Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 6 dicembre 2014

Può il Papa proibire legittimamente la celebrazione della S. Messa di rito romano antico, pur senza averla mai abrogata? Risposta: non può.

Ringrazio Paolo Pasqualucci, per averci resi partecipi di questo suo nuovo articolo.

Hanno destato stupore recenti dichiarazioni di mons. Guido Pozzo [sul blog vedi qui], segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, a proposito della celebrazione della Messa di rito romano antico. In una lettera del 7 aprile 2014 al superiore generale dell’Istituto del Buon Pastore, mons. Pozzo ha ribadito che l’Ordo Vetus non è mai stato abolito dalla Chiesa “perché la Chiesa non abolisce una forma liturgica in quanto tale”. Tuttavia, poiché “l’autorità della Chiesa limita o restringe l’uso dei testi liturgici”, cosa che si è “verificata negli anni del dopo-Concilio”, tutti devono obbedire se l’autorità applica tali misure restrittive anche all’Ordo Vetus, non permettendo di fatto che esso venga celebrato in certi tempi e/o da alcuni soggetti, nonostante la mancata sua abrogazione.

Non ci sono finora state, a quanto risulta, proibizioni ufficiali pubbliche, formali di celebrare l’Ordo Vetus, ma vige e “si ripete fortemente il consiglio”, privato e non, di celebrare (anche) il Novus Ordo a quei pochi che hanno avuto l’autorizzazione a celebrare l’Ordo Vetus e di tener presente che “bisogna mettere in rilievo l’intima convergenza delle due forme” del rito[1].

Dichiaro subito di concordare con coloro che sostengono non esser la tesi di mons. Pozzo accettabile. Il che significa: nessun fedele è tenuto ad obbedire al divieto di celebrare (se sacerdote) la Messa di rito romano antico o di attendervi, se laico.
  1. Perché il Papa dovrebbe proibire la celebrazione di una Messa che esiste da venti secoli e non è mai stata abrogata? Lo si spiega mai, entrando nel merito della questione? Il punto essenziale della questione mi sembra essere proprio questo: perché il Papa, pur senza averla abrogata, dovrebbe proibire (“restringere”) la celebrazione della Messa di rito romano antico (Ordo Vetus)? Una Messa il cui Canone risale per costante e consolidata tradizione all’ambiente apostolico, anzi addirittura a S. Pietro? Messa, dunque, celebrata da circa venti secoli, nella quale i Papi avevano, com’è ovvio, sempre ravvisato una perfetta sintonia tra la lex credendi e la lex orandi? Una Messa non per nulla sempre odiata da eretici di ogni tipo e in particolare da quei funesti eresiarchi che sono stati Lutero e Calvino. Invece, guarda un po’, alcuni esponenti protestanti hanno affermato in un recente passato che sarebbe stato “teologicamente possibile” per i loro settari partecipare alla nuova messa cattolica. E, se ben ricordo, questa “nuova messa” suscitò al tempo anche il pubblico compiacimento di comunisti e massoni.
Mons. Pozzo dovrebbe avere il coraggio di spiegare a noi fedeli per qual mai motivo proprio un Romano Pontefice dovrebbe proibire ai sacerdoti di celebrare questa Messa e a noi fedeli di parteciparvi. Ha forse cessato di essere dall’oggi al domani una Messa cattolica? Il discorso va fatto nel merito della questione, senza nascondersi dietro il principio d’autorità.  Naturalmente, rientra nei poteri del Sommo Pontefice “restringere”, nel modo che egli ritenga opportuno, “l’uso dei testi liturgici”, in generale. Però, quando “restringe o limita” non si può pensare che lo faccia per far restare i fedeli senza Messa: lo fa, evidentemente, per far prevalere un tipo di rito su un altro o su altri, considerati inaffidabili sul piano dottrinale. E così accadde quanto fu promulgato il Messale Romano.
  1. Non è vero che la Chiesa non abbia mai abolito dei riti: proprio questo ha fatto san Pio V nel 1570, quando ha promulgato il ‘Messale Romano’. È ancora diffusa l’opinione, secondo la quale la Messa “tridentina” è un nuovo rito, fabbricato dalla Curia su impulso del Concilio di Trento. Ma ciò è del tutto falso, come ha dimostrato mons. Klaus Gamber, liturgista sommo, scomparso nel 1989.
“Come abbiamo mostrato, il Rito Romano risale, in parte considerevole, almeno sino al sec. IV. Il Canone della Messa, salvo piccole modifiche effettuate sotto san Gregorio Magno (590-604), già sotto Gelasio I (492-496) risultava nella forma che ha conservato fino ai nostri giorni. L’unico punto su cui tutti i Papi, dal sec. V in poi, hanno sempre insistito è stata l’estensione alla Chiesa Universale di questo Canone Romano, sempre ribadendo che esso risale all’Apostolo Pietro. Nella composizione di altre parti dell’Ordo Missae, così come nella scelta dei Propri delle Messe, essi hanno rispettato le usanze delle Chiese locali […] Nel Medio Evo, quasi ogni chiesa locale, o almeno quasi ogni diocesi, utilizzava un proprio Messale, quando non aveva spontaneamente adottato il Messale della Curia. Nessun Papa interferì mai in tali decisioni […] Le cose erano a questo punto, quando fu indetto il Concilio di Trento a difesa dal protestantesimo. Esso decretò la pubblicazione di un Messale perfezionato e uniforme per tutti. Che cosa fece san Pio V? Egli prese, come già detto, il Messale della Curia in uso a Roma e in molti altri luoghi, e lo perfezionò, riducendo, fra l’altro, il numero delle Feste dei Santi. Ma non impose l’obbligo di questo Messale a tutta la Chiesa: rispettò bensì tradizioni locali risalenti a soli duecento anni addietro [poco, per i tempi della Chiesa]. Tanto bastava per esser dispensati dall’obbligo dell’adozione del Missale Romanum. Il fatto che la maggioranza delle diocesi abbia ben presto adottato questo Messale, è dovuto ad altre cause. Da Roma non venne esercitata alcuna pressione”[2].

Così il rito romano antico fu chiamato “Messa Tridentina”. Ma, sottolinea mons. Gamber, “non esiste in senso stretto una Messa Tridentina, per il fatto che non è mai stato promulgato un nuovo Ordo Missae in seguito al Concilio di Trento. Il Messale che san Pio V fece approntare non fu in realtà nient’altro che il Messale della Curia, in uso a Roma da molti secoli e che i Francescani avevano già introdotto in gran parte dell’Occidente: un Messale, tuttavia, che non era mai stato imposto universalmente e in modo unilaterale. Le modifiche apportate da san Pio V al Messale della Curia si rivelano talmente modeste da poter esser scorte soltanto dallo specialista”[3].

Dunque, san Pio V, con la costituzione apostolica del 17 luglio 1570 “Quo primum tempore”, con la quale promulgò il Messale, abrogò espressamente tutti i riti diversi da quello romano antico, ad eccezione di quelli che potessero vantare più di duecento anni di vita. Scrisse, infatti, al § IV: “ordiniamo che nelle chiese di tutte le Provincie dell’Orbe cristiano […] la Messa, sia quella conventuale cantata presente il coro, sia quella semplicemente letta a bassa voce, non potrà essere cantata o recitata, in altro modo da quello prescritto dall’ordinamento del Messale da Noi pubblicato”. Nel § V concedeva che potessero mantenere il loro rito le chiese che “potessero dimostrare un proprio rito ininterrottamente osservato per oltre duecento anni”. Nel § VI, affermava solennemente: “mentre con la presente Nostra Costituzione, da valere in perpetuo, priviamo tutte le summenzionate Chiese dell’uso dei loro Messali, che ripudiamo in modo totale e assoluto, stabiliamo e comandiamo, sotto pena della nostra indignazione, che a questo Nostro Messale, recentemente pubblicato, nulla mai possa venire aggiunto, detratto, cambiato”[4].

Non è pertanto esatto quanto affermato da mons. Pozzo, che “la Chiesa non abolisce una forma liturgica in quanto tale”: san Pio V ha fatto espressamente piazza pulita di tutti i riti, altri da quello romano antico, che non potessero dimostrare di esser stati osservati senza soluzioni di continuità da almeno duecento anni! E si noti poi questo punto essenziale: egli abolì tutti questi riti a favore di quello più diffuso, più antico e più sicuro, quanto alle origini apostoliche del Canone, che è il cuore della Messa; non li abolì in favore di un rito interamente nuovo, fabbricato a tavolino, per di più con la consulenza di sei esperti tratti dagli eretici!

Come si spiega, allora, l’affermazione di mons. Pozzo? A mio avviso, con il fatto che Paolo VI non ha, com’ è noto, abrogato espressamente la messa dell’Ordo Vetus, quando ha promulgato quella nuova. Non ne ha avuto il coraggio. Si diffonde allora l’opinione che Paolo VI abbia agito così per rispettare un principio generale, quello secondo il quale “la Chiesa non abolisce una forma liturgica in quanto tale” ma si limita a “restringerla” senza abolirla, onde il fedele è tenuto ad obbedire a quella “restrizione” come se corrispondesse ad una vera e propria abrogazione di fatto. Ma un cosiffatto principio generale non esiste e non può esistere nell’ordinamento della Chiesa, lo dimostra l’esempio storico di san Pio V testé richiamato, grazie alla profonda e limpida dottrina di mons. Gamber.

Si torna allora alla questione di merito: il Vetus Ordo, dichiarato “valido in perpetuo” da san Pio V, è ancora perfettamente legittimo, dal momento che non è mai stato espressamente “ripudiato”, e tuttavia si dovrebbe obbedire alla volontà di un Papa che ne voglia restringere od impedire l’uso. E perché si dovrebbe? Se è ancora perfettamente legittimo, come ha ricordato anche Benedetto XVI nel motu proprio Summorum Pontificum, che ne “sdoganava” la celebrazione, sottraendola alla preventiva autorizzazione dell’Ordinario locale, perché mai restringerne o proibirne l’uso, per di più contro il dettato dello stesso Papa Ratzinger? Esiste una spiegazione nel merito? O dobbiamo piegarci ciecamente ad uno stat pro ratione voluntas?
  1. La questione non è disciplinare ma di merito, coinvolge la fede. La questione è di merito, non meramente disciplinare: essa coinvolge la verità di fede costituita dalla necessaria ed indissolubile connessione tra lex credendi e lex orandi, secondo la quale la lex orandideve manifestarsi in un rito che sia perfettamente conforme alla lex credendi ossia al Deposito della Fede. Può un Papa proibire la celebrazione di un rito il cui Canone risale, secondo la costante tradizione della Chiesa, addirittura a san Pietro; rito che è stato sempre considerato il rito cattolico per eccellenza, mai mutato in tanti secoli, se non pochissime volte ed in aspetti del tutto marginali? Che nella questione del Rito sia coinvolto anche il dogma, lo dimostra il fatto che l’Ordo Vetus esprime in maniera perfetta il vero significato della Santa Eucaristia, l’esser cioè essa la Rinnovazione incruenta del Sacrificio propiziatorio di Nostro Signore sul Calvario, mediante la Consacrazione delle Sacre Specie fatta dal sacerdote celebrante in persona Christi, grazie alla quale si rende realmente presente il Cristo nell’Ostia “in corpo, sangue, anima e divinità”. E proprio per questa sua perfetta corrispondenza al dogma l’hanno sempre odiato – questo rito – gli eretici e i figli del Secolo. Che la messa del Novus Ordo vi corrisponda altrettanto perfettamente è alquanto dubbio, tant’è vero che per molti, anche sacerdoti e vescovi, la messa è oggi soprattutto il memoriale della Resurrezione di Nostro Signore. A tal punto se ne è stravolto il significato!
Ce l’ha allora un Papa quel potere di “restringere”? Giuridicamente ce l’ha di sicuro ma se lo esercita per colpire un rito che tutta la tradizione della Chiesa e l’intero Magistero hanno sempre considerato per duemila anni come il rito cattolico per eccellenza, allora bisogna dire che questo potere viene nel caso di specie mal esercitato. In sostanza, si tratterebbe di un abuso di potere poiché il Papa lo impiegherebbe per danneggiare la lex credendi attraverso l’ immotivata “restrizione” di una lex orandi, nella quale da duemila anni si confermano i fedeli nei dogmi fondamentali della nostra fede.

Per esser ancora più chiari e andare ancor più al fondo del problema, possiamo mettere la cosa in questo modo: se il Papa avesse il potere di cambiare il Rito allora potrebbe anche restringere l’uso di un rito tuttora valido perché mai abrogato, che si vuol tuttavia considerare “straordinario” rispetto a quello ufficiale. Avere il potere di cambiare il rito significa poter agire nei confronti della liturgia con la più assoluta libertà, e quindi al di fuori di tutta la Tradizione della Chiesa, se del caso. In realtà, come dimostra mons. Gamber, il Papa non ha il potere di cambiare il rito consolidato dalla bimillenaria tradizione di tutta la Chiesa. San Pio V non creò alcun rito nuovo; come si è visto, nulla cambiò: per difendere la Chiesa dalle eresie e dagli scismi galoppanti, impose il rito antichissimo e prevalente, salvaguardando gli altri che lo meritavano, per la bisecolare vetustà loro, sufficiente garanzia di correttezza dottrinale.

Ma qui, si dirà, non è in questione il potere del Papa di cambiare il Rito ma quello di proibire l’esercizio di un rito tuttora valido. Secondo me le due questioni sono collegate perché è proprio in nome della legittimità del Novus Ordo che si impongono di fatto restrizioni all’Ordo Vetus. Non si è potuto abrogarlo ma non lo si vuole tra i piedi. E la legittimità del Novus Ordo è tale solo se si ritiene che il Papa abbia il potere di cambiare il Rito, creandone uno completamente nuovo, quale per l’appunto il Novus Ordo, fatto inaudito nella storia della Chiesa. Se non ce l’ha, questo potere, allora non ha nemmeno quello di impedire la celebrazione di un rito tuttora valido e perfettamente conforme alla Tradizione della Chiesa, quale l’Ordo Vetus. Perché se ne vuole impedire la celebrazione? Non lo si spiega mai, però, come si suol dire, res ipsa loquitur: per favorire quella del Novus Ordo, che però il Papa non aveva il potere di emanare, proprio a causa della sua radicale novità, della rottura che esso rappresenta con la Tradizione.

Ma vediamo gli argomenti di mons. Gamber in proposito[5].
  1. Poiché il Papa non ha il potere di cambiare il rito, sostituendolo con uno del tutto nuovo, non ha nemmeno il potere di impedire la celebrazione del bimillenario e sempre valido rito romano antico.
Che cosa intendiamo per “Rito”, si chiedeva l’illustre studioso? “Esso si può definire come l’insieme delle forme obbligatorie del Culto che, risalenti in ultima analisi a N.S. Gesù Cristo, si sono sviluppate nei dettagli a partire da una Tradizione comune, e sono state più tardi sancite dall’Autorità ecclesiastica”. Sulla base di questa definizione, mons. Gamber traeva cinque principi di carattere generale e due importanti conclusioni relative al potere del Papa nei confronti del Rito.
  1. “Se un rito nasce da una tradizione comune – e a questo riguardo non possono sussistere dubbi in chi conosce la storia della nostra Liturgia – esso non può essere rifatto ex novo nella sua globalità”.
  2. “Se nel corso del tempo un rito si evolve, è possibile e lecito un suo sempre ulteriore sviluppo, a patto però che esso rispetti la qualità intemporale di ogni rito e si effettui organicamente. Così, la libertà di culto concessa ai cristiani da Costantino ebbe come conseguenza, fra l’altro, un arricchimento del Culto stesso. La Liturgia non fu più celebrata in piccole chiese domestiche, ma in splendide basiliche, e ovunque con maggiore solennità; nacque in questo nuovo contesto il canto corale della Chiesa”.
  3. ”La Chiesa universale ammette l’esistenza di più riti autonomi. In Occidente, a parte il Romano, abbiamo il Mozarabico e l’Ambrosiano (il Rito Gallicano è da secoli estinto); in Oriente, fra altri, il Rito Bizantino, l’Armeno, il Copto, il Siro-maronita. Poiché ciascuno di questi Riti ha avuto uno sviluppo indipendente, esso presenta caratteristiche sue proprie. Singole parti di uno di essi non possono pertanto essere mutuate da un altro Rito. Non si può, ad esempio, usare nella Liturgia Romana una Anafora (o Prece Eucaristica) orientale o parte di essa (cosa che invece accade oggidì nel nuovo rito della Messa); oppure, al contrario, usare il Canone Romano in una delle Liturgie Orientali. I Papi hanno sempre rispettato i vari Riti dell’Oriente e dell’Occidente, ma solo in casi eccezionali hanno permesso il passaggio di un fedele da un Rito Orientale al Romano o viceversa. Decisivo, secondo il Codice di Diritto Canonico, è sempre stato il Rito con cui si è ricevuto il Battesimo (CIC [del 1917] c. 98, § 1). S’impone a questo punto il quesito se il Rito “moderno” sia un Rito nuovo, oppure un ulteriore sviluppo organico del Rito Romano tradizionale. La risposta risulta dal punto seguente”. Il “punto seguente”, osservo, fissa un principio fondamentale, basato sulla recta ratio e il senso comune oltre che sull’esperienza storica.
  4. “Ogni rito costituisce un’unità cresciuta organicamente. Modificazioni di alcune sue parti sostanziali significano pertanto la distruzione dell’intero rito”. Questa “distruzione” fu operata in maniera inizialmente subdola da Lutero.   “È quanto avvenne all’epoca della Riforma, quando Martin Lutero eliminò il Canone e collegò il racconto della Istituzione [della S. Eucaristia] direttamente alla Comunione. Non occorre dimostrare che, così facendo, egli distrusse la Messa Romana, pur conservando alcune forme esteriori e, agli inizi, persino la foggia dei paramenti sacri e il canto corale. Ma in seguito, abolito l’antico Rito, nelle comunità evangeliche si è passati a sempre nuove riforme nel campo liturgico”. Suona familiare? Chissà cosa direbbe mons. Gamber di fronte ai fescennini liturgici cui siamo costretti ad assistere oggi, e da tanti anni ormai.
  5. “Il ritorno a forme più primitive non comporta necessariamente un cambiamento del rito, ed è perciò, entro certi limiti, ammissibile. Così, non si ebbe frattura alcuna nel Rito Romano tradizionale quando san Pio X reintrodusse il canto gregoriano restaurato nelle sue forme originarie, o quando restituì la loro primitiva importanza alle Messe delle Domeniche “per annum” nei confronti delle feste minori dei Santi”.
Posti questi cinque punti fermi, veri e propri criteri fondamentali per regolarsi nella delicata materia, mons. Gamber affrontava la domanda cruciale.

“E veniamo ora al nostro quesito: ha il Papa il diritto di mutare un Rito che risale alla Tradizione Apostolica e che si è formato nel corso dei secoli? La nostra indagine ha fin qui mostrato come in passato l’Autorità ecclesiastica non abbia mai influito in misura cospicua sullo sviluppo delle forme liturgiche. Essa ha solamente sancito il Rito formatosi nel solco della consuetudine e, oltretutto, lo ha fatto relativamente tardi, in particolare dopo la comparsa dei libri liturgici a stampa; in Occidente, solo dopo il Concilio di Trento”. Secondo mons. Gamber, il Vaticano II, nella costituzione Sacrosanctum Concilium sulla riforma della liturgia, non si proponeva affatto una riforma liturgica dell’ampiezza di quella poi imposta da Paolo VI; esso si sarebbe limitato a suggerire una serie di modifiche che avrebbero potuto esser effettuate senza alcun bisogno di sostituire l’antico rito con uno interamente nuovo. Perciò l’Ordo Missae emanato da Paolo VI il 3 aprile 1969 fu una totale sorpresa, continuava mons. Gamber: “con esso è stato creato un nuovo Rito. L’Ordo tradizionale, dunque, non è stato riveduto nel senso voluto dal Concilio: è bensì stato totalmente abolito e, alcuni anni dopo, addirittura proscritto”; anche se, ricordo, solo di fatto: obliato, gettato alle ortiche come non fosse mai esistito. Ancor oggi molti fedeli non sanno che cosa sia. Lasciamo da parte la questione se nel Concilio si possano già trovare le premesse di certe novità introdotte dal Novus Ordo (secondo me è possibile, ma il punto non è qui essenziale). Essenziale è il fatto che un Novus Ordo si sia completamente sostituito al precedente, grazie ad una Messa nuova, che mostra solo alcuni elementi di quella del rito antico.

“Ci si domanda allora: un così radicale rifacimento è ancora nel quadro della Tradizione della Chiesa?”. La conclusione di mons. Gamber, pur nel linguaggio prudente e rispettoso, era chiaramente per la negativa. Egli mostrava, con finezza d’analisi, che la suprema potestà di giurisdizione del Pontefice non può comprendere il potere di abolire il Rito tradizionale.

“Un diritto esclusivo del Papa di introdurre un nuovo Rito anche senza una disposizione conciliare nascerebbe, così si ragiona, dalla sua “piena e suprema autorità” (plena et suprema potestas), di cui parla il Vaticano I, in quelle materie “quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent” (Denz. 1831). Ma nel termine “disciplina” non è assolutamente compreso quel Rito della Messa che tutti i Papi hanno sempre detto e ribadito risalire alla Tradizione Apostolica. Tale coerenza del Magistero pontificio è sufficiente da sola a escludere che quel Rito rientri nel concetto di “disciplina di governo della Chiesa”. A ciò si aggiunga che nessun documento, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale. Nemmeno si parla in alcun luogo di un suo diritto di modificare singole consuetudini liturgiche. Tanto silenzio è, nel nostro caso, di estrema importanza.

Alla “plena et suprema potestas” del Papa sono chiaramente posti dei limiti. È indiscutibile che egli, nelle questioni dogmatiche, deve attenersi alla Tradizione della Chiesa Universale, ossia a “quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est”, come dice san Vincenzo di Lerino. Più di un autore esprime l’opinione che non rientri nei poteri del Papa l’abolizione del Rito tradizionale.

Il famoso teologo Suarez (morto nel 1617), rifacendosi a precedenti autori, fra cui il Cajetano (morto nel 1534), sostiene che un papa diventerebbe scismatico se non volesse mantenersi, come è suo dovere, in unione e collegamento con l’intero corpo della Chiesa, al punto di tentare di scomunicare l’intera Chiesa o di mutare i Riti confermati dalla Tradizione Apostolica”.

A questa analisi non occorre aggiungere alcun commento, tanto è chiara e precisa. Dico solo che da essa dobbiamo necessariamente concludere che Paolo VI ha esorbitato dai suoi poteri quando ha imposto la sua riforma liturgica, con un Rito della Messa interamente nuovo. Secondo la corrente teologica sopra richiamata, che annovera nomi illustri, egli potrebbe anche considerarsi scismatico. Scismatico di fatto, si intende, o implicito, o in senso solamente spirituale. Infatti, l’eliminazione di fatto del Rito “confermato dalla Tradizione Apostolica” e la sua sostituzione con un Rito interamente nuovo, è paragonabile (per il suo significato) alla fondazione di una nuova Chiesa e quindi ad una separazione o frattura (scisma) rispetto a quella precedente, che resta però l’autentica Chiesa cattolica.

Qual è dunque, concludeva mons. Gamber, il vero compito della Prima Sedes nei confronti della Liturgia? Punto fermo, immodificabile: “Di certo non è compito della Sede Apostolica introdurre mutamenti nella Liturgia. Il dovere primario del Sommo Pontefice in quanto SupremoVescovo (Episcopo, ossia ispettore), è quello di vigilare sulla Tradizione, sia nel campo dogmatico che in quello morale e liturgico”. Il Papa può intervenire nella Liturgia solo in modo subordinato, complementare. “Nei pieni poteri della Sede Apostolica rientrano invece, dal Concilio di Trento in poi, la revisione dei libri liturgici, ossia la verifica delle edizioni a stampa, e l’introduzione di piccole modifiche: per esempio, l’introduzione di nuove feste”.

Voglio anche ricordare, sempre avvalendomi di mons. Gamber, un altro aspetto della rivoluzione provocata da Paolo VI ossia la vastità praticamente irreformabile del cambiamento da lui ordinato. “Il mutamento del rito non è avvenuto soltanto attraverso l’Ordo Missae del 1969, ma anche attraverso una riforma di vasta portata del calendario liturgico. L’aggiunta o l’eliminazione della festa di un Santo, di certo non avrebbe di per sé modificato il Rito. Lo hanno invece modificato la quantità e qualità delle innovazioni introdotte nell’ambito complessivo della riforma liturgica, per cui ben poco è rimasto com’era prima”.


B e n  p o c o , dunque. Le ben note differenze del Novus Ordo rispetto all’Ordo Vetus sono macroscopiche e tutte volte a ridurre il significato di sacrificio propiziatorio e sovrannaturale della Messa. Basti ricordare: il rito in lingua volgare; l’abolizione dell’altare (entrambe le cose antiche aspirazioni di quasi tutti gli eretici); la riduzione del celebrante a presidente dell’assemblea del “popolo di Dio”; l’abolizione dell’Introduzione (“Mi accosterò all’altare di Dio, Al Dio che allieta la mia giovinezza…- Salmo 42) sostituita da una breve, arida Antifona d’ingresso; l’abolizione dell’Introito; l’abolizione della preghiera alla Santissima Trinità; la cancellazione dell’ultimo Vangelo, costituito dal Prologo del Vangelo di S. Giovanni, nel quale si riafferma, alla fine della Messa, la nostra fede nella natura divina del Verbo incarnato; l’estinzione del Prefazio della Santissima Trinità; l’inchino al posto della plurisecolare genuflessione nella recita del Credo alle parole “E s’incarnò da Maria Vergine per opera della Spirito Santo e si fece uomo”; la sostanziale scomparsa dell’Offertorio, poiché le magnifiche preghiere che accompagnano l’offerta del pane e del vino sono state sostituite da una breve ed insignificante preghiera ricavata (a quanto sembra) da una benedizione rabbinica dei pasti; la rimozione dell’espressione “mistero della fede” dalla formula della Consacrazione del vino, per esser pronunziata subito dopo dal sacerdote, cui i fedeli rispondono: “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta” – mutazione che collega il “mistero della fede” più che al significato propiziatorio del Sacrificio della Santa Croce, che ci ottiene misericordia (propitiatio) per i nostri peccati, alla Resurrezione e quindi all’attesa della venuta del Cristo Glorioso! Infine, l’aver premesso la lettura di un passo del Vecchio Testamento a quella dell’Epistola e del Vangelo, quasi a voler conferire al Vecchio Testamento un primato che esso non può avere, essendosi la Nuova ed Eterna Alleanza sostituita integralmente e per sempre all’antica.

Si tenta di imporre oggi come dottrina ufficiale una cosiddetta “ermeneutica della riforma nella continuità”. Ma che la “riforma” introdotta con la Messa di Paolo VI sia veramente in continuità con la Messa cattolica di sempre, nessun osservatore imparziale potrebbe onestamente affermarlo, anche se, per riprendere mons. Gamber, “non si può sostenere, come a volte succede, che la Messa secondo il Novus Ordo sia di per sé invalida”. Bisogna dire, invece, che “il numero delle messe realmente invalide potrebbe essere notevolmente aumentato dal tempo dell’introduzione delle riforme”[6]. In un quadro del genere, l’esortazione a “mettere in rilievo l’intima convergenza delle due forme” del Rito, appare incomprensibile. Non esiste un unico Rito in due forme. Esiste un solo rito sicuramente cattolico, il bimillenario Ordo Vetus, valido in eterno, che si persiste a voler oscurare in nome di un nuovo rito, per diversi e gravi aspetti non conforme alla Tradizione della Chiesa.
Paolo Pasqualucci
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[1] Vedi: “Chiesaepostconcilio.blog” [qui], diretto da Maria Guarini, in data 17 novembre 2014, che riprende sul punto il sito “Disputationes theologicae”. Sul blog le tesi di mons. Pozzo hanno provocato un ampio ed articolato dibattito, motivatamente critico nei loro confronti.

[2] Mons. K. Gamber, La riforma della Liturgia Romana. Cenni storici. Problematica, UNA VOCE, Supplemento al n. 53-54 del Notiziario, giugno-settembre 1980, pp. 20-21. Le frase tra parentesi quadre sono mie.

[3] Op. cit., pp. 19-20.

[4] Testo tratto dalla parte introduttiva del Messale Romano, secondo l’adizione aggiornata al 1962, Edizioni S. Francesco di Sales, Priorato S. Carlo, Montalenghe, Torino, 1992, pp. X-XI. Corsivi miei.

[5][5] I passi qui di seguito riportati si trovano alle pp. 22-31 del saggio di mons. Gamber, da me citato.

[6] Op. cit., p. 33. Resta comunque il problema dell’ effettiva efficacia di questa Messa Novus Ordo.

11 commenti:

Flavio B. ha detto...

lo farà...

Cattolico ha detto...

Letterina di Natale a Papa Francesco :

Caro Bergoglio, mi rivolgo a te con quella familiarità e confidenza che tu stesso ci inviti ad avere nei tuoi confronti; lo faccio per dedicarti una canzone a me molto cara, dal titolo “Pregherò per te”, cantata dal bravo Adriano Celentano nei suoi anni giovanili (erano gli anni ’50), al suo esordio nel mondo della musica leggera. In particolare ti dedico le parole “pregheròòò, per te / che la fede non hai, / e se tuuu, lo vorrai / crederai, crederai”.

Non ti arrabbiare se prego così per te, ma è perché desidero che tu possa rafforzare, o recuperare, quella fede che finora hai dimostrato di non avere ben salda, e così tu possa dimostrare al mondo intero:

1) di credere che esiste un solo Salvatore, Gesù Cristo, un solo nome nel quale tutti (ma proprio tutti, sai?) possiamo essere salvati, e quel nome è GESU’;

2) di credere che esiste una sola Chiesa incaricata della salvezza eterna delle anime (e dei corpi) di tutti gli esseri umani che popolano e popoleranno questa terra, e che essa è la Chiesa Cattolica, fondata da NSGC sulla roccia di “Petrus” (non omologabile, quindi, alle altre confessioni cristiane, né tantomeno alle religioni non cristiane);

3) di credere, infine, che bisogna obbedire al comando (ed eseguire l’incarico) lasciatoci dal Cristo al momento della sua Ascensione al Cielo (“andate e predicate il Vangelo a tutte le genti, fino ai confini della terra, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello spirito Santo”), dimostrando in tal modo che l’evangelizzazione, il proselitismo, la conversione di tutte le genti (quale che sia il loro attuale credo religioso) non è affatto una solenne sciocchezza, ma un dovere ineludibile di tutti i cristiani, e che il rifiuto di adempiere questo incarico, quello sì che è una solenne e pericolosa sciocchezza, per noi e per il nostro prossimo.

Rafforzata così la tua fede, caro Padre Santo, potrai convincere tutti che l’unico motivo per cui la Chiesa può difendere il diritto alla sua esistenza in questo mondo incredulo è la salvezza eterna di tutti gli uomini (obiettivo per il cui raggiungimento il c.d. “proselitismo” è strumento indispensabile), mentre l’umanesimo sociale, l’aiuto ai diseredati, la “cura delle ferite” sono compiti che possono svolgere agevolmente anche le Onlus, le Ong, le associazioni filantropiche, di qualsiasi razza o religione.

Con i migliori auguri di Buone e Sante Festività Natalizie,

un fedele (ma ostinato e un po’ testardo), devoto cattolico

Anonimo ha detto...

il punto valido del discorso di Pasqualucci è il 3, quello sul merito. Ma dal fatto che la Messa tridentina esprime la fede cattolica (mentre l'altra messa no) si evince che non bisogna celebrare la Messa di Paolo VI, non che si può dire la Messa tridentina. Finché il discorso resta sul diritto positivo, e non si entra nel merito dell'eterodossia del nuovo rito, stiamo solo cavillando

viandante ha detto...

Effettivamente il punto 2. non mi sembra sia stato affrontato in modo esaustivo.
In particolare non si risponde alla domanda più semplice ed evidente a tutti: se vi è un indulto perpetuo come lo si può abrogare?
In effetti, o si cambia il senso della parola "perpetuo" (o almeno mi si dicano quali sono i cavilli giuridici o teologici che potrebbero portare ad un ridimensionamento di tale indulto) oppure è perpetuo nel senso che nessuno, nel tempo, lo può abrogare.

tralcio ha detto...

Il Signore è grande!

http://www.lamadredellachiesa.it/il-miracolo-di-benedetto-xvi-2/

Benedetto fa miracoli da vivo!

E la Provvidenza è così fantasiosa da mandare un miracolato a studiare dai gesuiti!

Comunque vorrei essere un po' come gli ortodossi: meno spazio al papato (nella sua personalizzazione umana) e totale attenzione alla tradizione della Chiesa, che dal papato prescinde, perchè non possiamo consegnare la soprannaturalità della Chiesa alle preferenze di personaggi terreni, quand'anche santi... e figurarsi quando santi non sono.

Michele Durighello ha detto...

Buonasera a tutti, sono Michele Durighello dalla provincia di Treviso.Se mi è consentito esprimermi, il buon Dio che è anzitutto un Dio giusto non permetterà che i vari Pozzo della situazione facciano impunemente tutto e il contrario di tutto. Pozzo poi è stato nominato da Wojtyla e anche Ratzinger ha dato dei segnali di comprensione per le motivazioni di coloro che hanno una sensibilità particolare e che soffrono per le attuali dinamiche interne ed esterne al clero...dinamiche che purtroppo hanno snaturato la fede!
Non prevalebunt..

Pietro C. ha detto...

Il principio di autorità sostituisce il principio di tradizione. L'ho detto e lo ripeto e questo no vale solo per la liturgia poiché nel mondo cattolico attuale lo si applica ovunque. Si tratta, in realtà, di una perversione ecclesiologica.

Anonimo ha detto...

Scusate la domanda, non sono un esperto in materia, ma di principio la messa può essere abrogata da una qualche autorità?

Anonimo ha detto...

Una testimonianza:

https://bergoglionate.wordpress.com/el-jesuita/

Josh ha detto...

anonimo 11.40

concordo tantissimo con la lettera postata.

non per dire "l'avevo notato prima", ma da marzo 2013 anche io convergevo con il richiamo cinematografico notato dall'autore del pezzo che segnali.

era un film di satira amara, che pare essersi realizzato.
da "Dogma" di Kevin Smith del 1999
il "Cristo Compagnone"

https://www.youtube.com/watch?v=FQf7kDBN1lI

Anonimo ha detto...

@ Cattolico; Eh no, caro il mio Cattolico, adesso ti dimostrerò che quanto tu affermi è assolutamente sbagliato, frutto di una mentalità chiusa, oscurantista, integralista, e discriminatoria. Per far ciò prenderò in esame separatamente i tre punti da te elencati:
1) quanto al primo punto, non si può e non si deve dire che la salvezza c’è solo in Cristo Gesù, che solo nel suo nome gli uomini possono raggiungerla, e questo perché ciò sarebbe un grave ostacolo al’ecumenismo, alla pace tra le religioni, alla fratellanza tra gli uomini; e poi, a bene vedere, la salvezza ci viene donata da Dio Padre, che alcuni chiamano Javhè, altri Allah, altri ancora con altri nomi, ma è sempre lo steso Dio che tutti noi invochiamo e preghiamo, e che nella sua infinita misericordia perdona i nostri errori e ci dona la salvezza; è bene quindi non parlare di Cristo, ma di Dio, del’unico Dio, padre di tutti i popoli, per non correre il rischio di creare divisioni e lotte tra le religioni; è bene, altresì, nascondere i simboli (crocifisso, quadri, statue) con i quali la Chiesa Cattolica nei secoli passati ha imposto con forza il suo credo ai popoli dei quattro continenti; la fede non di deve esportare con la violenza, l’imposizione, bisogna alimentarla con il dialogo;
2) quanto al secondo punto, non è affatto vero che solo la Chiesa Cattolica ha il compito di condurre gli uomini alla salvezza, alla verità; questo perché tutte le religioni hanno in sé una parte della Verità, anche se nessuna di esse (inclusa la Chiesa Cattolica) la possiede interamente; tutte sono in cammino verso la Verità tutta intera; quindi bisogna che tutte le religioni dialoghino tra loro, che ognuna si arricchisca delle parti di verità contenute nelle altre, e che tutte camminino insieme verso la casa del Padre, del’unico Dio, senza farsi la guerra tra loro; la vecchia massima “extra Ecclesia nulla salus” è quindi sbagliatissima, è stata creata affinché il cristianesimo avesse maggiori probabilità di espandersi e di affermarsi, a scapito delle altre religioni, ma oggi non si può più ragionare così, non si può più ricorrere a questi trucchi ;
3) quanto al terzo ed ultimo punto, poi, la sua negazione è la naturale conseguenza dei primi due, del secondo in particolare: se tutte le religioni sono uguali, se tutte hanno in sé un germe di verità (più o meno grande) e tutte sono in cammino verso la Verità tutta intera, che nessuna di esse possiede, che senso ha rubarci gli adepti l’una all’altra? creare divisioni, contrapposizioni, lotte e contrasti? solo a rischiare di far esplodere delle inutili e dannose guerre di religione; no, no, finalmente il CV II ci ha aperto gli occhi (con il documento Nostra Aetate), ci ha fatto capire che tutte le religioni sono meritevoli di rispetto, di esistenza, e che bisogna che esse dialoghino tra di loro, si aiutino a vicenda (ad esempio nel ricercare la pace mondiale, la giustizia sociale, nel combattere le discriminazioni, ecc.); concludendo, quindi, papa Francesco fa bene a dire che il proselitismo è una solenne sciocchezza, anzi un comportamento pericolosissimo per l’ecumenismo e la pace tra le religioni ed i popoli; la missione della Chiesa nel mondo moderno non deve essere più intesa come in passato, l’evangelizzazione deve oggi essere intesa come un andare fuori, incontro agli altri popoli, razze e religioni, per dialogare con loro, per curare e loro ferite, in quell’ospedale da campo che è oggi la Chiesa di Cristo, niente di più, niente di meno.
Capito quindi, amico mio, quanto sono errate le tue affermazioni? come è sbagliato e fuorviante il tuo pensiero? abbeverati alla nuova pastorale portataci da papa Francesco, “il grande riformatore”, come è stato giustamente soprannominato, e vedrai che non avrai che da rallegrartene.