in quanto veri (e veramente tali), non sono veri in quanto tali. Essi rinviano, cioè, ad un criterio di validità, in ragione del quale un certo metodo (come un certo linguaggio) è valido ed un altro no. Ed il criterio di validità null’altro è se non il criterio di verità, ovvero il criterio di conformità intrinseca, secondo cui un metodo (ed un linguaggio) in rapporto al proprio oggetto, è autentico oppure no.
D’altra parte, è chiaro che il problema del metodo come quello del linguaggio (analogamente a quello della conoscenza), proprio per la loro relazione essenziale a ciò rispetto a cui costituiscono rispettivamente via inveniendi e via loquendi, non si pone in termini generici, ma necessariamente in termini specifici. Esso richiede la determinazione di ciò rispetto a cui il metodo (come il linguaggio) è propriamente tale. Altro è il metodo (ed il linguaggio) della metafisica, altro quello delle scienze empiriche, altro quello della teologia altro quello delle arti. Altrimenti, come evidenzia Platone (nel Gorgia) un metodo (o una pratica), che pretende di essere avulso dall’oggetto, e perciò di valere per qualsiasi contenuto (come quello sofistico), può persuadere solo gli ignoranti (non i competenti).
Ora, va osservato che la modernità esordisce con Cartesio e con Bacone – ed ancora prosegue emblematicamente con Spinoza e con Locke, con Kant e con Comte – affermando il primato del metodo e facendo della filosofia prioritariamente una questione di metodo, fino a far coincidere – lungo direttrici distinte eppure omologhe – metodo, linguaggio e contenuto con Hegel, da una parte, e con la filosofia analitica, dall’altra. Dove il metodo ed il correlativo linguaggio non hanno una mera priorità metodica (cosa che porterebbe chiaramente ad un circolo vizioso, ovvero ad una petitio principii) ma hanno una priorità costitutiva del sapere stesso».
Il primato del metodo e del linguaggio caratterizzano il razionalismo moderno. «Il primato del metodo coincide con l’autereferenzialità del razionalismo moderno, che (come ha acutamente diagnosticato Cornelio Fabro) presume di porre l’essere alle dipendenze del conoscere. La precedenza del metodo è la precedenza del conoscere sull’essere, ed ancor prima presuppone la priorità del volere rispetto al conoscere stesso. La metafisica, così, finisce per dipendere dalla gnoseologia».
Diversamente, nel pensiero classico è il contenuto a fondare il metodo ed il linguaggio, come è l’essere a fondare il conoscere: la verità di una proposizione e di un ragionamento dipende dal suo contenuto, non dal suo metodo, neppure dal suo linguaggio, come chiarisce Aristotele nella Metafisica (libro VI).
«San Tommaso d’Aquino insegna che il discorso persuasivo (per sé distinto da quello dimostrativo), non svuota la ragion d’essere della fede ed è fondato su ciò che ne costituisce il contenuto. Una scienza non rende evidenti i propri principi, ma in virtù dell’evidenza dei principi, rende evidenti le conclusioni. La scienza dipende dai principi, non i principi dalla scienza. Senza principi non vi può essere scienza, né qualsivoglia autentico sapere.
In definitiva, è il contenuto a fondare il metodo, non viceversa. Il metodo sta sul fondamento dei principi, non i principi sul fondamento del metodo. Il metodo, come il linguaggio, non è mai neutrale nei confronti dei principi. È l’oggetto a giudicare del metodo – e del linguaggio – non il metodo a giudicare dell’oggetto. Il metodo come il linguaggio o sono ricondotti all’essere, oppure pretendono di sostituirsi ad esso».
Tali considerazioni vanno esposte anche per il criterio della pastoralità che caratterizza il Concilio Vaticano II. «Il primato della pastoralità equivarrebbe al primato del metodo e del linguaggio. Ma tale primato non può darsi sotto il profilo epistemologico, né propriamente sotto il profilo ontologico. Il metodo come il linguaggio non hanno alcun primato: dipendono essenzialmente dall’ordine del vero, cioè dall’ordine dell’essere. Anche là dove la conformità in cui consiste la verità si riferisce al contenuto della Rivelazione.
L’impostazione dei documenti del Concilio Vaticano II pone, quindi, un fondamentale problema epistemologico. Anzitutto nella prospettiva epistemica soggiacente all’elaborazione dei testi, la quale proprio in quanto pastorale non è né dottrinale né disciplinare. Nel primo caso essa ha la verità (delle proposizioni e del ragionamento) come fondamento; nel secondo caso la giustizia (e l’equità). Diversamente, la pastoralità (per se stessa da misurarsi sulla dottrina e sulla disciplina) ne costituisce al contempo il criterio e la questione. Essa è già una interpretazione, a parte ante. Proprio per questo, a sua volta, richiede una interpretazione, a parte post. Per sé non spiega, ma deve essere spiegata. Come tale, non può che essere una misura da misurarsi. Appena enunciato – il criterio della pastoralità – vede emergere ineludibilmente i problemi essenziali relativi alla sua stessa ragion d’essere. Problemi che non possono essere occultati, affinché vi sia autentica intelligenza dei testi».
(Parte terza)
Il 2009 è stato definito «l’année Gherardini», nel marzo di quell’anno, infatti, uno dei teologi più grandi della contemporaneità, Monsignor Brunero Gherardini, ha pubblicato il celebre libro Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, dove l’autore, con approfondite argomentazioni ha posto in evidenza l’importanza di mettere sul tavolo la questione Concilio, e da allora ha pubblicato altri libri dello stesso tenore. Il suo appello non è rimasto senza risposta: nel dicembre 2010 la congregazione dei Francescani dell’Immacolata ha organizzato un importante Congresso di studi sul Concilio Vaticano II, dove sono intervenuti Padre Serafino Lanzetta, Monsignor Luigi Negri, Monsignor Brunero Gherardini, i professori Yves Chiron e Roberto de Mattei, Monsignor Athanasius Schneider, don Nicola Bux, padre Florian Kolfhaus e il Cardinale Velasio De Paolis [p. Rosario Sammarco].
Nel 2011 è stato pubblicato Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta di de Mattei che con innumerevoli documenti è stata ricostruita la storia dell’Assise, documenti che dimostrano la volontà di un chiaro spirito di rottura con la Tradizione della Chiesa. Nello stesso anno don Pietro Cantoni, che venne ordinato sacerdote da Monsignor Lefebvre ed ebbe come maestro all’Università Lateranense Monsignor Gherardini, ha scritto il libro Riforma nella continuità. Vaticano II e l’anticonciliarismo per rispondere polemicamente alle affermazioni di Gherardini nel tentativo di dimostrare la continuità del Vaticano II con la Tradizione della Chiesa alla luce dell’ermeneutica della riforma nella continuità proposta da Benedetto XVI. Il testo ha naturalmente suscitato la reazione del maestro Gherardini, attaccato personalmente dal suo antico allievo, reazione che ha prodotto un nuovo libro dell’insigne teologo, dal titolo Il Vaticano II. Alle radici d’un equivoco. Nel mese di ottobre Roberto de Mattei ha pubblicato Apologia della Tradizione, dove l’autore fa notare come in più episodi della storia della Chiesa ci si è opposti alle decisioni e agli insegnamenti delle autorità ecclesiastiche in nome della Tradizione. Nel 2012 padre Lanzetta, teologo dei Francescani dell’Immacolata, ha pubblicato Iuxta modum. Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione della Chiesa, dove sottolinea la necessità di ricondurre il Concilio nel suo giusto alveo, togliendo quel marchio di «superdogma» che gli è stato esageratamente imposto.
Il dibattito sul Concilio Vaticano II, ha ancora affermato Fiore, si svolge anche su Internet, dove si possono trovare molti articoli di diversi autori. È indubbio che ci sia stata una benefica influenza delle discussioni tenute tra la Fraternità San Pio X e Roma sui dibattiti del Concilio. Lo storico della Chiesa Giovanni Miccoli, di chiare simpatie progressiste, ha scritto un libro La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma; l’autore mostra la sua preoccupazione per un’operazione a Roma di restaurazione contro i progressi del Concilio, utilizzando lo strumento della FSSPX, Fraternità peraltro elogiata da Monsignor Gherardini nel suo saggio Quod et tradidi vobis. Anche il domenicano padre Giovanni Cavalcoli con il suo libro Progresso nella continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del post-concilio ha affermato di voler offrire un contributo utile alle discussioni fra Roma e la Fraternità stessa. «Si può dunque dire che la Fraternità gioca un ruolo molto importante per fare avanzare il dibattito, per animare una discussione costruttiva, per esporre pubblicamente le sue posizioni e per avvalorare la sua stessa esistenza». È chiaro che si è ormai aperta una strada che non potrà più essere chiusa, una via che si oppone all’idea di un Concilio carismatico e mistico di chiara impostazione soggettivistica, che tende a mitizzare, se non ad adorare, il Vaticano II a discapito di tutti gli altri Concili della storia. Nelle considerazioni conclusive Fiore ha affermato che il «Concilio Vaticano II non è più “intoccabile”, non è più un super-Concilio. Anche al di fuori del tradizionalismo si notano sempre più le carenze», certi teologi non esitano a formulare delle critiche radicali e coloro che vogliono difendere a tutti i costi l’ortodossia del Concilio spesso ammettono le deficienze del piano pastorale, ovvero del livello specifico del Vaticano II, che ha mancato la sua finalità propria e ha formulato delle attestazioni ambigue. Don Cantoni, per esempio, nel suo libro Riforma nella continuità. Vaticano II e anticonciliarismo, riconosce che nei documenti non è stato detto nulla circa i pericoli del laicismo degli Stati. Padre Lanzetta parla sia di un certo «pluralismo contraddittorio» nel Concilio, dove non sono chiari i limiti della pastoralità e della dogmaticità, sia di discontinuità teologiche. Padre Kolfhaus rimarca l’ottimismo dei padri conciliari che hanno rinunciato alle definizioni dottrinali e alle solenni condanne. Padre Cavalcoli ammette che il linguaggio del Concilio manca di precisione, univocità e chiarezza «che si trova nei Concili precedenti», un linguaggio che ha finito per dividere in qualche modo la Chiesa. Alessandro Fiore ha ancora affermato che il «Vaticano II è un Concilio “mancato”: voleva essere pastorale, e non è stato pastorale. In generale si percepisce un bisogno sempre più grande di chiarezza dottrinale dopo la confusione creata dal Concilio e il dopo Concilio». Monsignor Gherardini supplica il Santo Padre di mettere chiarezza in quale misura il Concilio è stato fedele alla Tradizione; padre Lanzetta desidera un documento metafisico-dogmatico del Magistero per definire l’interpretazione corretta del Concilio; Monsignor Schneider ha proposto un Sillabo degli errori circa l’interpretazione del Concilio Vaticano II; de Mattei sottolinea l’urgente necessità di un nuovo Sillabo o di una nuova Professio fidei. «È chiaro che le discussioni teologiche dureranno ancora per molto tempo, ma a me sembra, ed è quello che volevo dimostrare, che diventiamo sempre più consapevoli, almeno in alcuni ambienti, non solamente dei mali che affliggono la Chiesa, ma anche delle cause di questi mali e delle responsabilità dell’ultimo Concilio. Non possiamo che desiderare che un giorno le autorità riconoscano tutto ciò e vengano applicati i rimedi - quale rimedio migliore se non la Tradizione? - per il bene della Santa Chiesa».
Sabato 5 gennaio è stato preso in esame il punto di vista dottrinale e sono intervenuti padre Patrice Laroche, professore del Seminario tedesco di Zaitzkofen («Un tentativo di dogmatizzare il Concilio Vaticano II»); il professor Giovanni Turco dell’Università di Udine («La modernità e il Vaticano II); padre Yves le Roux, direttore del Seminario di Winona negli Stati Uniti («Un Concilio non come gli altri»); padre Franz Schmidberger, Superiore del distretto di Germania («L’ermeneutica della continuità o della rottura?»); padre Jean-Michel Gleize, professore del Seminario di Écône («Due concezioni di Magistero») e padre Alain Lorans, redattore di D.I.C.I. («Lo sguardo della fede e la lezione dei fatti»).
Padre Laroche ha spiegato che il tentativo di dogmatizzare il Concilio Vaticano II è viziato fin dalla partenza. «Alla domanda sui rapporti tra Roma e la FSSPX, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Monsignor Gerhard Ludwig Müller ha affermato, nell’autunno 2012 in un’intervista alla radio tedesca Norddeutscher Rundfunk: “La porta è sempre aperta... ma non vi è alcun compromesso in termini di fede cattolica, soprattutto perché è stata definita regolarmente dal Vaticano II ... Non possiamo negoziare la fede cattolica, non ci può essere nessun compromesso». Con queste parole pare che con il Vaticano II si sia dato un insegnamento definitivo e, quindi, immutabile e infallibile o quasi. Ebbene, ha proseguito il professore, oggi «come lo era 30 o 35 anni, Roma è estremamente imbarazzata» quando si afferma che esistono alcuni testi del Concilio sbagliati o che alcune decisioni del Vaticano II sono dannose per la fede. Esistono dei significativi esempi al riguardo: il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Cardinale Seper, scrisse a Monsignor Lefebvre il 28 gennaio 1978, a proposito della libertà religiosa: «Questa Dichiarazione conciliare è chiaramente un insegnamento del Magistero, anche se non è l’oggetto di una definizione, richiede obbedienza e consenso (cf. Cost.. Dogm. Lumen Gentium, 25). Perciò non è lecito respingerlo come errato».
A proposito del Novus Ordo, ancora il Cardinale Seper ha detto: «Un fedele non può mettere in dubbio la conformità con la dottrina della fede di un rito promulgato dal Supremo Pastore, soprattutto se è il rito della Messa, che è al centro della vita della Chiesa». Sullo stesso argomento il Cardinale ha chiesto a Monsignor Lefebvre, durante un interrogatorio alla Congregazione per la Dottrina della Fede, il 12 gennaio 1979:
«Può un fedele cattolico pensare e dire che un rito sacramentale, specialmente nella Messa, approvato e promulgato dal Sommo Pontefice, sia incompatibile con la fede cattolica o favens haeresim?». Monsignor Lefebvre diede questa risposta: «Questo rito non professa la fede cattolica chiaramente come l’ordine della Messa di prima e, quindi, può promuovere l’eresia». Inoltre, disse ancora il fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X: «la cosa stupefacente è il sapore protestante dell’Ordine di questa Messa e quindi favens haeresim». Monsignor Lefebvre dichiarò, quando fu rimproverato di un comportamento “scismatico”: «Penso che sia possibile, come hanno fatto molti altri nella storia, manifestare riluttanza, su alcune decisioni, nei confronti del Papa e della Curia Romana. [...] Fino a quando non si impegna l’infallibilità papale, la presentazione pubblica di certe difficoltà, da parte di un vescovo, non è un crimine di ribellione, se la presentazione stessa è basata sulla tradizione».
È importante, per chiarire ogni cosa, considerare l’autorità dottrinale del Concilio Vaticano II. La risposta la troviamo in un comunicato ufficiale della Commissione dottrinale del 6 marzo 1964, ribadita il 16 novembre 1964, in cui si afferma esplicitamente:
«Compte tenu de l’usage des conciles et du but pastoral du concile actuel, celui-ci ne définit comme devant être tenus par l’Eglise que les seuls points concernant la foi et les mœurs qu’il aura clairement déclarés comme tels. Quant aux autres points proposés par le Concile, en tant qu’ils sont l’enseignement du magistère suprême de l’Eglise, tous et chacun des fidèles doivent les recevoir et les entendre selon l’esprit du Concile lui-même qui ressort soit de la matière traitée, soit de la manière dont il s’exprime, selon les normes de l’interprétation théologique».
Alla base di tutte le dottrine moderne, vi è un nuovo concetto del rapporto della Chiesa con il mondo e tale disegno di base non ha radici nella Scrittura e nella Tradizione plurimillenaria della Chiesa cattolica romana. Questo è ciò che può rendere le decisioni non infallibili, sospendendo, pertanto, l’obsequium religiosum, necessario in circostanze normali. San Paolo (Gal 2, 11-14) non ha resistito a san Pietro, perché Pietro aveva sbagliato ad associarsi a coloro che «non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo»?
Con valide ragioni Monsignor Lefebvre ha scritto che la nuova professione di fede è accettabile, ma, nella fattispecie, con la condizione di non cadere in dottrine che si contraddicono fra di loro. Si può, allora, notare che il Vaticano II e il Magistero post-conciliare sono diventati «più esigenti di quanto fosse la Chiesa prima del Concilio. In precedenza il religiosum obsequium è stato richiesto quando si trattava di errori di condanna o punti controversi che il Papa ha voluto risolvere. Oggi un cattolico dovrebbe accettare ciò che insegna Roma, anche se si tratta di nuove dottrine, una volta condannate, anche se le applicazioni portano alla perdita della fede e sono rovinose per la vita cristiana. Il obsequium religiosum è diventato un modo di pensare e di agire».
Il professor Giovanni Turco ha poi affrontato la questione del metodo, precisando che l’autentica intelligenza filosofica è la via, «il pronao», per l’intelligenza teologica. [Un suo precedente testo sul problema metodologico dell'approccio qui] «Il Concilio Vaticano II si presenta programmaticamente ed intenzionalmente come “pastorale” (pur senza definirne esplicitamente la nozione). La pastoralità ne individua perciò la natura ed il criterio - donde la peculiarità, l’indole ed il registro - e perciò il limite intrinseco (dichiarato esplicitamente dagli stessi testi conciliari). Anzi, la pastoralità -che propriamente è inconfondibile con il campo dottrinale e con quello disciplinare, pur essendo ovviamente ad essi strettamente connessa - ne fissa la singolarità (assoluta). In tal senso il Vaticano II, con i suoi documenti, eleva un metodo ed un linguaggio - quello appunto pastorale - a criterio di elaborazione e di espressione di ogni suo testo e di ogni suo atto. Sicché il metodo ed il linguaggio precedono il contenuto (tanto sotto il profilo dottrinale quanto sotto quello disciplinare). Il metodo sarebbe dato, il contenuto da darsi. Il linguaggio sarebbe fissato, il messaggio sarebbe da formulare. Il metodo ed il linguaggio assurgono così al rango di filtro attraverso il quale occorre comunicare qualsivoglia nozione.
Da tale premessa si profila, a ben vedere, un primo problema essenziale ed imprescindibile. Esso riguarda il significato stesso del metodo e del linguaggio, in rapporto ad un contenuto (quale che sia). Nei suoi termini essenziali ne emerge un quesito ineludibile. È possibile fissare un metodo ed un linguaggio aprioristicamente rispetto al proprio oggetto? Può darsi un metodo ed un linguaggio che costituiscano un prius (per se stesso) rispetto al proprio contenuto? In altri termini, può il metodo ed il linguaggio subordinare a sé il proprio oggetto (sia pure, per quanto attiene al proprio campo)? Ovvero, può il metodo ed il linguaggio essere considerato autonomamente rispetto al proprio contenuto?
Come si rileva, tale questione è filosoficamente ineludibile. La risposta affermativa o negativa rinvia al rapporto tra metodo e fondamento ed altresì tra linguaggio ed oggetto. È il metodo per sé fondante? Il metodo dipende dal fondamento o il fondamento dipende dal metodo? Il linguaggio dipende dal suo oggetto oppure l’oggetto dipende dal linguaggio? Altrimenti, il linguaggio ha un rapporto estrinseco oppure intrinseco al suo oggetto? A ben considerare, tertium non datur.
Anzitutto è da osservare che né il metodo né il linguaggio sono metafisicamente ed assiologicamente indifferenti. Nessun metodo, come nessun linguaggio, è neutrale rispetto ai principi logici ed etici. Nessun metodo, come nessun linguaggio si risolve in una mera tecnica. Al contempo neppure la tecnica è per sé indipendente dal suo oggetto e dal fine per il quale è impiegata. Il problema del metodo non è un problema di metodo. Il problema del linguaggio non è un problema di linguaggio. Il metodo non spiega il metodo. Il linguaggio non spiega il linguaggio. Analogamente può essere rilevato che la pastoralità non spiega la pastoralità (né come metodo né come linguaggio). Come per se stesso il finito non spiega il finito, ma esige necessariamente il fondamento.
Tanto il metodo quanto il linguaggio - anche ovviamente quando l’uno e l’altro si connotano come pastorali - rinviano al “ciò per cui” essi sono tali, ovvero rimandano a ciò che, trascendendoli, ne costituisce l’intima ragion d’essere, ed assicura ad essi validità specifica. Tanto il metodo quanto il linguaggio sono tali in quanto veri (e veramente tali), non sono veri in quanto tali. Essi rinviano, cioè, ad un criterio di validità, in ragione del quale un certo metodo (come un certo linguaggio) è valido ed un altro no. Ed il criterio di validità null’altro è se non il criterio di verità, ovvero il criterio di conformità intrinseca, secondo cui un metodo (ed un linguaggio) in rapporto al proprio oggetto, è autentico oppure no.
D’altra parte, è chiaro che il problema del metodo come quello del linguaggio (analogamente a quello della conoscenza), proprio per la loro relazione essenziale a ciò rispetto a cui costituiscono rispettivamente via inveniendi e via loquendi, non si pone in termini generici, ma necessariamente in termini specifici. Esso richiede la determinazione di ciò rispetto a cui il metodo (come il linguaggio) è propriamente tale. Altro è il metodo (ed il linguaggio) della metafisica, altro quello delle scienze empiriche, altro quello della teologia altro quello delle arti. Altrimenti, come evidenzia Platone (nel Gorgia) un metodo (o una pratica), che pretende di essere avulso dall’oggetto, e perciò di valere per qualsiasi contenuto (come quello sofistico), può persuadere solo gli ignoranti (non i competenti).
Ora, va osservato che la modernità esordisce con Cartesio e con Bacone – ed ancora prosegue emblematicamente con Spinoza e con Locke, con Kant e con Comte – affermando il primato del metodo e facendo della filosofia prioritariamente una questione di metodo, fino a far coincidere – lungo direttrici distinte eppure omologhe – metodo, linguaggio e contenuto con Hegel, da una parte, e con la filosofia analitica, dall’altra. Dove il metodo ed il correlativo linguaggio non hanno una mera priorità metodica (cosa che porterebbe chiaramente ad un circolo vizioso, ovvero ad una petitio principii) ma hanno una priorità costitutiva del sapere stesso».
Il primato del metodo e del linguaggio caratterizzano il razionalismo moderno. «Il primato del metodo coincide con l’autereferenzialità del razionalismo moderno, che (come ha acutamente diagnosticato Cornelio Fabro) presume di porre l’essere alle dipendenze del conoscere. La precedenza del metodo è la precedenza del conoscere sull’essere, ed ancor prima presuppone la priorità del volere rispetto al conoscere stesso. La metafisica, così, finisce per dipendere dalla gnoseologia».
Diversamente, nel pensiero classico è il contenuto a fondare il metodo ed il linguaggio, come è l’essere a fondare il conoscere: la verità di una proposizione e di un ragionamento dipende dal suo contenuto, non dal suo metodo, neppure dal suo linguaggio, come chiarisce Aristotele nella Metafisica (libro VI).
«San Tommaso d’Aquino insegna che il discorso persuasivo (per sé distinto da quello dimostrativo), non svuota la ragion d’essere della fede ed è fondato su ciò che ne costituisce il contenuto. Una scienza non rende evidenti i propri principi, ma in virtù dell’evidenza dei principi, rende evidenti le conclusioni. La scienza dipende dai principi, non i principi dalla scienza. Senza principi non vi può essere scienza, né qualsivoglia autentico sapere.
In definitiva, è il contenuto a fondare il metodo, non viceversa. Il metodo sta sul fondamento dei principi, non i principi sul fondamento del metodo. Il metodo, come il linguaggio, non è mai neutrale nei confronti dei principi. È l’oggetto a giudicare del metodo – e del linguaggio – non il metodo a giudicare dell’oggetto. Il metodo come il linguaggio o sono ricondotti all’essere, oppure pretendono di sostituirsi ad esso».
Tali considerazioni vanno esposte anche per il criterio della pastoralità che caratterizza il Concilio Vaticano II. «Il primato della pastoralità equivarrebbe al primato del metodo e del linguaggio. Ma tale primato non può darsi sotto il profilo epistemologico, né propriamente sotto il profilo ontologico. Il metodo come il linguaggio non hanno alcun primato: dipendono essenzialmente dall’ordine del vero, cioè dall’ordine dell’essere. Anche là dove la conformità in cui consiste la verità si riferisce al contenuto della Rivelazione.
L’impostazione dei documenti del Concilio Vaticano II pone, quindi, un fondamentale problema epistemologico. Anzitutto nella prospettiva epistemica soggiacente all’elaborazione dei testi, la quale proprio in quanto pastorale non è né dottrinale né disciplinare. Nel primo caso essa ha la verità (delle proposizioni e del ragionamento) come fondamento; nel secondo caso la giustizia (e l’equità). Diversamente, la pastoralità (per se stessa da misurarsi sulla dottrina e sulla disciplina) ne costituisce al contempo il criterio e la questione. Essa è già una interpretazione, a parte ante. Proprio per questo, a sua volta, richiede una interpretazione, a parte post. Per sé non spiega, ma deve essere spiegata. Come tale, non può che essere una misura da misurarsi. Appena enunciato – il criterio della pastoralità – vede emergere ineludibilmente i problemi essenziali relativi alla sua stessa ragion d’essere. Problemi che non possono essere occultati, affinché vi sia autentica intelligenza dei testi».
(Parte terza)
2 commenti:
Scusate, forse questa domanda sarebbe in tema circa altr testi, ma temo che i tanti commenti la potrebbero rendere pressocchè "invisibile".
Sapete nula su quale è stato il destino del primo istituto tradizionalista, "con il bollino bleu"?!?
Mi riferisco al seminario "MATER ECCLESIAE", fondato nel 1985.
Grazie.
Come pensavo.
NESSUNO NE SA NULLA.
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