Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 18 novembre 2019

Don Roberto Spataro: “Il latino è patrimonio immateriale dell’umanità”

"Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto “sonoro” potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino". (Giovannino Guareschi) - Indice articoli dedicati al Latino.

Illustri professori e studenti, cari amici,
nella relazione che sto per presentare, attenendomi al titolo che mi è stato affidato, svilupperò tre punti. Anzitutto, definirò il concetto di patrimonio immateriale e lo applicherò alla lingua latina; in secondo luogo, mostrerò alcune caratteristiche del latino liturgico; infine, presenterò la cosiddetta “Messa tridentina”, comunemente designata anche come “Messa in latino”, che valorizza moltissimo il latino liturgico.

1) Per definire il concetto di “patrimonio immateriale”, vorrei rifarmi ad un’iniziativa promossa circa due anni e mezzo fa da una benemerita istituzione culturale italiana, l’Accademia “Vivarium Novum”, che, con il sostegno di altri prestigiosi partner europei, ha raccolto moltissime adesioni perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite dichiari la lingua latina e la lingua greca antica “patrimonio culturale immateriale dell’umanità “. Nella petizione che è stata diffusa, era descritto, pur se con altre parole, come “patrimonio immateriale dell’umanità” un qualche bene spirituale intangibile capace di creare una sorta di comunione diacronica tra gli uomini che ne usufruiscono. Come tutti le ricchezze culturali, esprime sempre un’esperienza significativa dell’avventura umana sulla terra che possa toccare l’anima dell’uomo in quanto tale, senza esclusioni e senza barriere nel tempo e nello spazio.

Appartengono a questa categoria lingue, non mai e/o non più parlate da nessun popolo, che hanno svolto nella storia delle idee e della cultura un ruolo fondamentale. Gli esempi sono numerosi: il sanscrito, soprattutto in India, ha trasmesso dottrine e speculazioni filosofiche da epoche remotissime fino ai nostri giorni; l’arabo classico e il persiano medievale ci hanno consegnato le meditazioni dei mistici sufi e le discussioni dei pensatori che riflettevano con profondità sui loro testi sacri e sulle opere della filosofia greca; la lingua ebraica, di recente riportata in vita con la nascita dello Stato d’Israele, ha per quasi due millenni tramandato la sapienza religiosa di una comunità di credenti dispersa nell’orbe. Queste ed altre lingue, e le civiltà che esse esprimono, costituiscono un grande patrimonio, che va rispettato, apprezzato, tutelato. Se disperso e trascurato, tutti diventano più poveri culturalmente, il che equivale a dire, tutti diventano più poveri di umanità. (1)

È a tutti evidente che il concetto di “patrimonio immateriale”, così come descritto, si applichi alle lingue latina e greca. Chi potrà negare che anche e principalmente nelle civiltà greca e latina sussistano le radici storiche e il tesoro inesauribile della memoria comune dell’Europa?

Il latino è patrimonio immortale dell’umanità perché è la lingua di autori che definiamo “classici” in quanto, secondo una felice intuizione di Italo Calvino, ogni volta che entriamo in dialogo con loro, scopriamo sempre qualcosa di nuovo che si incide nella nostra anima (2). Sono classici perciò Virgilio, con la sua dolorosa meditazione delle umane vicende, Seneca che sosteneva che tutti gli uomini hanno la stessa dignità, Agostino che, nella sua sofferta e pur serena autobiografia, ha scoperto la psicologia del profondo. Non è necessario moltiplicare i nomi dei “classici” latini ed il loro imperituro messaggio. Vorrei, invece, ricordare che, dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuto nel V secolo in concomitanza con l’irruzione di nuovi popoli, la lingua latina diventò immortale, mai più destinata a perire. A partire dal V secolo comunità civili e politiche scelsero il latino per le conversazioni quotidiane, per l’allacciamento di relazioni, per la stesura degli atti burocratici, per la composizione di opere di letteratura, per la celebrazione della preghiera. In tal modo i popoli europei, dialogando tra loro con l’uso della medesima lingua, maturavano un unico e medesimo spirito. Scrissero in latino i monaci eruditi che, maestri alla corte palatina di Carlo Magno, coltivarono gli studi umanistici ed avviarono un rinascimento delle lettere e delle arti. Tra essi eccelle Alcuino. In latino composero le loro summae di teologia i pii dottori del Medioevo per mostrare il modo in cui gli uomini, con argomentazioni razionali, possono comprendere i misteri della fede cristiana. Ed il nostro pensiero va al più grande tra essi, Tommaso d’Aquino. In latino Dante Alighieri, come altri suoi contemporanei, trattò problemi di natura politica. In latino gli umanisti dei secoli XV e XVI sostennero la grandezza e la dignità dell’uomo, come Erasmo da Rotterdam, profeta della pace, o Thomas More martire della giustizia. Usarono il latino gli autori, come Francesco de Vittoria, il grande filosofo di Salamanca, che rivendicarono i diritti inviolabili delle popolazioni indigene contrastando l’avidità dei conquistadores. In latino approfondirono temi di matematica studiosi illustri, quale Giovanni Napier che nel XVI secolo scrisse un’opera intitolata “Mirifici logarithmorum canonis descriptio” (3). Quanti capolavori di natura letteraria, filosofica, teologica, giuridica, scientifica, matematica, biologica sono stati composti in questa lingua fino al secolo XIX! E persino nell’ambito politico, il latino, era la lingua dei parlamenti, come quello croato e quello ungherese fino al secolo XIX, o la lingua della corrispondenza di uomini dotti, mercanti, esploratori, missionari: un enorme patrimonio, davvero universale nel tempo e nello spazio.

2) Negli ambiti in cui la lingua latina è stata usata eccelle senz’altro la liturgia della Chiesa Cattolica che ha quasi spontaneamente scelto la lingua di Roma per elevare la sua preghiera a Dio negli atti più solenni, i sacramenti, soprattutto la Santa Messa, e l’Ufficio divino. Tra le varie cause che hanno portato a questa felicissima simbiosi tra la preghiera ufficiale della Chiesa e l’uso del latino, vorrei ricordarne una: il latino è una lingua sacra. Gli argomenti che adduco per sostenere questa tesi sono cinque.
  1. Anzitutto, le più remote testimonianze dell’uso letterario della lingua, rinviano ad un contesto rituale, gli antichissimi “carmina” perché le caratteristiche fonetiche del latino, con la sua alternanza di sillabe lunghe e brevi, con la sua sonorità robusta, ma mai sgraziata, di consonanti occlusive, ingentilita dalla frequenza di sibilanti e liquide, lo rende una lingua poetica e, dunque, la sottrae alla funzionalità della prosa, per immergerla nella sfera della bellezza, che è il mondo di Dio.
  2. Inoltre, il latino è una lingua “sacra”, come ha notato Michael Lang sulla scorta delle osservazioni di Christine Mohrmann, perché è immutabile (4). Il latino, infatti, nelle sue strutture morfologico-sintattiche si è fissato una volta per sempre, come ricordavamo, intorno al V secolo d.C., conoscendo solo un graduale e fecondo arricchimento lessicale.
  3. La lingua sacra, tra l’altro, è disponibile a recepire prestiti da altre lingue per esprimere realtà sacre, ed il latino liturgico si è mostrato molto duttile in questo tempo, recependo grecismi ed ebraismi.
  4. Infine, la lingua sacra ha una struttura retorica tipica dell’oralità e che allo stesso tempo conferisce maestà e bellezza: basta leggere una qualsiasi orazione del Messale romano per rendersi conto dell’elaborazione retorica, perfetta nella sua sobrietà: chiasmi, iperbati, allitterazioni, equilibrio perfetto tra i cola, rispetto delle clausole che danno un ritmo inconfondibile.
  5. C’è ancora un motivo evidente che fa del latino liturgico una lingua sacra. I testi liturgici sono plasmati come un’eco ed un approfondimento del testo sacro per antonomasia, la Bibbia. Per rivolgersi a Dio, infatti, le parole più appropriate sono quelle che Dio stesso, con la sua rivelazione, mette sulla bocca dei credenti e degli oranti. Ora, la Chiesa Cattolica ha assunto per la sua vita, per la sua preghiera e per la sua dottrina la Vulgata, ossia l’edizione latina della Bibbia, diffusa da Gerolamo nel IV secolo e poi rifatta dopo il Concilio di Trento.
3) E veniamo così all’ultima parte di questa relazione. Stabilito che il latino è un patrimonio immateriale dell’umanità e che, tra le sue espressioni, vi sia il latino liturgico in quanto il latino è una lingua sacra, vorrei affrontare una domanda che sicuramente è nata in ciascuna di noi: non ha forse la Chiesa Cattolica abbandonato l’uso del latino nella celebrazione della liturgia, con l’introduzione delle lingue nazionali, seguita alla riforma liturgica postconciliare? Il problema è complesso. Presento tre elementi che aiutano ad affrontare correttamente tale problema.

Anzitutto, va ricordato che i Padri del Concilio Vaticano II ammisero un uso limitato e ragionevole delle lingue nazionali che avrebbero dovuto coesistere accanto al latino (5). I motivi per i quali questa raccomandazione non sia stata rispettata ma stravolta saranno chiariti dagli storici.

In secondo luogo, tutte le editiones typicae dei testi liturgici sono in latino e i testi in lingue nazionali sono traduzioni dell’originale latino, operazione molto delicata perché è in gioco la fede della Chiesa, al punto che la Santa Sede avoca a sé il diritto/dovere di approvarle, prima di introdurle nella pratica. E sugli infiniti problemi delle traduzioni, vorrei fare due esempi. Al principio della Messa, sia nella forma ordinaria sia in quella straordinaria, si recita il Confiteor, pur se con alcune non irrilevanti variazioni tra l’una e l’altra. Questa bellissima preghiera si conclude con un appello del fedele alla Chiesa celeste e a quella militante di pregare a suo favore per ottenere il perdono dei peccati. In latino si dice: Ideo precor … orare pro me ad Dominum Deum nostrum. La traduzione in lingua italiana dice: “Supplico di pregare per me il Signore Dio nostro”, quella inglese “to pray for me to the Lord our God”. Eppure, in quel ad seguito dall’accusativo non è contenuto solamente il significato della direzione impressa alla preghiera, significato più comune nel tardo latino. Ad e l’accusativo, in dipendenza di un verbo che non indica movimento, come appunto confiteor, significano anche e principalmente “alla presenza di”. Quando si recita il Confiteor, insomma, ci mettiamo dinanzi a Dio perché nella Messa siamo realmente davanti a Lui, come peccatori, tutti quanti, e invochiamo il suo perdono perché siamo al cospetto di Colui che per perdonarci ha subito la Passione e la Morte: anche la posizione del Crocifisso ci aiuta ad assumere questo orientamento interiore. Ancora più sorprendente la traduzione in lingua italiana delle parole della consacrazione del Calice. ACCIPITE ET BIBITE EX EO OMNES: HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI NOVI ET AETERNI TESTAMENTI. La traduzione del Messale italiano dice: “Questo è il sangue per la nuova ed eterna alleanza”, un complemento di fine e non di specificazione. La traduzione è assolutamente inadeguata: al posto di un genitivo oggettivo-costitutivo, (questo è il sangue che “fa”, crea, costituisce la nuova e definitiva alleanza) c’è un ben più debole complemento “per la nuova ed eterna alleanza”. In questo punto, la lex orandi non corrisponde più alla lex credendi.

Infine, il Magistero supremo della Chiesa non ha mai cessato di incoraggiare l’uso della lingua latina anche nella liturgia rinnovata. In questo senso, l’esempio e l’insegnamento del Papa emerito, Benedetto XVI, sono stati luminosi. Tuttavia, vorrei ora proporre delle riflessioni su quella forma di celebrazione della Messa in cui l’uso della lingua latina è rimasto intatto ed integrale, la cosiddetta “forma straordinaria” del rito romano, secondo il Messale dell’anno 1962, che, con il Motu proprio Summorum Pontificum, è stato restituito alla Chiesa e che un numero di fedeli e di sacerdoti, per quanto estremamente esiguo rispetto alla maggioranza, ha adottato stabilmente (6).

La Messa tridentina – e così possiamo chiamarla – accentua molto la sacralità dell’azione perché è un atto di fede che potremmo così sintetizzare: Dio è presente in modo realissimo attraverso la consacrazione delle specie eucaristiche e nella Messa si rinnova in modo incruento il sacrificio del Calvario. Di fronte ad un evento tanto sublime, al sacerdote e ai fedeli viene chiesto di coltivare un atteggiamento di intima e convinta adesione, di silenziosa adorazione, di umile accoglienza, di preghiera raccolta. La lingua latina, in quanto lingua sacra, si addice sommamente ad esprimere quest’atmosfera. Christine Mohrmann, già citata, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre solo un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. Del resto, quasi tutte le grandi religioni adottano una lingua diversa da quella dell’uso quotidiano per gli atti di culto. Lo ricordava anche il Cardinale Ranjith in un’intervista di qualche anno fa: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (7). In un convegno, tenutosi a Pavia poco più di un anno fa, don Marino Neri, appassionato cultore della Messa tridentina, ha spiegato che il Latino introduce meglio al mistero, al momento in cui l’Altro per eccellenza si comunica sensibilmente a noi. L’alterità, espressa da luoghi, gesti, abiti “altri”, passa anche attraverso il “principe” dei segni, la parola, che non media solo significati destinati all’intelletto, ma conduce l’astante al rapporto personale religioso, che si nutre di segni. Si tratta né più né meno di un principio formulato da San Tommaso d’Aquino, il teologo che dice le cose più ragionevoli che io conosca: “Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono”. (8)

Alla sacralità del rito tridentino, potentemente ed efficacemente manifestata dall’uso del latino, lingua ieratica, si aggiungono altre caratteristiche in armoniosa simbiosi e che rendono la forma straordinaria del rito romano un’autentica esperienza mistica. Ne ricordo velocemente tre, ben note a coloro che vi hanno partecipato qualche volta o che abitualmente assistono alla Messa antica. Anzitutto, l’orientamento ad Deum, favorito dalla posizione assunta dai fedeli e dai celebranti che, spezzando il circolo un po’ autoreferenziale del guardarsi reciprocamente, volgono lo sguardo verso il Crocifisso, maestoso e semplice nel messaggio salvifico che trasmette: il Sangue di Cristo, sparso cruentemente sul Calvario, viene incruentemente effuso sull’Altare dove si rinnova il Santo Sacrificio. In secondo luogo, lo spazio dato al silenzio che avvolge discretamente l’intero svolgimento del rito, dalle apologie del sacerdote alla recitazione del Canon Missae, per dare risalto alla contemplazione e all’assimilazione intima del significato dei gesti compiuti e delle parole pronunciate. Infine, l’importanza della gestualità che, nella logica del simbolo, riassume l’antropologia cristiana, invitando i fedeli ad essere frequentemente in ginocchio per riconoscere la loro condizione creaturale di fronte al Creatore che li ama e li salva, e che nessuna dimensione della vita dell’uomo tralascia, neppure gli affetti diretti verso quell’Altare, figura eloquente di Cristo, vittima, sacerdote ed altare, che ripetutamente il sacerdote bacia delicatamente.

Concludo con un esempio della bellezza del latino liturgico, porzione non indifferente di questa lingua “patrimonio immateriale dell’umanità”. È una preghiera che il sacerdote pronunzia sommessamente alla fine della Messa, prima di impartire la benedizione finale, purtroppo scomparsa nella forma ordinaria del rito romano. Essa recita in tal modo:

Placeat tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meae: et praesta; ut sacrificium, quod oculis tuae maiestatis indignus obtuli, tibi sit acceptabile, mihique et omnibus, pro quibus illud obtuli, sit, te miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
In questa preghiera Cielo e terra si uniscono nelle parole del sacerdote, la Trinità invocata al principio della preghiera, i fedeli tutti per i quali il sacerdote prega e lavora. Si alternano il congiuntivo, placeat, e l’imperativo, praesta, che sono i modi verbali della preghiera cristiana: quando parliamo a Dio esprimiamo umilmente una speranza, ed ecco il congiuntivo, ma osiamo anche chiedere fiduciosi, nel nome del Figlio, ed ecco l’imperativo. Le richieste sono espresse ordinatamente: anzitutto la gloria di Dio ed ecco la proposizione ut sacrificium sit acceptabile, e poi la salvezza delle anime, sit propitiabile, la stessa disposizione dell’Oratio dominica, del Padre nostro. Le preghiere sono espresse in un elegante parallelismo, ma esso viene, per così dire, deviato da un ablativo assoluto, cioè da quella costruzione tipica della lingua latina, che esprime le circostanze che accompagnano il racconto di un fatto o l’enunciazione di un pensiero. Quell’ablativo assoluto, che esce dalla struttura parallela, si impone allora come una luce che illumina tutta la preghiera: te miserante, proprio le parole del motto scelto dal Papa Francesco. La misericordia delle Tre persone della Santissima Trinità, il messaggio imperituro del Vangelo che l’attuale Sommo Pontefice ci sta ricordando incessantemente e che la Messa tridentina, ridonataci da Benedictus Magnus, ci lascia alla conclusione di ogni sua celebrazione!
Roberto Spataro
Pontificium Institutum Altioris Latinitatis
Università Pontificia Salesiana
__________________________________________
(1) Cf. An appeal to Unesco on behalf of the Latin and Greek heritage of humanity”. [qui]
(2) Cf. I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano 1995.
(3) Cf. R. Spataro, Hortensius vel Sapientia veterum a Christifidelibus tradita, Grottaminarda (Av), 2014, p. 81.
(4) U. M. Lang, Il latino come lingua liturgica del Rito Romano. [qui]
(5) Cf. Sacrum Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Sacrosanctum Concilium, n. 36 §1, in Constitutiones, Decreta, Declarationes, cura et studio Secretariae Generalis Concilii Oecumenici Vaticani II, Typis Poliglottis Vaticanis, MCMLXVI, p. 22.
(6) Benedictus XVI, Litterae Apostolicae Motu proprio datae Summorum Pontificum (07.07.2007).
(7) M. Politi, Liturgia. Perché Ratzinger recupera il ‘sacro’, in “La Repubblica”, 31 luglio 2008, p. 42.
(8) Summa Theologiae III, 64, 2 (Ed. Leonina).

24 commenti:

Anonimo ha detto...

... La misericordia delle Tre persone della Santissima Trinità, il messaggio imperituro del Vangelo che l’attuale Sommo Pontefice ci sta ricordando incessantemente e che la Messa tridentina, ridonataci da Benedictus Magnus, ci lascia alla conclusione di ogni sua celebrazione!

Allora tutto a posto! Evviva i papi...siamo in attesa del terzo, eppoi del quarto...Viva il latino!!!

mic ha detto...

Mi interessava il contenuto sul latino. Su questi tributi lanciati en passant stendiamo un velo pietoso.

Viator ha detto...

Paolo VI (1897-1978) liquidò il latino con queste sconcertanti parole: «Non più il latino, ma il linguaggio parlato sarà la lingua principale della Messa. L'introduzione del vernacolare sarà certamente un grande sacrificio per quelli che conoscono la bellezza, il potere e la sacralità espressiva del latino [...]. Stiamo divenendo come degli intrusi profani nella riserva letteraria della sacra espressione [...]. Abbiamo ragione di rammaricarcene, quasi di rimanere sconcertati. Cosa metteremo al posto della lingua degli Angeli? Stiamo abbandonando qualcosa di valore inestimabile. Perché? Cosa c'è di più prezioso e di più elevato nei valori della nostra Chiesa»?

Molti si chiedono come mai nel giro di sette anni abbia potuto aver luogo un cambiamento di rotta così radicale... Nonostante il fatto che da oltre quarant'anni il latino sia caduto completamente in disuso nelle nostre chiese, un certo numero di cattolici, laici e sacerdoti, continua ad interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto Paolo VI e i suoi successori ad eliminare la lingua sacra della Chiesa. Questo scritto, redatto in forma di domanda e risposta come i vecchi catechismi, offre al lettore le ragioni principali per cui per secoli la Chiesa cattolica ha utilizzato ininterrottamente il latino nella sua liturgia e perché sia stato un grave errore abbandonarlo.

http://www.crisinellachiesa.it/articoli/liturgia/lingua_latina/l_uso_della_lingua_latina_nella_liturgia_cattolica.htm

Anonimo ha detto...

Il latino e la Liturgia di sempre
Il latino, lingua di Roma conquistatrice, tenne ovviamente tutto il campo nell’area occidentale dell’Impero. Essa non arrivò a sopprimere tutti i dialetti, neppure inibì specialmente nei ceti più elevati, una discreta infiltrazione del greco: ed ebbe la più larga diffusione progressivamente. Era capita da quanti vivevano nelle città romanizzate e nelle colonie, era la lingua ufficiale dello Stato atta ed abilitata a tutti i rapporti civili e culturali. Così fu per molti secoli.
Nell’area orientale dell’impero romano dominava il greco; tuttavia il latino vi era abbastanza capito ed anche parlato.
Nell’area occidentale la divina liturgia usò, ovviamente, la lingua parlata allora, ossia il latino, anche se a Roma, almeno da alcuni documenti che sopravvivono, dobbiamo ritenere sia stato usato in un primo momento il greco, od almeno “anche” il greco. Fu cosa di non lunga durata ed anche a Roma ed altrove, in Occidente, fu il latino quello che rimase e rimase solo.
Quando sopraggiunsero i barbari, nessun dialetto era lingua (a quanto si sa finora) e non vi era alcuna ragione perché il latino non continuasse ad essere la sola lingua delle manifestazioni liturgiche. Il latino continuò ad onta di tutto ad essere la lingua dei rapporti culturali tra gli stessi barbari e ad un certo livello restò la lingua dei contatti civili, degli atti pubblici, dei documenti notarili. Anche dopo l’arrivo dei barbari in Occidente per lungo tempo il latino fu qualche poco capito dovunque. Era dunque naturalissimo che anche la liturgia continuasse ad usarlo: essa non avrebbe trovato nulla per sostituirlo.
Nell’Oriente, dove prevaleva nettamente il greco, ma dove si usavano pure altre lingue orientali, e dove la divina liturgia si esprimeva in greco, in siriaco, in copto, tutto si immiserì. I barbari anche là premettero ferocemente, i mussulmani vi fecero un deserto che sarebbe arrivato fino ai nostri tempi, la cristianità superstite si spezzò a causa di eresie e quello che di essa rimase nella unità cattolica fu frammentario e discontinuo. Così, ben prima che finisse il millennio, nella liturgia il latino non ebbe più le concorrenti lingue orientali, che gli equivalessero come diffusione e come uso. Accadde di più: la cattolicità orientale, così ridotta, perdette quasi ogni fecondità, non fu missionaria e talvolta vivacchiò. Anche la civiltà, in quell’area, dopo talune brillanti sortite della vivace intelligenza e della esuberante fantasia araba, prese un andamento lentissimo, subì involuzioni, divenne statica e rinsecchita.
Al contrario l’Occidente restò il grande depositario della iniziativa, della espansione e di fatto anche dell’apostolato. Finì col prevalere e coi secoli guidò il mondo civile nonché il risveglio del mondo ancora barbaro. L’Occidente assunse funzione universale. Il latino seguì le fortune occidentali ed ebbe espansione universale; penetrando nei paesi di nuovo conquistati alla fede, raggiunse una diffusione universale e fu la lingua non solo liturgica ma altresì giuridica della grandissima parte della Chiesa.
Il latino resta così la lingua pressoché universale della Chiesa cattolica.

Anonimo ha detto...

.... segue

Si può concludere che a determinare si pregasse e si continuasse a pregare Dio nella lingua di Roma furono vicende e contingenze grandiose, le maggiori nella storia civile degli ultimi millenni. Che ha determinato è stato adunque un “fatto” non un “diritto”.
Un fatto è cosa ben diversa da un diritto e pertanto l’uso della lingua latina nella liturgia della Chiesa non appartiene all’immutabile deposito lasciato da Gesù Cristo: la Chiesa, per quanto concerne l’uso della lingua, mantiene tutta la sua libertà di iniziativa.
Tuttavia anche i semplici “fatti” possono diventare fondamento di un “diritto”; soprattutto possono determinare una “necessità di fatto”. Per tale motivo, che si parli in latino nella Chiesa resta questione da trattarsi con tutto rispetto e con nessuna leggerezza.
Fin qui si è parlato del come si introdusse l’uso del latino nella liturgia. Ora bisogna parlare della comprensione che ne ha avuto il popolo. È appunto questo che ci interessa.
Orbene, da almeno dodici secoli le masse popolari non capiscono il latino e da altrettanto tempo i fedeli non hanno la comprensione immediata e diretta dei testi recitati nella liturgia.
Attenzione! Questo non equivale affatto a dire che da dodici secoli il popolo capisce niente, perché, siccome vedremo più innanzi, la lingua non è l’unico mezzo di comprensione della divina liturgia. Vi sono altri mezzi per capire. Quando il latino cominciò a diventare incomprensibile ai fedeli, la Chiesa ha insistito costantemente nei Concili regionali e nelle disposizioni sinodiche, perché le parti destinate direttamente alla istruzione ed edificazione del popolo, fossero tradotte e spiegate ai fedeli nella loro lingua.
[…]
Il fiorire della vita cristiana, l’esser la società medioevale intrisa di dottrina rivelata, il trionfo in quel tempo di tutte le arti espressive della vita liturgia, attestano che nonostante la sua ignoranza della lingua latina il popolo seguiva e capiva la divina liturgia. Questo è vero anche se non teniamo conto delle traduzioni volute dalla Chiesa per il popolo fin dal primo deperire del latino e delle quali abbiamo parlato sopra.
[…]
La questione non ha che da essere posta per rivelare la sua naturale documentazione; tutti infatti sono in grado di osservare che nella liturgia prima ed oltre la lingua c’è il contenuto ed il significato dogmatico, c’è la regìa, la coreografia, il simbolismo, il gesto, il canto, il contorno, le persone, le vesti. Tutti questi elementi possono essere intesi senza la comprensione della lingua, mentre la stessa comprensione della lingua non sarebbe affatto sufficiente in via di massima a darne la completa intelligenza.
[…]
In realtà generazioni e generazioni a non finire hanno vissuto la vita liturgica, hanno appartenuto a confraternite, hanno cantato Uffici divini, senza sapere il latino e bene spesso senza saper leggere l’italiano; hanno così dimostrato ad usura di non essere affatto passivi dinanzi al sacro Rito. Nelle nostre campagne esistono ancora dei vecchi che sanno a memoria l’Ufficio della Vergine, dei Morti, della Settimana Santa e che possiedono una cultura dei sacri riti, non certo rifinita e scientifica, ma ricchissima di particolari cerimoniali e giuridici.

Anonimo ha detto...

... segue/2

[…]
Che fa conoscere la sostanza dell’atto liturgico è il catechismo, non la lingua. Quasi mai a chi seguisse il testo con perfetta padronanza del latino e non avesse previa adeguata istruzione catechistica, capirebbe di afferrare il vero e grande significato del rito. Rimarrebbe forse avvinto dalla ricchezza di pensiero, dalla fusione stupenda della regìa, ma non sarebbe introdotto nell’intimo sacrario della realtà, che ha sotto gli occhi. Nella maggior parte dei secoli che ci separano dal tramonto del latino (come lingua parlata) il popolo cristiano, come popolo e non solo come cenacoli, aveva una cognizione religiosa assai superiore alla media di oggi.
[…]
Noi possiamo ora giungere ad una chiara conclusione. La difficoltà per la comprensione della liturgia, derivante dal latino oggi è certamente maggiore di ieri, il che può spiegare l’interesse destatosi intorno al problema. Ma la difficoltà è diventata maggiore non perché il latino l’abbia di natura sua, ma perché si sono anemizzati altri fattori riassunti in questi termini: catechismo, frequenza, profondità religiosa.
Dare al latino la colpa della diminuzione della frequenza popolare alle sacre funzioni è porre così male una questione da slittare nella ingiustizia e nella falsità. Infatti le componenti della cognizione popolare della liturgia sono diverse; la intelligenza del latino è solamente una di quelle. Il popolo va meno in Chiesa perché non tutti abbiamo fatto il nostro dovere davanti a Dio in modo tempestivo col grado di umiltà e sacrificio che si sarebbe richiesto. Dare al latino la responsabilità dei nostri difetti non è atto leale e veritiero e può essere facilmente multato di vigliaccheria. Se una soluzione vi può essere per la difficoltà recata dal latino, essa non può essere altra che questa, riportiamo il popolo alla profonda e nutrita cognizione del catechismo e del Vangelo, rieduchiamolo alla profondità e coerenza della vita religiosa e riavrà dalla liturgia tutti i benefici che ne hanno tratto per tanti secoli i suoi padri. Oltre questo noi possiamo fornire tanti sussidi (didascalie, pubblicazioni, versioni, etc.) che i nostri padri non avevano e possiamo pertanto arrivare a superarli, senza distruggere quello che invece ha molte ragioni per essere salvato.
[…]
Questa conoscenza solo relativa pone un problema che può formularsi così: “perché mai la Chiesa ha tollerato si avesse solo una conoscenza relativa immediata nella liturgia e non ha seguito il criterio di adattarsi via via all’uso delle lingue che si sono formate o che ha trovate nei popoli di recente conquistati alla fede?”.
[…]
Per rendersi conto che la Chiesa ha agito con saggezza sostenendo in tanti secoli l’uso della lingua latina per la liturgia e tollerando per il popolo una conoscenza relativa dei testi recitati in essa, occorre riflettere su qualche dato fondamentale.
(card. Giuseppe Siri, La lingua latina e la lingua italiana nella liturgia, 10 agosto 1958)

Anonimo ha detto...

Quando ritornai nella Chiesa non ricordavo neanche il Credo in Italiano. Dopo quando cominciai ad avere dubbi sulla Nuova Messa, ripresi il Latino nel quale arrancai per scoprire poi casualmente che persone poco più anziane di me, umili e con le sole elementari, conoscevano non solo tutte le preghiere ma, anche tutta la Vecchia Messa e ascoltandole pregare si capiva che comprendevano. Oggi le lingue moderne si insegnano e si imparano con il metodo naturale e con il metodo naturale, senza sapere, impararono il Latino generazioni e generazioni di cattolici, con qualche latinorum qua e là ma, la comprensione d'insieme, dal loro cuore e dalle loro labbra, usciva palpabile.

bedwere ha detto...

Ho avuto il piacere di incontrare Don Spataro alcuni anni orsono al convegno Veterum Sapientia. Un vero Cicerone cattolico di pieta`, erudizione ed oratoria latina.

Wisteria ha detto...

Bellissima e coltissima analisi storica e stilistica. Grazie anche per aver riportato il testo del Card. Siti. Conoscevo le ambigue parole di Papa Montini sill'abbandono del latino liturgico... Era dispiaciuto ma non voleva impedire quel tradimento? O non poteva? A chi doveva obbedienza? Lo sapremo mai?
Immagino che il Summorum Pontificum sia stato anche frutto di una strategia per favorire un graduale ritorno all'ordine. La strada purtroppo è in salita per vari motivi, non ultimo il fatto che il latino è caduto in disuso per colpa di chi lo ha bandito. Solo ora, e non allora, è diventato una lingua morta.

Anonimo ha detto...

Tutto passa solo Dio non cambia.

fabrizio giudici ha detto...

Mi interessava il contenuto sul latino. Su questi tributi lanciati en passant stendiamo un velo pietoso.

C'è uno schema ricorrente in tutto ciò. Se leggete certi articoli scientifici sul clima, che o non c'entrano niente con riscaldamento globale antropogenico o addirittura, nei fatti, ne contestano uno dei capisaldi, l'ultimo paragrafo è sempre un omaggio al riscaldamento globale antropogenico. Per esempio, roba tipo: "Abbiamo studiato la frequenza dei tornado negli ultimi cento anni e non abbiamo rilevato nessuna particolare tendenza in aumento. Questo non toglie che, quando gli effetti del riscaldamento globale si faranno sentire, la situazione potrebbe mutare". Sennò, mi dicono, non te li pubblicano.

fabrizio giudici ha detto...

OT Mic, ogni tanto qui pubblichi argomenti di taglio prettamente politico, quando impattano su questioni rilevanti nell'ambito Dio, Patria e Famiglia. In queste ore è caldo l'argomento MES. Forse si potrebbe riprendere qualcosa?

Per esempio Start Magazine ieri ha pubblicato un pezzo:

https://www.startmag.it/economia/ecco-come-e-perche-divampano-le-polemiche-sul-mes-meccanismo-europeo-di-stabilita/

Anonimo ha detto...

"... con la sua alternanza di sillabe lunghe e brevi, con la sua sonorità robusta, ma mai sgraziata, di consonanti occlusive, ingentilita dalla frequenza di sibilanti e liquide, lo rende una lingua poetica e, dunque, la sottrae alla funzionalità della prosa, per immergerla nella sfera della bellezza, che è il mondo di Dio..."

A volte si ha l'impressione che, sia nel canto sia nella lettura, le vocali nella pronuncia, nell'articolazione umana, abbiano il sopravvento rispetto alle consonanti, per cui tutto rischia di modularsi solo sulle vocali e le consonanti sfuggono all'udito. Noi Italiani dobbiamo sforzarci di porre più attenzione alle consonanti che anche nell'Italiano parlato quotidianamente sfuggono all'articolazione chiara. A differenza di altri popoli le consonanti per noi sono presenti con equilibrio e parsimonia ma, proprio per questo, è bene scandirle con chiara amorevolezza. Tanto più e tanto meglio nel latino, ecclesiastico nel nostro caso, dove le consonanti finali sono determinanti per la giusta ricezione e per il giusto apprendimento del gregge, al quale si eviterebbero molti latinorum.

Anonimo ha detto...

https://www.maurizioblondet.it/34915-2/

SUL MES E I TECNO-CONIGLI
Maurizio Blondet 18 Novembre 2019 66 commenti
Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco è un tecnocrate all’Italiana: ossia non tanto competente, anzi poco; non noto per lavori scientifici né studi originali, ma bravissimo a dire quel che vogliono Draghi, Mattarella, la Merkel, il PD; insomma a ricalcare il politicamente corretto della casta dei Ricchi di Stato, cui appartiene in pieno....

mic ha detto...

Caro Fabrizio,
avevo ripreso l'accaduto qui

https://nostreradici.blogspot.com/2019/11/qualcuno-ha-avvertito-gli-italiani-del.html

Sarebbe importante che il Parlamento non ratificasse; ma con questo governo siamo messi molto male. Spero in interventi energici ma soprattutto efficaci dell'opposizione, magari insieme a persone che amano l'Italia più del loro partito...
Trovo la situazione più grave che mai. Certamente la seguiremo.

mic ha detto...

Come sta il vostro sacerdote?

Anonimo ha detto...

Cesare Sacchetti:
Immaginate qualcuno che viene a casa vostra e prende i vostri soldi per pagare i suoi debiti. Poi questo qualcuno dopo aver preso i vostri soldi prende i vostri risparmi e li distrugge. No, non è fantascienza. Quel qualcuno è il MES e il proprietario di quella casa è l'Italia.

mic ha detto...

https://scenarieconomici.it/cosa-ha-combinato-conte-con-il-mes-si-puo-configurare-il-reato-di-infedelta-in-affari-di-stato-di-p-becchi-e-g-palma-su-libero/

Anonimo ha detto...

Mora Martino:
Perché la sinistra può anche perdere le elezioni ma di riffa o di raffa va sempre al governo? Perché un partito che non vince le elezioni politiche dal 2006 è al governo ininterrottamente dal 2013 ad oggi - a parte la parentesi dei governo gialloverde- senza che nessuno o quasi abbia nulla da eccepire? Perché nessuno va in piazza a gridare al tradimento della democrazia, ma al contrario, sono gli esponenti della sinistra a gridare alla favola della democrazia minacciata dal populismo? Si chiama piano Gramsci, signori. La sinistra ha l'egemonia culturale. E non ce l'ha solo in Italia. Ce l'ha in tutto il mondo occidentale. Ha giornalisti, cineasti, scrittori, editori, artisti, manager, burocrati, insegnanti, tutti o quasi dalla sua parte. Certo non è più la stessa sinistra. E' una sinistra americanoide politicamente corretta, post-sessantottina e neocapitalista che farebbe inorridire il comunista Antonio Gramsci, non meno di quanto Bergoglio farebbe inorridire Pio XII e i suoi predecessori. Però è sempre la sinistra, per quanto snaturata da ciò che fu. Ha l'egemonia culturale. Può perdere un'elezione, anche due. Ma ha l'egemonia. La destra non ce l'ha. O la Lega capisce questo, oppure anche le sue vittorie elettorali, per quanto eclatanti, saranno momentanee e parziali.

fabrizio giudici ha detto...

Il nostro sacerdote è stato operato alle fratture, tutto procede bene.

PS Anche quel ragazzo per cui vi chiesi una preghiera tempo fa fu operato e ora è in ripresa.

mic ha detto...

Laus Deo!

Anonimo ha detto...

Cosa abbia fatto Conte sul MES ancora non si è capito. Lui dice di non aver firmato niente, e su questo probabilmente non ha torto. Il problema è un altro. Le discussioni generali sulle riforme che riguardano la governance dell’Unione europea avvengono in seno al Consiglio europeo, vale a dire quell’organismo previsto dai Trattati composto dai Capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell’Unione. Il cuore politico della Ue. Il Consiglio si riunisce regolarmente più volte l’anno, di cui una di queste avviene sempre alla fine di giugno. Si tratta di una riunione ormai consolidata in cui si parla del futuro della Ue e delle sue Istituzioni politiche, monetarie ed economiche.
Di riformare il Meccanismo Europeo di Stabilità se ne parla sin dal giugno 2018, argomento affrontato anche nel corso del Consiglio di quest’anno. In entrambi i casi, e nello specifico a giugno del 2019, la risoluzione approvata dal Parlamento prima che Conte si recasse a Bruxelles fu chiara: nessuna riforma peggiorativa del Mes, come invece è nelle intenzioni di Francia e Germania. L’indirizzo politico delle Camere, che sempre si riuniscono prima di un Consiglio europeo, era dunque molto chiaro. Il mandato era quello di non peggiorare i meccanismi del “fondo salva-Stati”, che già ora sono abbastanza forcaioli. Sta di fatto che Conte è andato a Bruxelles ed ha fatto i fattacci suoi, fregandosene dell’indirizzo politico del Parlamento. Negli obiettivi del Presidente del Consiglio v’era quello di dare l’ok al MES in cambio di un atteggiamento più morbido da parte della Commissione europea sui nostri conti pubblici, la cosiddetta “logica del pacchetto” (diamogli la riforma del Mes e loro non ci fanno la procedura di infrazione). Follia.
Ma la malafede di Conte, indipendentemente se abbia o meno firmato alcunché, è dimostrata da un altro aspetto. Il Presidente del Consiglio ha palesemente violato una legge dello Stato. Stiamo parlando della Legge 24 dicembre 2012 n. 234, che all’art. 5 (primo comma) prevede che “il Governo informa tempestivamente le Camere di ogni iniziativa volta alla conclusione di accordi tra gli Stati membri dell’Unione europea che prevedano l’introduzione o il rafforzamento di regole in materia finanziaria o monetaria o comunque producano conseguenze rilevanti sulla finanza pubblica”. La riforma del MES rientra dunque in quelle che la legge definisce come accordi circa “l’introduzione o il rafforzamento di regole in materia finanziaria o monetaria”.

Anonimo ha detto...

...segue
Se non fosse per i riscontri che in questi giorni stanno uscendo dalle audizioni alla Camera presso le Commissioni riunite V e XIV, la questione sarebbe passata in cavalleria. Conte, infatti, non ha informato il Parlamento.
Ma fosse solo questo. Il secondo comma dell’art. 5 prevede che “il Governo assicura che la posizione rappresentata dall’Italia nella fase di negoziazione degli accordi di cui al comma 1 tenga conto degli atti di indirizzo adottati dalle Camere. Nel caso in cui il Governo non abbia potuto conformarsi agli atti di indirizzo, il Presidente del Consiglio dei Ministri o un Ministro da lui delegato riferisce tempestivamente alle Camere, fornendo le appropriate motivazioni della posizione assunta”. Se dunque Conte, pur non avendo firmato nulla, avesse comunque espresso parere favorevole per l’Italia alla riforma del MES (il cosiddetto broad agreement), ha violato una Legge dello Stato che non solo lo obbliga a rispettare l’indirizzo politico espresso dalle Camere, che in quel caso era contrario alla riforma, ma, qualora non lo avesse rispettato, era in ogni caso obbligato a riferire in Parlamento. Cosa che finora non ha fatto. E non ha scuse, dato che l’ultimo comma dell’art. 5 prevede che la norma si applica anche in merito ad accordi conclusi al di fuori dei Trattati dell’Ue, visto che il MES è un’organizzazione intergovernativa.
Conte ha commesso un atto gravissimo che può risolversi in un modo solo: dimissioni immediate di uno dei peggiori Presidenti del Consiglio della storia repubblicana. Le opposizioni presentino quanto prima la mozione di sfiducia.
https://scenarieconomici.it/clamoroso-sul-mes-conte-ha-palesemente-violato-una-legge-dello-stato-ora-deve-dimettersi-di-p-becchi-e-g-palma/

Anonimo ha detto...

https://www.maurizioblondet.it/quando-deutsche-bank-fallisce-cosa-succedera/

QUANDO DEUTSCHE BANK FALLISCE, COSA SUCCEDERA’
Maurizio Blondet 20 Novembre 2019 21 commenti
“La Deutsche fallirà e farà colare a picco l’Europa?”. E’ il titolo che dà al suo ultimo pezzo Charles Sannat: economista interessante perché “interno” al potere (piani alti di Paribas) e pratico della speculazione finanziaria, ma nello stesso tempo critico del sistema.

Ora, senza tacere l’ombra torreggiante della disastrata banca tedesca, Sannat cerca di dare risposte il più possibile oggettive sulla realtà del pericolo, da pratico...