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venerdì 14 novembre 2025

Il silenzio dei padri: la parola perduta dell’Europa

L'articolo che segue mostra che l’Europa ha perso la parola dei padri: il linguaggio che univa memoria e destino. Ritrovarla, tra mito e simbolo, è il primo atto di resistenza culturale.
Non possiamo non aggiungere la rinuncia alle proprie radici greco-romane e poi cristiane. Qui l'indice degli articoli sulla realtà distopica.

Il silenzio dei padri: la parola perduta dell’Europa

L’articolo esplora la perdita del linguaggio autentico in Europa, inteso come veicolo di memoria e identità. Analizza come l’omologazione culturale e la cancel culture stiano cancellando le parole che ci legavano ai nostri padri, e come il ritorno al linguaggio originario — fatto di mito, poesia e simbolo — rappresenti il primo atto di resistenza culturale europea.

Nel frastuono del mondo globale, l’Europa non ha perso solo le sue radici, ma il linguaggio con cui le raccontava. Il silenzio dei padri è diventato la nostra crisi più profonda. Il silenzio dei padri: la parola perduta dell’Europa.
Quando la parola si spegne 
Le civiltà non muoiono all’improvviso: svaniscono quando le loro parole smettono di avere peso.
Così l’Europa, oggi, sembra immersa in un frastuono di termini svuotati, slogan replicati, lingue che si somigliano tutte ma non dicono più nulla.
La parola, che un tempo era rivelazione e promessa, è diventata rumore.
C’è stato un tempo in cui le parole europee erano sacre.
Non solo nelle liturgie o nei canti, ma anche nella vita civile, nella politica, nell’arte. La parola “onore” non era retorica, “patria” non era sospetta, “anima” non era metafora. Oggi, quelle parole sembrano impronunciabili — o peggio, derise.
E nel vuoto lasciato da esse si apre un silenzio inquieto: il silenzio dei padri.

Il silenzio dei padri
I padri non sono soltanto figure familiari: sono i custodi di un linguaggio.
Ogni generazione eredita non solo un patrimonio materiale, ma una grammatica morale, un modo di dire il mondo.
Oggi, quel linguaggio è stato interrotto. Non ci viene più trasmesso attraverso la scuola, l’arte o la memoria collettiva, ma sostituito da un linguaggio globale, neutro, programmato per non offendere nessuno e, proprio per questo, incapace di dire qualcosa di vero.
È un linguaggio che non racconta, ma cancella. La cancel culture non è solo una battaglia ideologica: è il sintomo di una perdita più profonda — quella della parola fondativa, della narrazione che ci lega a un’origine. Senza la voce dei padri, l’Europa non sa più chi è.
E un continente che non sa più dire se stesso è un continente che si prepara a scomparire.

La lingua sacra e la parola autentica 
Ogni civiltà viva ha una lingua sacra.
Non nel senso religioso stretto, ma come linguaggio che custodisce il mistero, che sa nominare il bene e il male, la vita e la morte, il tempo e il destino.
L’Europa l’ha avuta per secoli: nel latino, nel greco, nelle lingue romanze e germaniche che hanno saputo coniugare il mito con la ragione, la poesia con la legge.
Quelle parole non erano solo strumenti di comunicazione, ma forme di presenza.
Quando si diceva “verità”, non si intendeva un’opinione; quando si diceva “uomo”, si evocava un’anima.
Oggi, invece, la parola è ridotta a funzione, la lingua a codice, la comunicazione a contenuto.
Abbiamo perso la parola che salva e l’abbiamo sostituita con la parola che vende.

La cancel culture come nuova iconoclastia
L’Europa ha conosciuto molte iconoclastie, ma quella contemporanea è la più subdola: non distrugge statue, distrugge parole.
Si cancellano i nomi dei santi dalle piazze, le date fondative dai calendari, le frasi classiche dai libri.
Si sostituisce la lingua viva della storia con un linguaggio di plastica, dove tutto è “inclusivo” ma niente è vero.
È una guerra silenziosa contro la memoria. Perché cambiare le parole significa cambiare la percezione del reale.
E quando una generazione non sa più nominare il mondo, finisce per non riconoscerlo più. La perdita del linguaggio è dunque la perdita dell’identità stessa: senza parole comuni, non c’è più comunità.

Il mito e il simbolo come ultima resistenza 
Eppure, nelle vene dell’Europa scorre ancora un linguaggio nascosto, antico come le sue montagne.
È il linguaggio del mito, della poesia, del simbolo: il linguaggio che non si spiega, ma si comprende.
Quello che Dante, Omero, Goethe, Cervantes, ma anche i poeti di guerra e gli architetti del Rinascimento, seppero usare per dire l’indicibile.
Recuperare quel linguaggio non significa tornare indietro, ma tornare in alto. Ritrovare la capacità di parlare con parole che abbiano un’anima.
Significa educare una nuova generazione non al codice, ma al senso; non al vocabolario, ma alla verità.
Solo riscoprendo il potere sacro del linguaggio, l’Europa potrà guarire dal suo mutismo.
Perché la vera resistenza, oggi, non è gridare più forte: è imparare di nuovo a parlare.

Quando le parole torneranno a cantare 
Forse un giorno, in un’aula, in una piazza o in un libro, qualcuno pronuncerà di nuovo una parola vera — e sarà come un’alba. Allora il silenzio dei padri non sarà più assenza, ma attesa compiuta: il ritorno della voce che fonda, educa, unisce. Perché ogni rinascita comincia da una parola detta bene. E l’Europa, se vuole rinascere, dovrà prima imparare a pronunciare di nuovo il proprio nome.
Carlotta De Marchi -  Fonte

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