Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

mercoledì 19 novembre 2025

Colligite Fragmenta: XXIII Domenica dopo Pentecoste

Nella nostra traduzione da OnePeterFive la consueta meditazione settimanale di p. John Zuhlsdorf, sempre collegata alle vicende del presente. Essa, nell'ottava, ci aiuta ad approfondire i doni spirituali della Messa della Domenica precedente qui.

Colligite Fragmenta:
XXIII Domenica dopo Pentecoste


Mettiamo un po’ d’ordine. Ci avviciniamo alla fine dell’anno liturgico, quando lo sguardo della Chiesa si concentra sempre più intensamente sul compimento di tutte le cose: la Seconda Venuta del Signore, la risurrezione dei morti e il giudizio. Pius Parsch, nel suo The Church’s Year of Grace, riconosce in queste domeniche autunnali una struttura tripartita:
Nelle liturgie domenicali del tempo d’autunno non è difficile scorgere una progressione in tre tappe. La prima comprende le domeniche di transizione dall’estate all’autunno (dalla XV alla XVII dopo Pentecoste); la seconda abbraccia le quattro più belle formulari del Tempo del Raccolto (dalla XIX alla XXI); la terza inizia oggi e conduce la stagione alla sua conclusione (XXIII–XXIV). Nondimeno, la liturgia, pur volgendo lo sguardo alla fine, resta sempre primariamente rivolta alla situazione presente. Così anche oggi.
L’Offertorio di questa domenica intona il grande De profundis: De profúndis clamávi ad Te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Il grido “dal profondo” sgorga dal fondo della fragilità umana, dal pozzo del peccato, dal luogo in cui ci troviamo avvinti dai lacci della morte e in attesa che il Redentore Si avvicini per liberarci.

In questa cornice escatologica ascoltiamo la lettura da Filippesi 3,17–21 e 4,1–3. È la stessa lettura della festa di San Clemente, e non per caso: Clemente è nominato esplicitamente. La divisione tra capitolo 3 e 4 non è una “giuntura da Novus Ordo”, ma il semplice effetto del fatto che Paolo non scriveva in capitoli e versetti; questi sono sovrastrutture posteriori applicate a un testo ispirato che scorre con la naturale logica del cuore apostolico.

Paolo scrive alla comunità di Filippi, che conosceva bene e che aveva visitato nel secondo e nel terzo viaggio missionario. Con lui c’erano Silas e Timoteo, quest’ultimo indicato come “co-firmatario” della lettera. Atti 16 racconta la loro flagellazione, la prigionia e il terremoto che spezzò le catene, conducendo alla conversione del carceriere. Paolo non dimenticò mai quell’episodio di schiavitù e liberazione. Esso dà colore a tutta la lettera, che contiene anche il grande inno cristologico della kenosis (2,5–11). Cristo, pur essendo uguale al Padre, “non considerò un tesoro geloso l’essere come Dio” (il greco harpagmón) ma “svuotò Se stesso” (ekenōsen), assumendo la forma di doulos, servo, obbediente fino alla morte di croce. Probabilmente si tratta di un inno liturgico che Paolo aveva insegnato ai Filippesi per il loro culto.

Paolo chiama i suoi figli all’imitazione: «Fratelli, fatevi miei imitatori», non perché pretenda uno status divino, ma perché egli stesso imita Cristo. All’inizio della lettera Paolo e Timoteo si definiscono douloi, servi. Cristo è il modello; Paolo si conforma al modello; i Filippesi si conformano a Paolo; e così “il Dio della pace” (4,9) rimane con loro. Non è l’unica volta in cui Paolo esorta all’imitazione: in 1 Corinzi 4,16–17 dice: “Vi esorto, fatevi miei imitatori… per ricordarvi i miei modi di agire in Cristo”. E, anche qui, Timoteo è il sigillo dell’autenticità di Paolo.

Ma i Filippesi sono insidiati da falsi maestri, probabilmente giudaizzanti, che insistono sulle pratiche mosaiche per i convertiti gentili, ricacciando i fedeli in vecchie catene. Paolo avverte “con le lacrime agli occhi” che questi uomini sono “nemici della croce di Cristo. La perdizione è la loro sorte, il ventre è il loro dio, e si vantano di ciò che è ignominioso, tutti intenti alle cose della terra”. Il “ventre” non indica solo la gola, ma l’intero regime della carne, la mentalità che afferra la terra e rifiuta di alzare lo sguardo. Paolo contrappone immediatamente il termine políteuma: “La nostra cittadinanza è nei cieli”. Questo termine nella tradizione cristiana latina diventerà talvolta conversatio, cioè “modo di vivere”. I cristiani non possono farsi governare da un’esperienza soggettiva e amorfa che contraddice l’insegnamento perenne. Né possono ridurre le esigenze della Chiesa a “ideali” irraggiungibili. Se questo suona familiare, basti ricordare ciò che, dai più alti livelli, si è voluto suggerire in documenti confusi come Amoris laetitia: che l’esperienza vissuta indicherebbe, per esempio, che la continenza sessuale in un matrimonio adulterino sia un “ideale impossibile”. Da qui l’idea che la “vita vissuta”, scavalcando la dottrina e la legge perenni, autorizzi chi vive in situazioni oggettivamente illecite a ricevere la Comunione, grazie a… “discernimento”, “accompagnamento”… e altre formule elastiche.

Paolo insegna che cedere significa “gloriarsi della propria vergogna” (3,19). La chiamata di Cristo è reale, non retorica. La sua grazia è sufficiente, non illusoria. La misura richiesta è possibile, non una presa in giro. Bisogna rimanere saldi al catechismo, alla dottrina perenne su fede e morale, resistendo alla sofistica dei furbi che trasformerebbero il giogo di Cristo in un cuscino di lassismo.

L’esortazione di Paolo culmina nella promessa escatologica: Cristo “trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al Suo corpo glorioso”, sottomettendo a Sé tutte le cose (3,21). È la beata speranza cantata in novembre quando ricordiamo i defunti: il Salvatore che viene ci scioglierà dai lacci della morte, ci libererà dalla corruzione e ci solleverà nella Sua gloria. Subito dopo, questa speranza confluisce nella sua tenera esortazione a Evodia e Sintiche perché “siano concordi nel Signore”, e nella raccomandazione alla comunità di aiutare queste donne che avevano collaborato con lui e con Clemente nel Vangelo.

Unità – non uniformità – è parte della prontezza escatologica.

Questo ci porta naturalmente al Vangelo di questa domenica, che esemplifica lo scioglimento dei legami e la vita nuova: Matteo 9,18–26. Un capo (in greco archon, letteralmente “uno dei primi”, quindi un magistrato) si inginocchia davanti a Gesù dicendo: “Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la Tua mano su di lei ed essa vivrà”. Mentre Gesù va verso la casa, una donna affetta da emorragia da dodici anni tocca il lembo del suo mantello dicendo: “Se riuscirò solo a toccare il Suo mantello, sarò guarita”. Gesù si volta: “Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata”. Chiamandola “figlia”, riconosciamo il legame tra il miracolo avvenuto per strada e quello della risurrezione della figlia del capo. Arrivato in casa, nonostante le risa dei lamentatori, Gesù prende la ragazza per mano, ed ella si alza.

Nella guarigione della donna “figlia” e nella risurrezione della figlia del capo, il Signore mostra in azione ciò che Paolo insegnerà in dottrina: solo Cristo può sciogliere il nodo tra peccato e morte, restaurare la vita e “trasfigurare il nostro misero corpo” (3,21). La donna emorroissa è come l’umanità: dissanguata, ritualmente impura, incapace di guarire se stessa. Tocca il mantello di Colui che “svuotò Se stesso” e la sua infermità si scioglie. La bambina morta è l’immagine dell’umanità legata dal peccato di Adamo; Cristo entra nella stanza, zittisce il tumulto e con un tocco ridona il respiro. I due miracoli riflettono il duplice prodigio predicato da Paolo: siamo guariti dentro e risuscitati fuori.

Questa immagine del legare e sciogliere permea anche la Colletta della domenica:
Absolve, quaesumus, Domine, tuorum delicta populorum:
ut a peccatorum nexibus,
quae pro nostra fragilitate contraximus,
tua benignitate liberemur.
Questa splendida preghiera antica sopravvisse ai “taglia-incolla” del gruppo di padre Bugnini nel Consilium, rimanendo nel Novus Ordo come Colletta del venerdì della quinta settimana di Quaresima.

Il vocabolario merita attenzione. Nexus è un legame, un’obbligazione, un intreccio. Absolvo significa “sciogliere da”, con una sfumatura giuridica (assolvere) e domestica (“staccare dal telaio” un manufatto). Nel mondo antico il rumore dei telai era onnipresente quanto per noi quello dei motori o delle televisioni. Le donne filavano e tessevano; filare e tessere simbolizzavano la virtù femminile. Una sposa romana portava fuso e conocchia, strumenti d’ordine e fecondità familiare. La conocchia tiene insieme le fibre non ancora filate, impedendo che si aggroviglino; da qui l’uso inglese di “distaff” per indicare la linea femminile della famiglia.

Traduzione letterale:
Sciogli, ti preghiamo, o Signore, le colpe del Tuo popolo,
affinché per la Tua benignità siamo liberati
dai legami dei peccati
che abbiamo contratto a causa della nostra fragilità.
La Colletta dice che contraximus questi legami “a causa della nostra fragilità”. Contrahere significa contrarre, stringere, ridurre lo spazio di movimento; e tra gli autori cristiani (Cipriano, Ambrogio, Agostino) significa anche “commettere peccato”. Adamo, peccando, “contrasse” la colpa per tutto il genere umano. Il telaio dell’umanità si aggrovigliò. I nostri fili fragili si annodarono in una ragnatela che imprigionò chi tesseva. Restava una sola soluzione: il Nuovo Adamo doveva assumere tutta la rete, il nexus dei debiti umani, e sciogliere il mondo essendo egli stesso legato alla Croce.

Cristo è entrato nel nostro groviglio. Si è fatto povero. Si è svuotato. Ha toccato la bambina morta ed è stato toccato dalla donna emorroissa; è stato spogliato di tutto e inchiodato al legno / telaio / Croce. Poi, nella grande absolutio, ha sciolto il Suo spirito dal corpo, e così ha sciolto anche noi dagli inferi. Con la Sua morte, il tessuto è stato completato: assolto nel senso più profondo. La tela del peccato è stata tagliata dal telaio. La veste vecchia, lacera e contaminata, è sostituita dalla veste radiosa promessa in Filippesi: la trasformazione dei nostri corpi umili nel Suo Corpo glorioso (3,21). Il Nuovo Uomo ci ha dato la veste dell’“uomo nuovo” (cf. Ef 4,24).

Colletta e Vangelo suggeriscono ancor di più.

I nostri giorni, dice Giobbe, sono “più rapidi della spola del tessitore”. Corrono avanti e indietro, ordito e trama che si incrociano, la vita intrecciandosi con la grazia se solo acconsentiamo alla mano del Tessitore. Chi “vive da nemico della croce di Cristo” lascia che la spola impazzisca, tessendo grovigli di ego ed esteriorità. Chi imita Paolo, e quindi Cristo, lascia che il Tessitore divino guidi la spola al suo fine.

La donna emorroissa passò dodici anni a vedere la sua vita sfilacciarsi; un tocco di Cristo raddrizzò il filo. La figlia del capo aveva visto il filo spezzarsi; Cristo annodò di nuovo la vita in lei, ricomponendo il tessuto dei suoi giorni.

Paolo dice ai Filippesi di “stare saldi nel Signore”: una postura di stabilità mentre il telaio si muove veloce. Esorta Evodia e Sintiche a riconciliarsi. Fili sfilacciati sono uno scandalo nella veste della Chiesa. Chiama Clemente e gli altri “collaboratori i cui nomi sono nel libro della vita”, splendida contro-immagine del nexus del peccato. Il libro della vita è il registro degli sciolti, i cui fili sono stati tessuti nel disegno di Cristo. La sua scrittura è escatologica: “Il Signore è vicino… Non angustiatevi… e la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù” (Fil 4,4–7).

E così, nella domenica sempre più segnata dall’escatologia, la Colletta, il Vangelo e la lettera di Paolo convergono nello stesso movimento: dalla schiavitù alla libertà, dalla malattia alla guarigione, dalla morte alla vita, dall’esistenza terrena “di pancia” al políteuma celeste, dal groviglio alla tela compiuta, dalla gloria ignominiosa alla partecipazione alla gloria di Cristo.

Il mese di Novembre ci ricorda la nostra mortalità; preghiamo per le anime del Purgatorio, contempliamo la nostra morte. Nessun vantaggio terreno ci eleverà alla Visione Beatifica: solo la fedeltà a Cristo e il servizio umile modellato sul Suo svuotamento.

Dobbiamo imparare a morire bene vivendo meglio, attenti ai doni che Dio intreccia nella nostra vita. Occorre scegliere fili migliori, disegni più chiari, il colore limpido della virtù. Cristo ha già tessuto il modello della vita cristiana in Paolo, e Paolo nei filippesi, e attraverso loro in noi.

La spola dei nostri giorni corre rapida. Non sprechiamo la stoffa.
P. John Zuhlsdorf – 15 novembre 2025

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Alma Redemptoris Mater,
quae pervia caeli porta manes, et stella maris,
succurre cadenti, surgere qui curat, populo:
tu quae genuisti, natura mirante, tuum sanctum Genitorem,
Virgo prius ac posterius,
Gabrielis ab ore sumens illud Ave,
peccatorum miserere. Amen +

Anonimo ha detto...

È essenziale per la vita spirituale mettere insieme il significato della parola con l'immagine corrispondente che disvela lo stato spirituale nel quale si parte e lo stato a cui si può giungere. Occorre una vita lenta, approfondita, attenta non facile oggi da mettere insieme poiché le vite poggiano sull'esatto contrario veloce, superficiale, distratto. È l'espansione del tempo lento che bisogna riconquistare per non farci travolgere dalla piena della confusione in cui vogliono farci affogare.