Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

giovedì 27 giugno 2013

Fatica, tradizione, redenzione. Redimere tempus.

Non è un testo confessionale. Ma ha il respiro della verità. E coglie aspetti e derive della realtà della nostra civiltà Occidentale che hanno le loro ripercussioni (o forse anche la loro origine) nella realtà ecclesiale. Lo riprendo perché alimenta la nostra riflessione e rivela molte ragioni del nostro impegno e della nostra 'fatica' - ma Il mio giogo è soave, il mio peso leggero, dice il Signore (Mt 11,29-30) - in questo percorso di ricerca approfondimento, assimilazione, condivisione dei tesori della nostra Fede che la Chiesa custodisce e dispensa in una vena aurea inesauribile che ha attraversato due millenni di storia appassionante e sofferta. Condivisione che diventa trasmissione => tradere =>Tradizione. Oltretutto serve a riconoscere e a non lasciarsi condizionare da quegli ormai anche autorevoli flatus vocis che - nel disprezzo della teologia, della cultura, dell'amore per la Bellezza finalizzati Ad Maiorem Dei Gloriam che coincide con l'autentica maturazione e pienezza in umanità secondo il disegno di Dio - forse neppure si accorgono di fare della improvvisazione, del sentimentalismo e della superficialità i vessilli della nostra epoca.

«La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare;
chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica
(T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale del 1917)

Fatica. Torno a scrivere dopo mesi, per riflettere su un elemento dell’educazione, la fatica.

Potrei parlare della fatica di educare, di seguire e far crescere, di crescere noi stessi genitori insieme ai nostri figli, la fatica di essere vigili, di alzarsi di notte, seguire di giorno, rispondere sempre, dare possibilità, creare spazi, stimoli, interessi. La fatica di conciliare vite a volte esigenti, impegni lavorativi, con i bisogni di giovani umani bisognosi di ogni cosa.

Ma questa è una fatica che sta sotto gli occhi di tutti, a volte idolatrata, a volte scansata, certamente una parte nota e visibile del ruolo di genitori ed educatori.


C’è una fatica, però, che rimane più in ombra, quasi un rimosso, uno sforzo che un tempo era accompagnato da certa retorica, forse, ma che oggi è scongiurato, taciuto, evitato. Lo sforzo che deve fare chi impara. La capacità di stare su un libro, su uno strumento musicale, su un esercizio ginnico, per un tempo più lungo di quello che sembrerebbe spontaneo e naturale, la capacità di applicarsi anche quando comincia a fare male, quando non è più divertente, quando dobbiamo fare forza su noi stessi per andare avanti. Questa fatica, più ancora della varietà dei talenti naturali, è il vero elemento anti-democratico dell’educazione, l’elemento che fa la differenza tra un virtuoso e un dilettante, tra un esperto e un orecchiante, l’elemento che non può essere surrogato da altre persone, o solo molto parzialmente.

Tale elemento è, a mio avviso, tra i più latitanti nella formazione famigliare e scolastica delle nuove generazioni. Un frainteso senso di premura per i piccoli può averci indotti a risparmiare loro alcune salutari fatiche, magari per scoprire che sono state sostituite da una specie di tour de force del divertimento – celebrazioni di tutto, complesse feste di compleanno dalle età più tenere, pizzate, gioco organizzato… -, a tale premura, però, si è aggiunta una componente ideologica, la convinzione che il bravo insegnante non sia quello che motiva alla fatica, portando verso l’alto, ma quello che la sbriciola, offrendone pezzetti pre-digeriti verso il basso. Ne parlavo anche qui.

Ma la vera questione, ancora più urgente, è che nulla può motivare la fatica, se non la profonda convinzione di perseguire un obiettivo che abbia valore. Hannah Arendt scriveva: «il vero problema dell’educazione sta nell’estrema difficoltà […] di realizzare anche quel minimo di conservazione, quella situazione conservatrice assolutamente indispensabile per “educare” i giovani. […] L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti» (Hannah Arendt, “La crisi dell’istruzione” in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 2001; corsivo mio).

Ecco, se ciò che vogliamo trasmettere improvvisamente non ci sembra più così importante, se uno spontaneismo a oltranza ci impedisce di prenderci la responsabilità del mondo così come lo abbiamo ricevuto e il compito di trasmetterlo alle nuove generazioni, se la nostra cultura ci sembra equivalente, forse peggiore, di molte altre, se pensiamo che tra un’idea nata nel solco di una cultura millenaria e un pensierino estemporaneo e senza radici ci possa essere una pari dignità, allora non avrà alcun senso la fatica come elemento dell’educazione. Lasciamo i ragazzi sul divano e vediamo quel che ne verrà.

A quel che sembra è la via intrapresa quasi coralmente dalla scuola italiana e occidentale, la via intrapresa anche da molte famiglie e probabilmente dalla società nel complesso, seppur con ammirevoli eccezioni. La strana illusione che tra civile e selvaggio, tra barbarie e civiltà, sia in fondo più libera e divertente una mancanza di passato, di struttura, di contenuto, a tutto vantaggio di spontaneismo e improvvisazione, si è fatta ormai ampiamente strada nell’arte, nella cultura e nel pensiero di massa dei nostri tempi. Non potrebbe essere altrimenti, perché una vera cultura, una civilizzazione, è sempre qualcosa di non massificante, un dialogo tra pensieri e talenti, tra urgenze creative, nuove soluzioni e consapevolezza delle proprie radici, che – in definitiva – è consapevolezza di sé.

La stessa parola tradizione sta assumendo sempre più un’accezione negativa, dire “tradizionale” di una cosa è quasi come dire museale o superata, in un mondo in cui tutto deve essere nuovo, fresco, cool. Inutile dire che il nuovo è difficile e impegnativo, per lo più si tratta di un vecchio inconsapevole di sé.

Rimane, invece, come tratto distintivo della formazione individuale quell’elemento supplementare di fatica, quell’elemento di tradizione nel senso di “tradere”, cioè “trasmettere”, che è la vera possibilità di pensiero a un tempo razionale e creativo. Cioè, in definitiva, un modo di redimere il tempo, di farne qualcosa che resiste allo scorrere indistinto, per farne una costellazione di elementi di valore.
«Redimere tempus. — L’unica nobiltà dell’uomo, la sola via di salvezza consiste nel riscatto del tempo per mezzo della bellezza, della preghiera e dell’amore. Al di fuori di questo, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri atti non sono che «vanità e soffiar di vento», risacca del tempo che il tempo divora. Tutto ciò che non appartiene all’eternità ritrovata appartiene al tempo perduto.» (Gustave Thibon)
Daniela Bovolenta
Cito della stessa Autrice:
[...] Vorrei suggerire che senza confine non si acquisisce maggiore libertà, la libertà barbarica del sangue, si perde al contrario ogni forma, si soccombe all’universo, alla natura, al Peccato, ma non posso escludere del tutto altre vie a me sconosciute e precluse. San Giovanni, ad esempio, il discepolo prediletto, ha poggiato l’orecchio sul cuore di Cristo, si è completamente immerso nel Mistero, ma è san Pietro che ci è dato come guida. Come si può replicare la mistica? Mi dissero un giorno che il martirio e la mistica sono doni da accettare, non da chiedere. Pietro invece, ci consegna sacramenti e catechismo: questo lo posso capire, posso farne la mia Mappa Mundi, hanno l’aspetto di buone mura per un solido recinto[1]. Non sono tuttavia le infinite possibilità realizzate che salvano, ma quell’unica perseguita fino in fondo, fino alla Croce e, con la Croce, fino alla Risurrezione.
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1. Il confine, il recinto, l’hortus conclusus. Cioè, monasticamente, il chiostro: uno spazio chiuso al mondo, ma aperto al Cielo e a Dio. Per ognuno, la Gerusalemme celeste: una città le cui mura non sono una debole difesa contro l’ignoto, corrispondono alla struttura profonda della nostra anima, sono la nostra vera dimora, la destinazione finale, la vera libertà che il nostro cuore desidera. 
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[Fonte: Canone Occidentale]

7 commenti:

Angelo ha detto...

Lo leggerò con grande interesse, ad un primo sguardo sembra molto interessante. Sai, Mic, se stasera ci sarà la Messa a Via Urbana? Grazie

Anonimo ha detto...

Sì c'è la messa a Via Urbana.

Anonimo ha detto...

Non direi che manca la cultura della fatica.
In tanti campi, assistiamo a prestazioni che si ottengono solo attraverso dedizione, impegno e tanta fatica.
Penso ai risultati ottenuti dallo spoert professionistico, ma anche dilettantistico, ai sacrifici necessari per emergere nelle professioni più prestigiose. Ma anche all'impegno e alla dedizione che bisogna mettere nel campo del lavoro, sottoposto come non mai a cambiamenti che non permettono rendite di posizione.
La grande differenza é nei valori per cui si é disposti a sacrificarsi, quelli che al termine della vita terrena determineranno il Giudizio.

Anonimo ha detto...

La grande differenza é nei valori per cui si é disposti a sacrificarsi, quelli che al termine della vita terrena determineranno il Giudizio.

Riflessione certamente giusta e pertinente.

Ma resta ferma la sottolineata tendenza della nostra cultura, come pure della formazione ecclesiale, a ritenere i nostri valori equivalenti a molti altri, nella convinzione che "tra un’idea nata nel solco di una cultura millenaria e un pensierino estemporaneo e senza radici ci possa essere una pari dignità" (da sottoporre sempre a verifica).
Idem circa la tendenza alla superficialità e al pressapochismo, favorito dall'uso di slogan che 'toccano' il sentimento, ma non vengono poi sottoposti all'approfondimento della ragione, indispensabile per generare "conoscenza" : lo "sbriciolamento" di un sapere prefabbricato in pillole e non un'autentica maieutica, che implica l'insegnamento e il corrispondente apprendimento, che richiede approfondimento (la sana "fatica" di cui si parla) e assimilazione autentica, che fa crescere e maturare anche la fede.
Quella amorosa fatica di "scrutare" le Scritture, richiesta anche dal Vangelo, per esempio. O quella di andarsi a cercare le parole dei Santi e dei Padri della Chiesa per farne tesoro e rapportarle alla nostra esperienza.

Alla svalutazione della "tradizione" si aggiunge, oggi, la svalutazione della teologia, quella seria ovviamente, che è studio e sapere sudato assimilato faticato ed espresso che i pastori, nel loro munus docendi sono tenuti a considerare a recepire o a correggere.
Il problema è che, nella Chiesa, sono impropriamente 'passati' come insegnamenti pensieri di teologi di stampo esclusivamente modernista e l'insegnamento, cioè il munus docendi è stato sostituito dalla prassi ateoretica o dal dialogo a tutti i costi e con chiunque.

Anonimo ha detto...

E quindi?

viandante ha detto...

La strana illusione che tra civile e selvaggio, tra barbarie e civiltà, sia in fondo più libera e divertente una mancanza di passato, di struttura, di contenuto, a tutto vantaggio di spontaneismo e improvvisazione, si è fatta ormai ampiamente strada nell’arte, nella cultura e nel pensiero di massa dei nostri tempi.

E questo vale, anche se non detto, per la Nuova Evangelizzazione, per la Nuova Chiesa conciliare.

Anonimo ha detto...

E quindi?

Se con questo l'Anonimo si riferisce ai correttivi, non è ai noi che purtroppo competono perché non abbiamo il munus magisteriale.
Nostro dovere, però, è esprimere e condividere quel che la nostra coscienza illuminata dalla Fede ci suggerisce, facendo nello stesso tempo quel che possiamo, ognuno nel nostro ambito.
Il resto non possiamo che affidarlo al Signore.