Sul Latino, lingua sacra da preservare [qui] in quanto già lingua ufficiale della Chiesa, propria della Liturgia cattolica per l’universalità, l’univocità, la sacralità. Oltre che lingua classica e vincolo di unità tra popoli e culture et alia [qui]
Il latino non è affatto una lingua morta. Basti pensare che la parola più pronunciata in questo 2020 è “virus”, che in latino significa “veleno”. Un raro esempio di termine neutro con la desinenza “us”. Ma altri termini della lingua di Cicerone sono comunemente utilizzati, come “media”, plurale di medium, mezzo. E potremmo continuare ancora. Ma la più completa e accurata disamina dell’importanza di questo antico idioma, incubo per molte generazioni di studenti liceali, è quella che ha fatto Silvia Stucchi nel suo recente libro Come il latino ci salva la vita (Edizioni Ares 2020, pagine 312 euro 15) dove spiega perché dobbiamo essere grati alla lingua di Virgilio e Tacito, e perché essa non è uno scoglio, ma un’ancora di salvezza che insegna a vivere meglio. Con un percorso tematico sui grandi della latinità, da Orazio a Seneca, da Catullo a Petronio, da Lucrezio a Quintiliano, troveremo la risposta che gli uomini di duemila anni fa davano ai loro problemi, dall’innamoramento infelice all’insofferenza verso le feste comandate, dal rifiuto degli status symbol ai dispiaceri scolastici. Risposte che possono lenire anche le nostre ansie quotidiane, o farci guardare al presente con un occhio diverso.
Silvia Stucchi è docente a contratto di Lingua Latina presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica. Membro scientifico della SIAC (Société Internationale des Amis des Cicéron) e della SIEN (Société Internationale des Études Neroniennes), ha pubblicato saggi su Petronio e sulla sua ricezione, sulla tematica consolatoria nel mondo antico, su Seneca tragico, Lucano, su Ovidio, su Petronio e la sua fortuna. Svolge inoltre attività di giornalista pubblicista su varie testate cartacee e on line.
Il suo accattivante saggio ci porta, in un tempo di modernità liquida, a farci riscoprire non solo una lingua, ma una cultura, una civiltà, ancorate a forti fondamenta, ma senza idealizzazioni romantiche. Anzi: l’autrice in fondo ci mostra come alcuni problemi sociali e come le principali debolezze e i vizi della contemporaneità abbiano in realtà radici profondissime, così peraltro come le virtù più belle. L’incontro con Silvia Stucchi a partire dal suo libro ci porta così ad andare in ricognizione nel mondo della antica civiltà romana.
Professoressa, perché un libro su una lingua cosiddetta “morta” come il Latino?
Mi rendo conto che, alcuni decenni fa, nessuno si sarebbe sognato di imbarcarsi in una apologia del latino, tanto l’offerta scolastica era monolitica e tutta e incentrata sugli studi umanistici. Eppure, già fioccavano le proposte di riforma: a una commissione ministeriale partecipò addirittura Giovanni Pascoli, chiamato a dare il suo parere su varie questioni, come quella dell’utilità della traduzione dal latino e dall’italiano. Infatti, nell’Italia post-unitaria ci si rese presto conto che, dopo anni di studio, solo rarissimi studenti riuscivano a tradurre un brano di poche righe: guarda un po’, proprio come accade ora! Nihil sub sole novi, nulla di nuovo sotto il sole, è il caso di dirlo.
Ora, la scuola è molto cambiata; ma, non appartenendo io alla schiera dei laudatores temporis acti per partito preso, tengo a ribadire che “cambiamento” non è sempre indice di decadenza irreversibile: diverso non significa necessariamente “peggiore”, ed è bene dunque riflettere un po’ sullo statuto di questa disciplina “togli-sonno”. Qualche anno fa, Nicola Gardini, italiano docente a Oxford, intitolò, provocatoriamente, il suo saggio (che avevo letto e recensito con grande piacere) Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile. Ma è indubbio che chi ha studiato il latino ha delle risorse in più: per prima cosa, la sua padronanza della lingua italiana, del lessico, del periodare, è mediamente superiore e più consapevole di quella di chi non ha mai avuto la fortuna di studiare latino. Inoltre, il procedimento con cui affrontiamo una versione, il cosiddetto problem solving, è lo stesso che si applica per la risoluzione di un problema matematico.
Inoltre, sottopongo all’attenzione dei lettori un paradosso: il latino non è mai morto, perché, forse, non è mai nemmeno nato. Mi spiego meglio: il latino letterario, su cui si forma il 99% degli studenti, è una costruzione intellettuale raffinatissima, ma che certo non coincide con il latino parlato dalla gran massa dei cittadini di Roma e dell’Impero, il cosiddetto sermo cotidianus, per ricostruire il quale noi abbiamo pochi elementi: alcune iscrizioni sui muri, scampate all’azione distruttrice del tempo (penso a Pompei); alcune epigrafi che aprono uno squarcio, a volte, con i loro “errori”, sulla discrasia fra il latino ufficiale e quello di tutti i giorni; alcuni passi di autori anche celebri (penso alle chiacchiere dei liberti nella Cena di Trimalchione nel Satyricon di Petronio) che però sono sempre rielaborazioni artistiche del parlato, non certo inserti del latino usato quotidianamente inseriti tout court dall’autore nella sua opera. Insomma, credo che se, per assurdo, potessimo incontrare Cicerone, credo proprio che resteremmo stupiti dal modo in cui si rivolge alla moglie Terenzia o alla figlia Tullia, ben diverso dal latino solenne che siamo abituati a leggere nelle sue orazioni e nelle opere filosofiche!
Leggendo il suo libro si ha l’impressione che il Latino non sia dietro di noi, ma davanti a noi...
Sì, per certi versi i Romani avevano uno sguardo molto lucido, che aveva individuato e anticipato alcune problematiche, magari ai loro tempi presenti in forma solo incipitaria e che oggi ci affliggono in forma massiccia: penso, per esempio, al tema dell’inquinamento ambientale, che era sperimentato soprattutto nelle metropoli del tempo, Roma, Alessandria,e poche altre; ma anche a esigenze apparentemente più frivole, come la smania di un aiutino per alcuni ritocchini estetici, un problema, evidentemente, che solo poche donne di condizione medio-alta potevano avvertire e su cui potevano intervenire, su cui Ovidio si sofferma in vari punti della sua produzione, nei Medicamina faciei femineae come anche nel terzo libro dell’Ars amatoria.
Ma soprattutto, se il latino è davvero, come ha detto qualcuno, il “codice genetico dell’Occidente”, mi pare che più che “davanti a noi”, esso sia “dentro di noi”: e mi sembra, che, paradossalmente, tanto più in campo medico stiamo scoprendo come la genetica sia la branca risolutiva per tante tipologie di problemi, dal punto di vista storico e culturale ci stiamo avviando, in massa, a un’opera di rimozione spensierata di quello che siamo nel profondo, e di quelle che sono le nostre origini. Eppure, ben difficilmente chi non sa chi è e da che storia proviene può sapere dove andare.
Scorrendo i vari capitoli, leggendo delle speculazioni politiche in Roma antica, gli scandali sessuali, la correzione, verrebbe da dire (ovviamente in latino): davvero Nihil sub sole novi.
Esattamente: già duemila anni fa, nonostante quel tempo e quella civiltà siano stati molto diversi da noi, ci si interrogava su problemi e drammi analoghi. Un po’ perché, mi piace pensare, sulla linea di un’autrice che con il latino non aveva nulla a che fare (non inorridite: penso a quella grande e, per molti versi, misconosciuta scrittrice che fu Agatha Christie con la sua Miss Marple), che la natura umana è sempre simile a se stessa.
Nel suo libro emergono anche figure di grandi maestri, uno sopra tutti Seneca...
Seneca era un uomo dall’intelligenza affilatissima, ma che ci conquista perché era umanissimo, pieno di contraddizioni, delle quali spesso si giustifica: penso, per esempio, a come, da filosofo, risponde alle critiche di quanti gli rinfacciavano che, dall’alto della sua posizione di primissimo livello a corte (precettore di Nerone e poi, di fatto, coreggente dell’Impero), aveva accumulato favolose ricchezze. Ebbene, egli per prima cosa dice che un filosofo non deve per forza di cose essere povero: deve imparare che i beni materiali sono fugaci e passeggeri, e deve saper, all’occasione, fare a meno di essi, ma non è da imputargli a colpa il fatto di possedere un vasto patrimonio (Seneca ci fa capire che i soli orecchini della moglie valevano quanto le sostanze di una famiglia benestante). Oppure, egli, dopo aver biasimato la mollezza di costumi tipica delle località di villeggiatura alla moda (Baia, la Montecarlo del tempo, frequentata anche da Nerone e da altri vip del tempo), descrive i passatempi dell’élite in vacanza con tale precisione da farci dire: “Beh, ma allora, se li descrive così bene, li conosce: ci è stato anche lui!”. Seneca stesso dice che, se la filosofia è medicina dell’anima, egli non è altro che un malato come tanti, giacente come tutti gli altri “malati” nello stesso ospedale, e capace di applicare rimedi palliativi, ma non terapie risolutive, alla sua malattia.
Seneca, inoltre, conosceva bene i mali dello spirito, oggi diremmo le distonie neurovegetative e gli attacchi d’ansia, e anzi, più volte, nelle Lettere a Lucilio, ci descrive proprio un attacco di questo male cui, ci dice, egli andava frequentemente soggetto: davvero sembra un nostro contemporaneo, per molti versi, anche per gli argomenti consolatori, modernissimi e a volte paradossali, che sa elaborare; ma di questo parlo nel mio prossimo libro, in uscita per Marietti 1820 a breve.
Questo autore, però, è chiamato in causa anche per quanto riguarda il capitolo che tratta del fallimento educativo: nel mio libro riporto l’ultimo colloquio del filosofo con il suo allievo, Nerone (riferitoci da Tacito, negli Annali): il giovane imperatore dimostra di aver recepito benissimo, anzi, sin troppo bene, gli insegnamenti del maestro, e si presenta come un interlocutore retoricamente ferratissimo, temibile e molto, molto insidioso.
Sul tema del fallimento, educativo, ma anche politico e familiare, chiamo in causa anche Cicerone, altro autore che ritorna in vari capitoli del volume: in effetti, noi siamo abituati a pensare ai classici come a personaggi esemplari, la cui grandezza è scolpita nel marmo, circonfusi di gloria, passati alla storia per il valore paradigmatico di quanto scrissero e per le loro azioni. Ma sono stati anche uomini, dunque non al riparo da cadute e fallimenti, a volte clamorosi.
Perché secondo lei non viene riconosciuto al Latino il merito che gli spetta nella nostra cultura?
Perché studiarlo e padroneggiarlo richiede tempo, applicazione, e un po’ di fatica. Non più che per altre materie, intendiamoci: penso alla matematica, alla chimica, alla fisica, tutte discipline in cui a scuola, anche dove sono materie di indirizzo, e quindi dove si richiede un certo grado di approfondimento, si registrano picchi di insufficienze. Il fatto è che viviamo in un tempo in cui tutto quello che è minimamente difficile, che richiede tempo, impegno, concentrazione non episodica (negli studi come nei rapporti umani) è disincentivato dal mainstream. Tutto deve essere easy e smart: e ne stiamo infatti vedendo i risultati.
Per concludere, in che modo la lingua e la cultura latina possono aiutarci a sopravvivere in questa oscura età della postmodernità liquida?
Spero che un po’ trapeli dalle pagine del mio libro anche un piccolo insegnamento che dobbiamo tenere presente come chiave del vivere meglio: saper relativizzare, saper guardare oltre il nostro angusto orizzonte personale. Chi vive affogando nei problemi quotidiani, quei piccoli problemi che avvelenano la vita, può vedere che l’amore infelice, il tradimento, i dissapori familiari, le delusioni scolastiche, non sono solo mali che affliggono noi, ma sono problemi che aveva già l’uomo romano di duemila anni fa, spesso in forma molto più massiccia. E, un pochino, relativizzare, è la chiave se non per vivere con maggior leggerezza, almeno per non affogare nei problemi. Fonte
10 commenti:
"Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso."
BENEDETTO XVI
A proposito: con la faccenda del "MUNUS Petrinum" e del "MINISTERIO Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri" il latino è un preziosissimo alleato della verità.
Oggi i registratori ci sono eccome e tutti le pentole senza coperchi hanno il marchio.
Infatti nelle traduzioni "il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita".
La "banda del buco" che ha trescato e sta trescando a tutto vapore, sta proprio dimostrando come l'ignoranza possa "lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli".
Dio invece non si accontenta di parole o di grandi numeri per votare a maggioranza.
Agisce in modo sacro, unico, separato: come nel Santissimo Sacramento: "Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso."
Il rito, la forma che dà sostanza, compreso il "latinorum" e l'essere uomo di Dio, permettono anche a uno solo, debole ma fedele, di ottenere ciò che centinaia non possono.
Abbiamo recentemente letto di Elia con i profeti di Baal: il profeta usa le pietre per riferirsi alla tradizione delle dodici tribù, scava il canaletto attorno all'altare (apparentemente senza senso), poi bagna -tre volte- abbondantemente la legna che dovrà bruciare sopra le pietre...
E Dio accende il fuoco sulla legna bagnata che sorregge il sacrificio, prosciugando l'acqua del canaletto... che quindi aggiunge significato al miracolo a prova di scetticismo.
Che fine hanno fatto i 450 profeti di Baal convocati da Acab sul Monte Carmelo?
Una bella tavolata finale a pizza e fichi, perché Dio alla fine è uno solo?
Durante la Santa Messa del 10 giugno la lettura di 1Re 18 si interrompe al versetto 39.
Il popolo non solo assiste al fatto, non solo si inchina, ma cade con la faccia a terra!
Non letto il versetto 40, che resta registrato nella Scrittura, Sacra come la Traditio.
"Elia disse loro: «Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi uno!».
Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li scannò".
Amicus Plato, sed magis amica veritas.
Ciò che è andato perduto dal Vaticano secondo in poi è lo spirito Scolastico veicolato in maniera mirabile dalla tradizione latina medievale (avversata tanto dai protestanti quanto dagli ortodossi). A questa si deve cercare in tutti i modi di riallacciarsi.
"Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto “sonoro” potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino”.
(Giovannino Guareschi)
https://www.youtube.com/watch?v=IsH-JkTcYts&feature=share
Omelia don Secci in occasione del Corpus Domini
Il discredito in cui è caduto il latino è lo stesso discredito a cui si è lavorato alacremente per affossare la cultura precedente il '68, cultura bollata come elitaria da sostituire con quella democratica, popolare,socialista, comunista. Cominciamo col dire che la cultura precedente il '68 era profondamente segnata dall'insegnamento della Chiesa, ma questa era vissuta e denunciata dai soliti sfascisti come un grande limite oscurantista, imperdonabile se si voleva correre verso lo splendido futuro dietro l'angolo. Come scrissi ogni parroco sempre si studiò di individuare le migliori menti tra i monelli che veniva educando per poi aiutarli a poter continuare gli studi. Ebbe inizio dunque la cultura democratica nazionale che pescò, per gli italiani più avanzati, gran parte dei suoi classici Oltralpe e per quelli meno avanzati smantellò la formazione Cattolica con l'invito a togliersi le mutande una volta per tutte. Nel mentre venivano istituiti corsi di recupero per gli operai, ai quali venivano poi messi nelle mani quei famosi classici d'Oltralpe tormenti tormentati e tormentanti. Quindi il latino uscì piano piano di scena.Siccome noi abbiamo una seria infinita di concetti che derivano dalla cultura greco-latina, ma dalla cultura latina era bene non attingere perché la Chiesa allora era maestra del Latino ed era ancora oscurantista, retriva, sessuofoba, si andò così a pescare nel Greco quei concetti che meglio di così non potevano essere espressi. Il resto è storia conosciuta la Chiesa sempre più infiltrata divenne chiesa di servizio al padrone di turno. Gli Italiani furono educati ed istruiti come Dio volle, ma volle il nostro bene non lasciandoci mai mancare le eccellenze latiniste e mille altre eccellenze che hanno resistito all'attacco frontale della superbia, ignorante ed ipocrita. Questo è a mio avviso il vero miracolo italiano, aver resistito all'invidia di molti che ci vollero e ci vogliono morti di generazione in generazione, per generazioni e generazioni. Questo nostro strano destino dipende forse dallo sforzo che molti di noi, sconosciuti e conosciuti, fanno per essere e restare Cattolici. Credo proprio che l'odio inveterato verso di noi dipenda, all'interno e all'esterno, dal volere noi la Chiesa Cattolica e dal cercare noi stessi di essere, di vivere da Cattolici.
A cosa serve tutto l'impegno, latino incluso?
A salvare le anime dal peccato, dal demonio, dall'inferno, dalla perdizione!
E come si può fare?
Con fede, doppia, in Gesù: presente nell'Eucaristia e anche nel cuore del credente che lo riceve! Un cuore fattosi pisside, nel tabernacolo. Dopo la Comunione siamo in questo stato.
Non è nemmeno quella "normale", non quella "doppia".
PS per quelli che sono tutti "Sola Scriptura": oggi, messa ambrosiana, la seconda lettura ha saltato un paio di versetti (26 e 27) del primo capitolo della lettera ai Romani. Ma va?
Allora: l'Eucaristia un tanto al tocco, tra mascherine e guanti in lattice, per soddisfare il comitato tecnico scientifico.
La Scrittura a pezzi, saltando ciò che implicherebbe discussioni con qualche parlamentare.
Le processioni evitate forse perché non manifestano per ciò che conta per il potere.
Di questo passo il Figlio dell'uomo troverà fede sulla terra al Suo ritorno?
Questo thread capita a fagiolo. Quindi mi appello ai latinisti del blog:
Avrei da inserire, nella revisione di una mia pubblicazione specifica (penultima riga di p. 318), l’Esorcismo di Leone XIII – quello famoso composto dopo la spaventosa visione del 13 ottobre 1884 –, poi compreso nel Rituale Romanum, che include anche la preghiera a San Michele Arcangelo, la cui forma ridotta venne recitata in conclusione della Messa piana fino alla “riforma” del 26 settembre 1964 (Istruz. Inter œcumenici 48, par. j: preces Leonianæ supprimuntur). Ebbene, il 99% dei testi reperibili nel web riporta una formulazione, che è la seguente:
Ecclesiam, Agni immaculati sponsam, faverrimi hostes repleverunt amaritudinibus, inebriarunt absinthio; ad omnia desiderabilia ejus impias miserunt manus. Ubi sedes beatissimi Petri et Cathedra veritatis ad lucem gentium constituta est, ibi thronum posuerunt abominationis et impietatis suæ; ut percusso Pastore, et gregem disperdere valeant.
Sono parole che compaiono pure in questo blog, ad esempio nella seguente pagina:
https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2020/04/vade-retro-la-neo-chiesa-dialogante.html
L’Esorcismo è, in essa, così tradotto:
La Chiesa, sposa dell’Agnello immacolato, è stata colmata di amarezze e stordita con l’assenzio da nemici tremendi; hanno sacrilegamente messo mano a tutte le sue cose più desiderabili. Dove era stabilita la sede del beatissimo Pietro e la Cattedra della verità per la luce delle genti, essi hanno posto il trono dell’abominazione e dell’empietà; perché colpito il Pastore, potessero anche disperdere il gregge.
Tuttavia, dovendo io cercare la fonte di questo Esorcismo, da inserire nell’apposito Indice bibliografico, ho verificato che gli Acta Sanctæ Sedis del 1890-91 (23), p. 744 riportano un termine differente –faverrimi –, nella versione ufficiale reso invece con vaferrimi:
http://www.vatican.va/archive/ass/documents/ASS-23-1890-91-ocr.pdf
Ora io sarei portato a seguire il testo degli ASS, anche perché il mio vocabolario di Latino riporta, sub vocem vafer: “scaltro, astuto, furbo, abile, sottile”. D’altro canto, nemmeno i Glossari del Latino medievale di cui dispongo (es. Du Cange) presentano il lemma faverrimus o altra parola da cui potrebbe derivare questo superlativo. Si tratta di un refuso, di un hapax o cos’altro? Ringrazio fin d’ora chi vorrà rispondermi.
Anonimo 14 giugno 2020 17:58, faverrrimus e`sicuramente un refuso.
"e`sicuramente un refuso"
Grazie. Mi meraviglia che nessuno se ne sia accorto prima, visto che questo Esorcismo è tornato in auge di recente e se ne parla spesso.
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