Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 20 maggio 2013

Maria Guarini. Il Latino. Una lingua sacra da preservare

Il testo è tratto dal piccolo saggio: Maria Guarini, « La questione liturgica. Il Rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Concilio Vaticano II », Parva Itinera, 2013

Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.[1] 

Oltre alla sacralità del culto, anche questa cultura è a rischio, oggi che persino i sacerdoti non sono messi in grado di accostare i Padri della Chiesa e i classici nei loro testi originali. Se la Chiesa avesse utilizzato esclusivamente lingue correnti e locali, molta confusione sarebbe stata generata dalla grande estensione dei periodi di tempo e dei territori geografici che essa, unica tra tutte le istituzioni umane, aveva e ha il compito di raggiungere. E questa confusione rischia di sommergerci oggi. Recentemente, da alcuni segnali sembra si stia correndo ai ripari. Penso al recente Motu proprio Latina Lingua che istituisce la Pontificia Academia Latinitatis. Speriamo che ciò risulti efficace sul campo, perché non basta promuovere, occorre anche gestire e rendere obbligatoria l’applicazione dei provvedimenti.

Quanto al Rito Romano, l'iconoclastia non ha riguardato solo la lingua e la cesura col passato operata dalla riforma bugniniana ha portato al relativismo sia i sacerdoti che le persone. Se invece lo sguardo è rivolto al crocifisso, centro della Liturgia, si ripristina la giusta interiorizzazione e conseguente esteriorizzazione, cioè la liturgia diventa vita. Nell'Antico Rito il dialogo tra sacerdote e fedeli non manca nello scandire delle formule, ma resta essenziale sobrio profondo proprio per il linguaggio che non è quello che usiamo tutti i giorni per andare al supermercato. È questa la messa che ha forgiato santi per millenni, che è arrivata a noi pressoché intatta, sicuramente nel canone, fin dal IV secolo. La vetus latina data dal II secolo e il suo è già un linguaggio ieratico, codificato, reso sacro anche dallo scandire delle generazioni ed immutabile, come è necessario che sia per sottrarre i significati profondi alla mutevolezza delle traduzioni nel linguaggio vernacolare che si evolve con i tempi e le culture. Una 'forma' che papa Damaso, nel IV secolo non ardì cambiare se non nelle “letture”, introducendo i testi della Vulgata di S. Girolamo, che Papa Gregorio si adoperò perché fosse diffusa in tutta l’Europa e San Pio V codificò. Oggi, invece, abbiamo assistito e assistiamo a traduzioni - e persino ad arbitrarie manipolazioni - che spesso diluiscono quando non oltrepassano il senso profondo di espressioni intraducibili da custodire e preservare così come sono perché tutte le generazioni possano riceverne la fecondità.

Ci siamo dimenticati che il volgare non è una conquista. La lingua sacra, strutturata, in ogni espressione gesto e significato conserva il dogma, la fede degli Apostoli arrivata fino a noi attraverso i secoli, conserva il senso dell'indicibile e anche dell'intraducibile: ci sono parole che, è bene ribadirlo, hanno uno spessore di significato che qualunque traduzione tradirebbe e successive traduzioni rese necessarie dall’evolversi del linguaggio non farebbero che allontanare sempre di più dal loro senso originario. Si partecipa non solo col cervello: bisogna guardare, ascoltare, adorare... in più la lingua universale fa sentire tutti a casa ed ha la stabilità, la pregnanza che la traduzione appunto banalizza, senza contare i sacri silenzi. Il volgare bastava introdurlo, come già si fa nelle celebrazioni Summorum Pontificum, solo nelle letture. 

Infine il latino non è un ostacolo, perché la traduzione presente nei messali consente a tutti la giusta comprensione. E poi è un latino semplice: prendiamo il Confiteormea culpa … basta un po’ di frequentazione e anche le persone che non lo conoscono possono acquistarvi dimestichezza con la frequenza dell’uso. Basta vincere i pregiudizi e la damnatio memoriae che purtroppo accenna ancora solo timidamente a rettificarsi, per effetto della quale la Chiesa Universale non è più riconoscibile in una comune celebrazione che ognuno possa ritrovare in ogni parte del mondo, che era ed è la sua ricchezza. 

Occorre che chi si accosta al rito usus antiquior o lo ritrova vi « assista con mente sgombra da preconcetti, senza la smania di capire tutto subito, lasciandosi penetrare dalla sacralità del rito, riscoprendo il valore della preghiera personale (lasciata in disparte dalla moderna liturgia), apprezzando la funzione di una lingua che inizialmente si crede un ostacolo ma che poi si rivela chiave di accesso ad una dimensione ulteriore, quella del sacro e del divino, che molti probabilmente non hanno mai conosciuto nella preghiera liturgica ».[2]

Nella Veterum Sapientia di Giovanni XXIII (1962) non si manca di rammentare che il latino resta un lingua immutabile - e dunque fissata in registri ben definiti e sottratti alle evoluzioni nel tempo delle lingue nazionali - citando Pio XI[3]:
«Infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli... richiede per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare». 
Indispensabile per esprimere i concetti con chiarezza e solidità di pensiero. Ecco perché resta perennemente valido per comunicare il pensiero con certezza, forza, precisione, e ricchezza di sfumature. Per questo è tuttora insostituibile nell'esercizio del magistero, soprattutto nelle definizioni dogmatiche, per le quali non si ammettono ambiguità ed inoltre nelle parti principali della liturgia, nelle quali le res humanae, transeunti, sono immerse nel mistero ma anche nella fecondità delle res divinae, eterne ed immutabili. 

Papa Ratzinger ha espresso l'intento di far crescere la conoscenza della lingua di Cicerone, Cesare, Tacito, Seneca, di Agostino e di Erasmo da Rotterdam, nell’ambito della Chiesa ma anche della società civile e della scuola. Per questo, l'11 novembre 2012, ha emanato il Motu proprio Latina Lingua che istituisce la nuova «Pontificia Academia Latinitatis». Ne è presidente il rettore dell'Alma Mater di Bologna, Ivano Dionigi, che nel suo indirizzo in occasione dell'insediamento ha ricordato che la giovinezza perenne dei classici è un tesoro prezioso per ogni epoca, ma dev'essere riscoperta, coltivata e protetta. Molte cose possono essere fatte per raggiungere questo scopo, ad latinam linguam fovendam: il verbo foveo significa appunto tenere al caldo, proteggere, coltivare, custodire. Nessuna generazione deve sottrarsi a questo compito perché, solo il presente “esiste” davvero, secondo sant'Agostino, mentre «ciò che hai ereditato dai padri conquistalo per possederlo», diceva Goethe secoli più tardi.
__________________________
1. Uwe Michel Lang, Intervento al primo Convegno su il Motu Proprio Summorum Pontificum - Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, Roma 16-18- settembre 2008
2. Il Latino nella liturgia. Spunti di riflessione di Daniele di Sorco.
3. Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452

15 commenti:

Anonimo ha detto...

Sul volgare nelle letture (anche durante una Messa VO) non ho naturalmente nulla in contrario, ma frequentando questa Messa ormai da anni mi sono reso conto che la lettura in latino ha un significato profondo e importantissimo. Certo, si può obiettare come al solito che "la gente così non capisce". Ma i brevi brani tradotti ed estrapolati dal contesto che costituiscono oggi le letture della Messa rischiano davvero, nella percezione comune, di scadere a "storielle", "raccontini" qualunque. Proclamarli magari cantandoli in latino ne sottolinea veramente il carattere di "Verbum dei", di Parola che viene dall'alto. Quanto al "capirle", a questo scopo c'è sempre stata la predica, che non dovrebbe essere una chiacchierata sui massimi sistemi o sui temi del giorno ma appunto in primis la traduzione e la spiegazione delle letture.

bedwere ha detto...

Negli USA le letture sono sempre in latino, ma vengono ripetute in inglese prima dell'omelia. A me sembra la soluzione migliore.

Anonimo ha detto...

Nel nostro gruppo il Vangelo è sempre in latino ed è tradotto prima dell'omelia.
Invece viene letta in italiano la lettura.

Dave Welf Masters ha detto...

Vorrei fare una domanda sincera per pura ignoranza, nessuna provocazione, poiché essendo io stato solo a messe novus ordo ed essendo giovane non posso saperlo. Prima quando c'erano le letture solo in latino che si faceva? Oggi si spiega il brano già letto, ma dal momento che la gente effettivamente non poteva capire il significato delle parole proclamate, pur capendo però bene che erano Parola di Dio, come ci si organizzava? Come avvenivano le prediche?

rocco ha detto...

ma infatti,aiutatemi a capire: l'alfabetizzazione di massa e' stata una conquista del secolo scorso?. l'uso del latino come lingua comune in italia si puo' dire abbandonato sicuramente almeno dal 1300? se le risposte a queste domande sono affermative, allora come si diffondeva e rimaneva radicata la fede? quanti anche allora e fino al 1900 avevano dimestichezza col latino? eppure...
e' un' ulteriore dimostrazione di come la messa abbia operato al di fuori della comprensione umana.
una cosa su cui poi molti razionalisti giocano e' questa: "se non si comprende non e' razionale", dimenticando che non necessariamente tutto cio' che e' razionale e' comprensibile dall'uomo: credo che mentre il sentire sia incomprensibile e irrazionale, il mistero della fede sia incomprensibile e razionale.

viandante ha detto...

A Dave Welf Masters e a rocco

Anzitutto non confondiamo alfabetizzazione e conoscenza della storia sacra e della dottrina cristiana. Nelle nostre parocchie la diffusione del sapere era molto legata alle persone più che alla diffusione dei libri. I parroci in questo senso spiegavano le letture e la Sacra Scrittura tanto bene che le persone in tal ambito erano molto più dotte dei giovani di adesso.
La stessa arte sacra ed i dipinti, ben lungi dalle "conquiste" moderne, erano un vero libro aperto accessibile a tutti.
Infine anche se poco diffusi, almeno dal 1800 in avanti quasi in ogni familia, per quanto la mia regione, era presente un messalino con la traduzione del testo latino. Libri che venivano poi tramandati da una generazione all'altra. Molti di noi hanno ancora simili esemplari.
E non dimentichiamo che a parte la Messa, la dottrina ed il catechismo, settimanali, erano obbligatori.
E la fede era vissuta, incarnata!
Per noi di lingua italiana poi, il latino non era comunque insuperabile. In ambito scientifico addirittura era paragonabile all'inglese al giorno d'oggi.
Ma lo so, fa comodo dire che la gente era ignorante e non capiva niente.
Ma d'altronde non mi sembra che fossero tutti geni in ambito protestante dove il volgare aveva soppiantato il latino.

Anonimo ha detto...

Per Dave Welf Masters.

Sia per le letture, come per l'intera struttura del rito, il problema del latino è superabilissimo:

1. innanzitutto dal fatto che i messali hanno la versione bilingue e dunque per ogni formula (così come per le letture) è possibile conoscerne la versione nella propria lingua
2. la frequentazione e la buona volontà (come del resto avveniva prima della riforma bugniniana o paolina che dir si voglia) fanno il resto.

Infatti il latino, anche per chi non lo ha studiato, con un briciolo di amore e di interesse, non è assolutamente ostico. In fondo è anche la nostra lingua-madre (insieme al greco e ad altri apporti e substrati che è inutile approfondire qui).
Se la traduzione presente nei messali, come ho già detto nell'articolo, consente a tutti la giusta comprensione, è bene chiedersi se il fatto di ribadire il latino come difficoltà - dopo tutte le ragioni esposte per la sua conservazione ed uso - non dipenda da pregiudizi.
Questi, purtroppo, sono alimentati dalla 'strana' avversione anche di vescovi e sacerdoti al Rito Antico che denota non tanto ignoranza, sempre colmabile, quanto 'estraneità' spirituale al Santo Sacrificio nella sua integra e sacra celebrazione sugli Altari cattolici.

rocco ha detto...

quello che volevo dire e' che nella messa non e' fondamentale capire tutto, poiche' essa e' il culmine dell'evangelizzazione che invece necessariamente deve avvenire in lingua corrente. il latino come lingua liturgica ha una molteplicita di motivazioni che lo sorreggono e che non possono essere soppiantate dalle argomentazioni che invece vorrebbero necessario il rito in lingua volgare. meno che mai il , secondo me "falso", problema della comprensione.

Latinista ha detto...

Vorrei fare alcuni distinguo, da storico del latino.

Permettetemi innanzitutto di dire che quando lessi la "Veterum sapientia" non potei trattenere un moto di biasimo e di ripulsa. La trovo sbagliata fin dal titolo. È figlia del suo tempo, della concezione che il suo tempo (il nostro tempo) ha del latino, e questa concezione è viziata da un pregiudizio di origine almeno umanistica: che il latino sia una lingua di marmo, appunto immutabile, e sia la lingua degli antichi.

Non è così. Il latino ha avuto una storia particolarmente lunga - circa due millennii e mezzo - durante la quale non ha mai smesso di cambiare. Il latino di Cicerone somiglia a quello della Vetus latina, e questo a quello di S. Tommaso, più o meno quanto l'italiano del Boccaccio somiglia a quello di Leonardo da Vinci, e questo a quello che usiamo oggi.
Mettiamo che uno straniero - che so, un Giapponese - voglia imparare l'italiano per parlare con noi e per capire ciò che diciamo. Studiare a fondo la lingua del Boccaccio potrà essergli d'aiuto, ma non è certo necessario, e nemmeno sufficiente: anzi, potrebbe addirittura indurlo a dei fraintendimenti.

Ora, quando la Chiesa ha cominciato a esprimersi in latino, la sua lingua non era già più quella (o meglio quelle) di Cicerone e degli altri autori del canone scolastico. E ha continuato a separarsi da quel millantato "vero latino" per tutta la sua lunga vita. Approfondire la lingua di Cicerone, o quella di Tacito, o magari anche quella di Plauto, potrà essere d'aiuto a comprendere quella della Vetus latina o di S. Tommaso, ma non è certo necessario, non è sufficiente e può addirittura essere d'intralcio.

E allora perché i Papi - Giovanni XXIII, Paolo VI, Benedetto XVI - hanno tanto a cuore che si studii la lingua non dico di S. Agostino, passi anche Erasmo, ma di Cicerone, di Cesare, di Seneca, di Tacito? E magari di Plauto, di Catullo, di Petronio? La latinità antica, la latinità profana e pagana non si studia già più o meno egregiamente in centinaia di università? Non è già di gran lunga preponderante in tutti gli istituti di latino del mondo? E allora perché il Vaticano fonda un'accademia del latino e la affida a un classicista, e ci mette dentro metà degli istituti di latino di Roma? A che serve? A che gli serve?

Questo quanto allo studio del latino nella Chiesa. Poi c'è la questione della liturgia. [continua]

Latinista ha detto...

Se c'è un ambito in cui ha senso figurarsi il latino come una lingua immutabile, è quello della liturgia, e solo quello.

In realtà anche il latino della liturgia, nel corso dei secoli, di cambiamenti ne ha dovuti subire, tanto nella sua forma scritta quanto in quella orale. Ma sono stati dei cambiamenti abbastanza superficiali, e seppure venivano scritte e pronunziate in modo diverso nel tempo e nello spazio, le formule sacre sono rimaste sempre le stesse; e se sono cambiate, non è stato per via di mutamenti linguistici.

Il latino liturgico ha senso che sia unitario e immutabile perché è una lingua sacra, e come tale, come ha ricordato mic, è opportuno che sia preservata dall'evoluzione della lingua viva (se pure si può dire che il latino lo sia; ma certo lo è stato fino a qualche secolo fa). La Chiesa, a mio modesto parere, più che fondare l'ennesimo istituto di studii classici, dovrebbe valorizzare questo aspetto sacrale ed unitario del latino liturgico, per esempio curando che la sua pronunzia sia uniforme in tutto il mondo - uniformemente ecclesiastica, secondo le prescrizioni mi pare di Pio X.

Se il latino della liturgia è una lingua sacra, rituale, è chiaro che non è necessario, come già è stato detto, che venga capito da chi segue il rito. Non vedo mai ricordare una episodio molto eloquente a questo proposito. La prima volta che le lingue parlate nelle terre romanze furono riconosciute diverse dal latino, per quanto si ha notizia, fu al concilio regionale di Tours dell'813, che stabilì, tra le altre cose, che l'omelia si dovesse tenere in volgare, cosicché il popolo potesse capire. Tutto il resto del rito quindi rimaneva in latino, perché non era necessario che il popolo lo capisse: serviva ad altro.
(Caro Rocco, si discute ancora su quando in Italia si sia smesso di parlare qualcosa che si potesse chiamare latino, ma certo fu molti secoli prima del 1300. I monaci di Cassiodoro, intorno al 575, avevano già difficoltà a leggere i testi ecclesiastici.)

Ricapitolando:
1) Non esiste "il latino", esistono diversi latini, o se vogliamo diverse fasi del latino. La Chiesa non ha mai parlato la lingua di Cicerone né quella di Seneca ecc., così come noi non parliamo la lingua del Boccaccio; e non ha neanche sempre parlato il medesimo latino, né nelle strutture né nel lessico.
2) Il latino liturgico è qualcosa di ancora diverso: mentre la lingua viva mutava nelle strutture e nel lessico, come è naturale, quella della liturgia rimaneva tendenzialmente fissa (anche se non del tutto).
La salvaguardia del latino nella Chiesa, di conseguenza, a mio modesto parere dovrebbe consistere:
1) Nell'approfondire quei latini (nelle loro strutture grammaticali e nel loro lessico proprio) di cui si è servita la Chiesa nel corso della sua storia.
2) Nel valorizzare l'aspetto sacrale ed universale del latino liturgico.

Scusate, sono stato lunghissimo e non sono rimasto che in superficie.

Anonimo ha detto...

Caro Latinista,
sei stato chiarissimo e hai inquadrato la questione del latino nei suoi termini precisi.

Il rispetto e la cura del latino come 'lingua sacra' non esclude l'utilità, se non la necessità, della conoscenza della lingua fino a pochi anni fa usata dalla Chiesa nella sua universalità.
Ricordo che almeno vent'anni fa (non so ora) a Fatima il rosario era sempre recitato in Latino, così come in Latino lo abbiamo recitato noi in quei ancor recenti giorni del conclave in Piazza san Pietro, quando si univano a noi diversi stranieri che lo conoscevano meglio di tanti italiani...

Mi viene in mente con rammarico una squalificante 'battuta' del card. Dolan, al solito riferita dai media, in uno dei suoi frequenti eventi conviviali e ridanciani. Riferiva a mo' di barzelletta di essersi sentito dire una frase in latino da Benedetto XVI ma di non aver capito nulla...

Intuibile quanto la conoscenza della lingua diventi necessaria soprattutto da parte dei sacerdoti o di chi si lancia in studi teologici, perché credo che debbano poter accostare i Padri latini nel testo originale. Così come saprai meglio di me, che lettura più 'saporosa' e profonda si può fare della Vulgata (tolte alcune imprecisioni e assodato che altre ritenute tali non lo sono, potendosi riferire a interpretazioni di Girolamo coerenti con la sua esperienza sia spirituale che dell'ambiente ebraico da cui traduceva) rispetto alle traduzioni attuali.

In ogni caso, coloro che continuano ad amare e custodire l'Antico Rito per quel che rappresenta in riferimento alla sua derivazione riferita direttamente agli Apostoli e al Signore stesso (non so se ha visto l'articolo di ieri), continueranno almeno a custodire anche la 'lingua sacra", come del resto accade a tutte le grandi religioni del mondo.
E poi, chissà che non aumenti il numero di coloro che amino accostarlo e approfondirlo anche nelle altre sue espressioni.

Anonimo ha detto...

Se però nessuno nella Chiesa, a livello gerarchico, si cura di preservarlo promovendolo soprattutto nei seminari, è difficile che possa tornare la 'lingua ufficiale' della Chiesa. C'è troppa disattenzione, non solo per il latino...

Anonimo ha detto...

Proclamarli magari cantandoli in latino ne sottolinea veramente il carattere di "Verbum dei", di Parola che viene dall'alto. Quanto al "capirle", a questo scopo c'è sempre stata la predica, che non dovrebbe essere una chiacchierata sui massimi sistemi o sui temi del giorno ma appunto in primis la traduzione e la spiegazione delle letture.

L'osservazione è giusta.
Negli articoli dedicati al gregoriano abbiamo visto l'importanza e anche la funzione della "cantillazione", che purtroppo attualmente, attraverso la 'forma' ordinaria del rito - e l'iconoclastia che essa rappresenta sia per la lingua sacra che per la musica sacra che per i contenuti -, si è totalmente perduta e può conservarsi solo in quelle oasi di fedeltà rappresentate dalla Tradizione.

Anonimo ha detto...

Sono del 1948 e la mia infanzia e adolescenza sono state con la messa in latino. Il prete prima cantava il vangelo in latino all'altare poi scendeva alla balaustra e lo leggeva in italiano. S avevano messalini con il testo della messa in latino e la traduzione italiana di fronte,ma comunque tanti brani li si conosceva a memoria: il confiteor,il kyrie,il Domine non sum dignus, naturalmente tutte le preghiere, Pater, Ave,Gloria, Requiem Aeternam, ecc ecc. Si è sempre pregato così, non ci si è mai sentiti ignoranti o privati della comprensione. La disposizione alla preghiera prescinde dall'effettiva comprensione del testo. Ricordate l'Antico Testamento,la madre di Samuele che pregava piangendo sommessamente davanti a Dio e che fu presa per ubriaca? Forse anche le nost parole erano confuse ma l'animo era integro. S può viceversa pregare in italiano e ripetere freddamente delle formule che non dicono niente. Se erano scimmie i vecchi che pregavano in latino non è detto che non possano esserlo anche i recita tori in italiano.

Anonimo ha detto...

Mi chiedo al prossimo Conclave, quando che sia, quanti Cardinali parleranno latino o ne avranno qualche familiarità attraverso la Messa "more antiquo"? Penso molto, molto pochi.