Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

domenica 26 dicembre 2021

Giorgio Agamben. La Chiesa e il regno

Sono rimasta sorpresa nello scoprire un lato a me sconosciuto di Giorgio Agamben, che ho imparato ad apprezzare attraverso le analisi lucide e condivisibili su scenari e dinamiche della temperie attuale, di volta in volta pubblicate qui sul blog. È bene non solo valutare l'analisi ma capire da dove vengono e quindi dove possono portare le prospettive che essa apre. Soprattutto in vista del fatto che si stanno muovendo progetti ed energie nuove per reagire alla situazione [vedi]. Penso anche a Cacciari e al suo saggio "Il potere che frena" riferito al katéchon. Vi propongo il testo che segue, che mi sono divorata. Questo il succo: “Se la chiesa perde la sua vocazione messianica e il suo rapporto con la fine del tempo, non può che essere trascinata nella rovina che minaccia oggi tutti i governi e le istituzioni della terra”. Attendo i commenti. Il mio, di fondo, suggerito dalla frase riportata, è che, per quanto la Ragione ci consenta di volare alto, per raggiungere e conoscere la Verità tutta intera è necessaria anche l'ala della Fede: il non praevalebunt vale fino alla fine dei tempi. E però c'è anche Luca 18,8 «Ma quando il Figlio dell'uomo tornerà troverà ancora fede sulla terra?». Sta di fatto che oggi la chiesa, non più mater et magistra, ha la visibilità di un falcetto di luna, per dirla con Sant'Ambrogio... (M.G.)

La Chiesa e il Regno
di Giorgio Agamben

Clemente romano (affresco XI secolo)
L’ indirizzo di saluto di uno dei testi più antichi della Tradizione ecclesiale, la Lettera ai Corinzi di Clemente, comincia con queste parole: «La Chiesa di Dio che si trova a Roma alla Chiesa di Dio che si trova a Corinto». La parola greca paroikousa, (tradotta nell’originale francese «en séjour», letteralmente «in soggiorno», e resa nella versione corrente italiana con «che si trova»; ndt) indica il soggiorno dell’esilio, del colono o dello straniero, in contrapposizione al dimorare del cittadino, che si dice in greco katoikein. Paroikein, vivere in esilio, definisce sia l’abitare del cristiano nel mondo sia la sua esperienza del tempo messianico.

È un termine tecnico, o quasi tecnico, poiché la Prima lettera di Pietro (1,17) chiama il tempo della Chiesa ho chronos tes paroikias: il tempo della parrocchia1, si potrebbe tradurre, purché ci si ricordi che parrocchia qui significa «soggiorno da straniero».

Il termine «soggiorno» non dice nulla riguardo alla durata cronologica. Il soggiorno della Chiesa sulla terra può durare – e di fatto è durato – secoli e millenni, senza che ciò cambi alcunché della speciale natura della sua esperienza messianica del tempo. Ci tengo a sottolineare ciò, contro un’opinione spesso ripresa dai teologi, a riguardo del preteso «ritardo della parusia».

Secondo questa opinione, che mi è sempre sembrata quasi blasfema, quando la comunità cristiana delle origini, che attendeva il ritorno del Messia e la fine dei tempi considerandoli imminenti, si è resa conto che vi era un ritardo di cui non si vedeva la fine, avrebbe allora cambiato orientamento per darsi un’organizzazione istituzionale e giuridica stabile. Ossia avrebbe smesso di essere paroikein, di soggiornare da straniero, e si sarebbe disposta a katoikein, a dimorare da cittadino, come tutte le altre istituzioni di questo mondo.

L’esperienza del tempo messianico

Se fosse vero, ciò implicherebbe che la Chiesa avrebbe perduto l’esperienza del tempo messianico che le è consustanziale. Il tempo del Messia, come vedremo, non è un periodo cronologico, ma innanzitutto una trasformazione qualitativa del tempo vissuto. E in questo tempo qualcosa come un ritardo cronologico – come si dice di un treno che è in ritardo – non è nemmeno concepibile. Esattamente come l’esperienza del tempo messianico è tale per cui è impossibile dimorarvi, così qualcosa come un ritardo non si può produrre. È ciò che Paolo ricorda ai tessalonicesi: «Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore viene come un ladro di notte» (1 Ts 5,1-2).

«Venire (erchetai)» è al presente, proprio come il Messia è chiamato nei Vangeli ho erchomenos, colui che viene, che non cessa di venire. Un filosofo del XX secolo, che aveva ascoltato la lezione di Paolo, lo ripete a suo modo: «Ogni istante è la porta stretta attraverso la quale può passare il Messia» (W. Benjamin).

È dunque della struttura di questo tempo, che è il tempo del Messia come lo descrive Paolo, che vorrei trattare. Un primo malinteso che occorre evitare a questo riguardo è quello di confondere il tempo e il messaggio messianici con il tempo e il messaggio apocalittici.

L’apocalittica si situa nell’ultimo giorno, il giorno della collera: vede la fine dei tempi e descrive ciò che vede. Il tempo che vide l’Apostolo, al contrario, non è la fine dei tempi. Se si volesse esprimere con una formula la differenza fra il messianico e l’apocalittico, si dovrebbe dire che il messianico non è la fine dei tempi, ma il tempo della fine.

Messianico non è la fine dei tempi, ma la relazione di ogni istante, di ogni kairos, con la fine dei tempi e con l’eternità. Così ciò che interessa Paolo non è l’ultimo giorno, l’istante nel quale il tempo finisce, ma il tempo che si contrae e che comincia a finire. O, se si preferisce, il tempo che resta fra il tempo e la sua fine.

Una trasformazione radicale dell’esistenza

La Tradizione giudaica conosceva la distinzione tra due tempi o due mondi: l’olam hazzeh, [letteralmente il tempo questo -ndr] ossia il tempo che va dalla creazione del mondo sino alla sua fine, e l’olam habba [il tempo a venire -ndr], il tempo che viene dopo la fine del mondo. Questi due termini, nella loro traduzione greca, sono presenti nel testo delle epistole: ma il tempo messianico, il tempo che l’Apostolo visse e il solo che gli interessa, non è né l’olam hazzeh né l’olam habba: è il tempo che resta fra questi due tempi, quando si verifica nel tempo la cesura dell’avvenimento messianico (il quale, per Paolo, è la risurrezione).

Come possiamo rappresentarci questo tempo? In apparenza, se lo si trasferisce come si fa in geometria con un segmento su una linea, la definizione che ho dato ora – il tempo che resta fra la risurrezione e la fine del tempo – non pone difficoltà. Ma è tutt’altra cosa se si cerca di pensarlo sul piano dell’esperienza del tempo che questo implica. Va da sé infatti che vivere nel «tempo che resta» o vivere il «tempo della fine» non possono che significare una trasformazione radicale dell’esperienza e anche della rappresentazione abituali del tempo.

Non è più la linea omogenea e infinita del tempo cronologico profano (rappresentabile ma vuoto di qualunque esperienza), né l’istante puntuale e altrettanto impensabile della sua fine. Ma non è nemmeno un semplice segmento prelevato sul tempo cronologico e che andrebbe dalla risurrezione alla fine del tempo.

È un tempo che pulsa all’interno del tempo cronologico, che lo lavora e lo trasforma dall’interno. È, da una parte, il tempo che il tempo impiega per finire, dall’altra il tempo che ci resta, il tempo di cui abbiamo bisogno per fare finire il tempo, per giungere alla meta, per liberarci della nostra rappresentazione ordinaria del tempo.

Mentre quest’ultima, in quanto tempo entro il quale crediamo di essere, ci separa da ciò che siamo e ci trasforma in spettatori impotenti di noi stessi, al contrario il tempo del Messia, in quanto tempo operativo (kairos) nel quale cogliamo per la prima volta il tempo (il chronos), è il tempo che noi stessi siamo. È chiaro che questo tempo non è un altro tempo, che avrebbe il suo luogo in un altrove improbabile e venturo. È, al contrario, il solo tempo reale, il solo tempo che abbiamo, e fare esperienza di questo tempo implica una trasformazione integrale di noi stessi e del nostro modo di vivere.

È ciò che Paolo dice in un passaggio straordinario, che è forse la più bella definizione che egli abbia dato della vita messianica: «Vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve (ho kairos synestalmenos esti: il verbo systello indica sia il fatto di calare le vele sia il modo in cui un animale si abbassa caricandosi per spiccare un salto); d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente» (1 Cor 7,29- 31).

Qualche riga prima, Paolo aveva detto, a proposito della vocazione messianica: «Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione!» (1 Cor 7,20-21). Hos me, «come se non» ci dice ora che il senso ultimo della vocazione messianica è di essere la revoca di ogni vocazione. Proprio come il tempo messianico trasforma dall’interno il tempo cronologico, così la vocazione messianica, grazie a l’hos me, al «come se non», è la revoca di ogni vocazione, che cambia e vuota dall’interno ogni esperienza e ogni condizione fattuale per aprirle a un nuovo uso.

È un punto importante, poiché ci permette di pensare correttamente questa relazione fra le cose ultime e le cose penultime che definisce la condizione messianica.

Può un cristiano vivere soltanto di cose ultime? Un grande teologo protestante, Dietrich Bonhoeffer, ha denunciato la falsa alternativa fra radicalismo e compromesso, che parte per entrambi i casi dal separare nettamente le realtà ultime e le realtà penultime, quelle cioè che definiscono la nostra condizione sociale e umana di tutti i giorni. Ora, come il tempo messianico non è un altro tempo, ma una trasformazione del tempo cronologico, così vivere le cose ultime è prima di tutto vivere in modo altro le cose penultime.

La vera escatologia forse non è altro che la trasformazione dell’esperienza delle cose penultime. Poiché le realtà ultime hanno prima luogo dentro le penultime, queste – contro ogni radicalismo – non si possono semplicemente rifiutare; ma – per la stessa ragione, e contro ogni possibilità di compromesso – le cose penultime non si possono considerare come ultime. È con il verbo katargein che non vuol dire «distruggere», ma rendere inoperante, letteralmente «dis-operare» – che Paolo esprime la relazione fra ciò che è ultimo e ciò che non lo è. La realtà ultima disattiva, sospende e trasforma la realtà penultima, ma è tuttavia al suo interno che essa entra in gioco interamente.

Ciò permette di comprendere la situazione propria del Regno in Paolo. Al contrario della corrente rappresentazione escatologica, va ricordato che per lui il tempo del Messia non può essere un tempo futuro. L’espressione con la quale indica questo tempo è sempre «ho nyn kairos», il tempo dell’adesso. Come scrive in 2 Cor 6,2: «[Idou nyn] Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!».

Paroikia e parousia, soggiorno da straniero e presenza del Messia, hanno la stessa struttura che è espressa in greco con la preposizione para: quella di una presenza che distende il tempo, di un già che è anche un non ancora, di un ritardo che non è un rimando a più tardi, ma uno scarto e una disgiunzione all’interno del presente, che ci permette di cogliere il tempo.

Si vede bene dunque che l’esperienza di questo tempo non è qualcosa che la Chiesa possa scegliere di fare o di non fare. Non vi è Chiesa, se non in questo tempo e per mezzo di questo tempo.

La Chiesa e i segni dei tempi

Che ne è di questa esperienza del tempo del Messia, nella Chiesa di oggi? Infatti il riferimento alle cose ultime sembra a tal punto sparito dal discorso della Chiesa, che si è potuto dire non senza ironia che la Chiesa di Roma ha chiuso l’Ufficio escatologico. Ed è con un’ironia senza dubbio ancora più amara che un teologo francese ha potuto scrivere «si attendeva il Regno ed è arrivata la Chiesa». È un’immagine potente, sulla quale dovremmo riflettere.

Considerando quanto detto sopra sulla struttura del tempo messianico, è chiaro che non si tratta di rimproverare alla Chiesa il compromesso in nome del radicalismo. Non si tratta nemmeno, come ha fatto il più grande teologo ortodosso del XIX secolo, Fëdor Dostoevskyi, di presentare la Chiesa di Roma sotto la figura del Grande inquisitore. Si tratta di un’altra cosa, ossia della capacità della Chiesa di cogliere ciò che Matteo 16,3 chiama i segni dei tempi, ta semeia ton kairon.

Quali sono questi segni, che il Vangelo oppone al vano desiderio di interpretare l’aspetto del cielo? Se la storia è penultima in riferimento al Regno, questo – si è visto ha il suo luogo prima di tutto e sopra tutto nella storia. Vivere nel tempo del Messia esige dunque la capacità di leggere i segni della sua presenza nella storia, di riconoscere nel suo corso il sigillo dell’economia della salvezza. Agli occhi dei padri – ma anche per i filosofi che hanno riflettuto sulla filosofia della storia, che è e resta (anche in Marx) una disciplina essenzialmente cristiana – la storia si presentava come un campo di tensioni, percorso da due correnti opposte: la prima – che Paolo, in un celebre ed enigmatico passaggio della Seconda lettera ai Tessalonicesi, chiama to catechon – che ritiene e differisce senza sosta la fine del mondo lungo la linea del tempo cronologico, infinito e omogeneo; l’altra che, mettendo in tensione l’origine e la fine, non cessa di interrompere e portare a termine il tempo.

Chiamiamo legge o stato la prima polarità, votata all’economia, ossia al governo infinito del mondo; e chiamiamo Messia o Chiesa la seconda, la cui economia – l’economia della salvezza – è essenzialmente finita. Una comunità umana non può sopravvivere se queste due polarità non sono compresenti, se non esiste fra di esse una tensione e una relazione dialettica.

Ora, è esattamente questa tensione che oggi è spezzata. A mano a mano che la percezione dell’economia della salvezza nel tempo storico si appanna nella Chiesa, si vede l’economia stendere il proprio dominio cieco e derisorio su tutti gli aspetti della vita sociale. Allo stesso tempo, l’esigenza escatologica che la Chiesa ha trascurato ritorna sotto una forma secolarizzata e parodistica nei saperi profani, che sembrano fare a gara per profetizzare in tutti i campi delle catastrofi irreversibili. Lo stato di crisi e d’emergenza permanente che i governi del mondo proclamano oggi è proprio la parodia secolarizzata del perpetuo aggiornamento del giudizio ultimo nella storia della Chiesa.

All’eclissi dell’esperienza messianica del compimento della legge e del tempo corrisponde un’ipertrofia inaudita del diritto, che pretende di legiferare su tutto, ma che tradisce con un eccesso di legalità la perdita di ogni vera legittimità. Qui e ora affermo, misurando le parole: oggi sulla terra non vi è più alcun potere legittimo, e i potenti del mondo stessi sono tutti rei di illegittimità. La giuridicizzazione e l’economicizzazione integrale dei rapporti umani, la confusione fra ciò che possiamo credere, sperare, amare e ciò che siamo tenuti a fare o a non fare, dire o non dire segna non soltanto la crisi del diritto e degli stati, ma anche e soprattutto quella della Chiesa. Poiché la Chiesa non può vivere se non tenendosi, in quanto istituzione, in relazione immediata con la fine della Chiesa.

E – non bisogna dimenticarlo – nella teologia cristiana vi è una sola istituzione che non conoscerà la fine e il dissolvimento: ed è l’inferno. Qui si vede bene – mi sembra – che il modello della politica di oggi – che aspira a un’economia infinita del mondo – è propriamente infernale. E se la Chiesa spezza la sua relazione originale con la paroikia, essa non può che perdersi nel tempo.

Ecco perché la domanda che pongo, senza di certo avere alcuna autorità per farla se non quella di un’abitudine ostinata a leggere i segni dei tempi, si riassume in questa: si deciderà la Chiesa a cogliere la sua occasione storica e a riprendere la sua vocazione messianica? Poiché il rischio è che essa stessa sia trascinata nella rovina che minaccia tutti i governi e tutte le istituzioni della terra.
Lectio pronunciata presso la cattedrale di Notre-Dame a Parigi l’8.3.2009 - Fonte
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Nota di Chiesa  e post-concilio
1. Il concetto veicolato dal termine Parrocchia è anche quello di parà oikia / verso casa (significato ulteriore, insieme a famiglia) nel senso di luogo dove si incontrano coloro che sono accomunati nel Cammino verso il Regno... Ed effettivamente si tratta di coloro che sono nel mondo ma non sono del mondo.

20 commenti:

Anonimo ha detto...

Non so se mi sia consentito inserire un "Off topic" in questo particolare contesto..ci provo comunque - perdonatemi - per segnalare;

Stasera ore 20.30 su Radio Tre Classica (anche in streaming) la

MESSA PER IL SANTISSIMO NATALE per coro a 9 voci, due violini e organo

composta da Alessandro Scarlatti nel dicembre 1707

tralcio ha detto...

Prendetelo come un regalo di Natale e gustatevi questo filmato.

sono due versioni quasi uguali, non saprei quale consigliare

https://www.youtube.com/watch?v=a6kqkZVNT0k

https://www.youtube.com/watch?v=9gO1jjUV6w8

Che cosa c'entra con il tema?
Secondo me c'entra per capire che il Creatore protegge la creazione.
C'è chi pensa di manometterla o appropriarsene.
Insegna da anni falsità nelle scuole di ogni ordine e grado ed è talmente convincente da meritarsi una fede nella scienza anticristica.

Perciò il filmato è utile, anche nei risvolti vaccinali.

Buona visione!

Anonimo ha detto...

Vi consiglio il libro di Agamben "il Regno e la Gloria". È meno "katechon" di questo estratto ma è un ottima analisi del governo delle anime della Chiesa più come struttura, quindi dal punto di vista pastorale, cioè dei pastori, quello vero, non quello di chitarre e campi estivi (che son comunque belli e che il sottoscritto ricorda sempre con nostalgia).

Anonimo ha detto...


Testo difficile. Roba forte. Ma anche questo ricco di spunti.
Penso che Mic abbia fatto bene a pubblicarlo.

La filosofia o meglio la teologia del tempo, del tempo nostro storico, è da sempre uno dei temi più complessi della riflessione.
In prima battuta: mi sembra che lo sforzo dell'autore sia quello di far vedere, basandosi soprattutto su S. Paolo, che il tempo messianico (quello dell'avvento del Messia) è già qui, è dentro il nostro tempo quotidiano e quindi dentro la storia. Non è un'aggiunta posteriore.
I tempi apocalittici sono quelli della "rivelazione finale" (apocalissi vuol dire : rivelazione), offerti in difficili e terrificanti visioni a S. Giovanni Evangelista. Come nelle profezie neotestamentarie, anche qui sembrano mescolarsi visioni di avvenimenti vicini o intermedi e visioni finali.
L'avvento del Messia, nel giudizio finale, fa parte della Rivelazione finale. Allora perchè questo tempo sarebbe in atto già qui, in ogni giorno della nostra vita?
Riflettiamo: quando muoio, la mia anima non va subito al giudizio di Cristo? Ecco dunque che per me è arrivato (magari bruscamente) il tempo messianico, quello nel quale mi trovo di colpo di fronte al Messia nella veste di Giudice infallibile di tutta la mia vita.
Il Signore ci ha detto di star sempre pronti, poiché non sappiamo né l'ora né il modo della nostra morte: di vivere quindi come nell'attesa del tempo messianico che si compie per ognuno di noi già con la nostra morte. Per questo S. Paolo, citato da A., ci ammonisce: "vivete come se non foste sposati, se non foste quello che siete nel mondo etc."; ossia: vivete secondo gli insegnamenti di Cristo e sempre pronti a lasciar tutto, di colpo, con la morte, per andare grazie ad essa (dies natalis) incontro (la vostra anima) al Messia che viene a voi come giusto Giudice.
Il tema del Giudizio però in Angaben non c'è, mi pare.
Il da lui citato Walter Benjamin, da marxista criptico, atipico, ha cercato di costruire un messianesimo rivoluzionario, emanante in apparenza un'aura veterotestamentaria. Ma appunto nel Messia (la Rivoluzione) vuol vedere soprattutto la "redenzione" dal passato, passato di oppressione, che va vendicato "facendo saltare il continuum della storia" con la rivoluzione proletaria (Tesi di filos. della storia, postumo, 1950). Qui siamo del tutto fuori dall'escatologia cristiana. Ed anzi contro.
PP

Anonimo ha detto...

Un tempo esteriore ed un tempo interiore, in quest'ultimo passa il Messia quando vuole. E' nel tempo interiore che si costruisce il Regno in grado di frenare e silenziare il tempo esteriore che per natura corre verso l'abisso caotico e chiassoso. La Chiesa avrebbe dovuto insegnare a fare spazio nel tempo interiore per costruirvi il Regno osservando la mappa dei segni del tempo esteriore, rafforzando quindi il necessario. Così non è stato se non a sprazzi ed ora non lo è affatto.Ora la chiesa sta correndo dietro al tempo esteriore per non restargli indietro dimentica del Regno, dimentica dello spazio interiore, incapace di leggere la mappa dei segni dei tempi esteriori. Venuta meno al suo compito impazzisce.

Che ne pensate? ha detto...

24 dicembre 2021

Da amante di Sophia, la presenza dei filosofi su schermi e schermini mi fa un grande piacere, solo che ne vorrei di più, oltre ad Agamben e Cacciari e Fusaro e Stefano lo Statalista, il mio amico Bonaga a cui il virus ha risvegliato il demone del comunismo, vorrei vedere Cristin, Cuniberto, Esposito, Ferraris, Floridi, Giametta, Manzotti, Marrone, Zhok... Da amante di Dio vorrei vedere anche dei teologi, però. Dove sono finiti? Per caso si sono estinti? O forse non hanno nulla da dire? Afferma Socrate, nel “Fedone”, che i “filosofi temono la morte meno di quanto facciano gli altri uomini”. Dunque il covidismo, basato sulla soppressione certa della libertà in nome di un'incerta salute, è antifilosofico e volgare. Io lo percepisco inoltre antiteologico però vorrei che ne parlasse un teologo, magari per spiegarmi che ho torto. Nessuno si presta? Pazienza. So benissimo che una Natività vale più di un'intera facoltà teologica, che San Gregorio Armeno nella trasmissione della fede conta più dell'Università Gregoriana, e che chiunque stasera abbia in casa un presepe ama la vita più di quanto la amano gli altri uomini.

(Camillo Langone - Preghiera)

Anonimo ha detto...

26 dicembre 2021 21:41

Forse ogni generazione ha la sua Apocalisse, la Sua terribile Rivelazione, così come la ha ogni singolo individuo. Forse ogni vita è una sintesi singolare della Storia Sacra.

Riguardo a W.B. bisogna tener presente che gli Ebrei studiano, meditano le Scritture, J.Taubes ad esempio si dichiarava 'paolino', ai suoi allievi consigliava di leggere la Bibbia prima di affrontare la filosofia. Può darsi che in W.B. ci sia stata questa torsione del significato di Messia come è accaduto a tanti di loro. Non lo so con certezza. Quello che apprezzai di lui era l'aver sottolineato la connessione stretta che corre tra la morale e la capacità critica, cioè tra morale e giusto giudizio.

fabrizio giudici ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
fabrizio giudici ha detto...

La cosa che mi ha veramente sorpreso è la data di questo discorso: dodici anni fa.

Per il resto:

Poiché il rischio è che essa stessa sia trascinata nella rovina che minaccia tutti i governi e tutte le istituzioni della terra.

È precisamente la fine che farà la "chiesa" modernista, stretta nell'abbraccio mortale con il mondo.

mic ha detto...

Cito Luigi Puddu. Esattamente quel che ho pensato anch'io

Agamben e Cacciari. Autori che, pur non essendo credenti, si sono sempre confrontati con questioni religiose alte, se non altissime. Non è detto che le loro soluzioni siano state sempre totalmente condivisibili (così come anche quelle attuali). Ma certo rappresentano vette speculative. Se ci fosse ora in Ecclesia un Tommaso, o almeno un Alberto, ne verrebbe fuori qualcosa di riguardo.

Anonimo ha detto...


IL "messianesimo" dell'ebraismo rivoluzionario va preso con le molle, allo stesso modo del "paolinismo" di Taubes.

La "torsione del significato" rispetto al messianesimo autentico c'è di sicuro in Benjamin. Si vede dalle sue brevi "Tesi di filosofia della storia", pubblicate postume nel 1950 (vedi: W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, 1962, tr. it. e intr. di Renato Solmi, pp. 72-83, forse ristampato). Ma anche da altri scritti. Sia Benjamin che filosofi come Franz Rosenzweig ("La stella della salvezza" o "redenzione", tr. it. il Mulino), si sono appropriati del concetto di "redenzione", dandogli però un significato del tutto diverso, inserendolo cioè nella filosofia della prassi marxiana, il cui compito è rovesciare l'esistente per rinnovarlo dalle fondamenta su basi esclusivamente umane: la "redenzione" lo è di tutto il passato dell'umanità (oppressa per definizione) mediante la rivoluzione proletaria, che viene allargata a evento cosmico-storico, rinnovamento spirituale totale. La Rivoluzione è il Messia. Essa "ci redime" dal passato, creando l'uomo nuovo (questa l'illusione). Vediamo qui una traccia del messianesimo ebraico tradizionale, dove però al posto di Israele abbiamo la Rivoluzione, nemica di tutte le religioni.
Si deforma anche il messianesimo cristiano. In questo senso: il Messia, Nostro Signore, supera il chiuso particolarismo nazionalistico del messianesimo ebraico (come veniva inteso, interpretazione restrittiva del profetismo veterotestamentario), apportando a tutta l'umanità la possibilità della vera redenzione, però mediante la Croce. Il messianesimo di questi pensatori ebrei tedeschi coinvolge tutta l'umanità ma per apportarle la Rivoluzione, la falsa "redenzione" dei rivoluzionari marxisti.
Scrivono appunto tra le due guerre, un'epoca gonfia di attese "messianiche", esplose poi nel II conflitto mondiale (intrecciate ovviamente alle tradizionali componenti geopolitiche e strategiche).
Siamo comunque agli antipodi del messianesimo cristiano. Possiamo dire: questi pensatori(pur notevoli, per alcuni aspetti) rappresentano un'eresia ebraica, quell'eresia iniziatasi con il materialismo e il Deus seu Natura di Spinoza, perfezionata a sistema da Marx, votata sin dall'inizio alla lotta contro il Trascendente, contro Dio. Un'eresia che permane, visto che la maggioranza degli intellettuali ebrei è notoriamente atea.
PP

Anonimo ha detto...

https://youtu.be/VjExvOGXkGU

Una vita senza green pass: Davide Tutino insegnava filosofia in un liceo...

tralcio ha detto...

Oggi la parrocchia come esilio evoca frequenti sofferte esperienze personali di soggiorno da stranieri, pur tuttavia come tempo proteso verso il ritorno a casa. Tutto il tempo storico della Chiesa coincide con questo soggiorno. Gesù è rimasto con noi nel sacramento, ma è atteso ritornare come fu visto allontanarsi il giorno dell’Ascensione (i messaggeri dissero: “verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”).
Per Dio mille anni sono un giorno… La Chiesa vive il suo tempo da straniera nel mondo da quarantotto ore scarse. Negli ultimi minuti ha preferito stare nel mondo da concittadina, trovando scomodo e assurdo l’esilio. Il cambiamento di status giuridico (da “nel mondo, ma non del mondo” a “nel mondo e con il mondo”) determina un drastico calo di attenzione verso il ritorno a caso e l’attesa del ritorno di Gesù.
L’imminenza del ritorno, già vissuta con delusione per il suo ritardo pochi decenni dopo l’avvio del cristianesimo, negli ultimi tempi è divenuta insopportabile o più prosaicamente è stata ritenuta poco credibile. E’ una questione di fede, drammaticamente esplicitata nel quesito del vangelo di San Luca: “Ma quando il Figlio dell'uomo tornerà troverà ancora fede sulla terra?” .
L’esperienza ecclesiale pastoralizzata, secolarizzata e annacquata nell’escatologia non è banalmente un modo nuovo e differente di vivere un’attesa, ma stravolge l’esperienza stessa dell’esilio. Si sta in stazione non attendendo il treno che ritarda (in realtà un orario non c’è e la fede lo sa), ma sollazzandosi al bar con chi vi troviamo, parlando di tutto tranne del treno che dovrà arrivare e che dovrebbe catturare ogni attenzione. Si è in stazione nella logica del chronos, ma senza più tendere l’orecchio o lo sguardo al kairos.
E’ vero che ogni istante è una porta per l’entrata del messia, ma lo sarebbe se quell’istante fosse vissuto nel kairos, come tempo opportuno. Invece lo storicizzare è solo un divenire cronologico intriso delle attese schiacciate sulle speranze degli uomini, le magnifiche sorti e progressive di qualche interlocutore del bar.
Ma il kairos è forse un apocalittico disastro che, se pensato e annunciato, dovrebbe spaventare e minacciare il quieto conversare tra simili accomunati dall’attesa? O è una liberazione definitiva delle molte questioni che hanno fatto alzare la voce a più d’uno mentre se ne discuteva in sala d’aspetto? Quello messianico non è la fine dei tempi, ma il tempo della fine, il tempo che resta fra il tempo e la sua fine.
La Chiesa ha le chiavi per cambiare l’esperienza dello stare nel mondo. Gesù a un certo punto disse una cosa terribile: “Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito”, sempre in San Luca.
E’ come se negli ultimi minuti del suo tempo storico la Chiesa stesse buttando le chiavi.
Che il Signore fermi quella mano insensata! Non perché le cose penultime siano insignificanti, ma perché significheranno tutt’altro in assenza delle ultime! La scienza perderebbe questa sua chiave per trasformare le cose penultime. Una Chiesa così è un sale che ha perduto il sapore.
La rimozione del catechon può essere il sale senza sapore, il buttare la chiave, l’aver vissuto solo la cittadinanza del mondo senza sentirsi esuli di un Regno che è altrove, ma Provvidenza farà sempre in modo da riservare un po’di sapienza alla Chiesa. Certo, per chi intanto sta nella parrocchia che si è esiliata dal suo esilio dal mondo è un’esperienza di croce, ma questo fa parte della consegna prima dell’Ascensione.
Purtroppo ricorda molto i tre articoli del Catechismo Cattolico (675-677). La Chiesa lo sa.

Angheran70 ha detto...

Buon Natale anzitutto

Vado un po' controcorrente. Premetto che non conoscevo Agamben prima della pandemia e che quindi ben venga questa scoperta e la diffusione di queste riflessioni sul ruolo della Chiesa, anche se risalgono al 2009.

Lo stile è senza dubbio complesso, sarebbe interessante capire se oggi la sua visione sia rimasta immutata.

La parte che mi ha meno convinto è la seguente perchè mi sembra una sorta di
proiezione applicata alla Chiesa. Agamben dice che è frutto dei teologi e che gli appare quasi blasfema. Ma poi - se ho ben capito - in pratica la fa propria:


Secondo questa opinione, che mi è sempre sembrata quasi blasfema, quando la comunità cristiana delle origini, che attendeva il ritorno del Messia e la fine dei tempi considerandoli imminenti, si è resa conto che vi era un ritardo di cui non si vedeva la fine, avrebbe allora cambiato orientamento per darsi un’organizzazione istituzionale e giuridica stabile. Ossia avrebbe smesso di essere paroikein, di soggiornare da straniero, e si sarebbe disposta a katoikein, a dimorare da cittadino, come tutte le altre istituzioni di questo mondo


Questa accusa potrebbe infatti applicarsi con maggiore aderenza al ruolo svolto dall'ebraismo postbiblico, dopo la distruzione del tempio, quando le varie
ondate millenaristiche nate dalla delusione storico-religiosa attraversano le comunità fino ad approdare alla sintesi rivoluzionaria del '900.

IL "messianesimo" dell'ebraismo rivoluzionario va preso con le molle, dice il Prof.Pasqualucci

Mi permetto di aggiungere che va preso con le molle anche il messianismo "conservatore" da cui Agamben sembra in certa misura affascinato
(Heidegger, Kojeve ecc.)

Infine una nota tratta dall'intervista con Sofri (1985):

Filologo erudito, non è però venuto a capo del problema dell’origine del suo cognome. Forse l’Armenia, gli ha suggerito una volta Gianfranco Contini

Anonimo ha detto...

27 dicembre 2021 10:49

Sì, conosco gli spostamenti di significato di parole fondamentali che finiscono con il diventare costumi di scena entro i quali altre sono le intenzioni, i mezzi ed i fini.

Per quello che riguarda il pensiero di Taubes, come di altri intellettuali ebrei, è certamente esaltante nella sua esposizione, varie letture mi sono state necessarie per comprenderne la struttura, un pensiero fratto da rimandi ad altri testi, da ricordi personali che hanno modificato ed ampliato la visione dell'autore, questo ed altro è stata la lettura di: 'La Teologia Politica di San Paolo' ultimo seminario di J.Taubes prima della sua morte, edito da Adelphi. Credo che sia uno dei pochissimi libri che ho letto e riletto varie volte appassionatamente, le prime volte per comprenderlo poi man mano per gustarlo.

mic ha detto...

La Chiesa stessa, come dire l'unità di quanti proclamano Cristo morto e risorto con la vita e le opere, è coinvolta nella credibilità dell'annuncio sponsale messianico. La banalizzazione del peccato, con la conseguente perdita di fedeltà alla Parola rivelata nella divina Incarnazione, impone la conoscenza esperienziale di un'autentica metanoia, mancando la quale, la vocazione messianica non sarebbe più credibile perché oscurata di ipocrisia reazionaria. " Che cos'è, in fondo, l'ipocrisia? " si domanda Dostoevskij " niente altro che il tributo che il vizio è tenuto a pagare alla virtù ". Senza la croce non solo tutto è finzione, ma non c'è resurrezione, la possibilità appunto di uscire dalla finzione e divenire credibili. Questa in fondo è la ragione perché il Regno patisce violenza ed è sottratto agli intelligenti e ai sapienti e rivelato ai piccoli. Ma oggi chi sono i piccoli, se non quanti riconoscendosi figli cattivi perché disubbidienti alla Parola incarnata del Padre nell'amore del Figlio, hanno rifiutato di portare la propria croce scaricandola sugli altri?
Cito Valem Tucci

Anonimo ha detto...

Nel regno in cui i figli della resurrezione e della promessa saranno uguali agli angeli, non nel corpo e nell'età, ma certamente nella felicità.

- Sant'Agostino, De civitate Dei, XXII, 20, 3

Anonimo ha detto...


Postilla breve su Taubes.

Un autore indubbiamente stimolante ed anche affascinante, come lo sono stati in particolare quegli intellettuali ebrei tedeschi che hanno tentato di conciliare l'ebraismo con la modernità intesa ora in chiave marxista ora esistenziale. Ma, ripeto, va preso con le molle quanto alla sua interpretazione di S. Paolo, che un cattolico non può accettare.
Non può ovviamente credere Taubes all'ispirazione divina di Paolo e quindi fa di Paolo l'autentico inventore del cristianesimo, al posto di Gesù. Ne fa il fondatore di un popolo di Dio al posto del popolo di Dio rappresentato da Israele, nella supposta contrapposizione a Mosè, come se Paolo si fosse voluto contrapporre a Mosè, quale capo politico di un Israele trasfigurato-impersonato nei Gentili. Ma Paolo, in Romani 9-11 non si contrappone affatto a Mosè: espone invece (divinamente ispirato) il significato della Nuova Alleanza, stabilita da Cristo, di contro all'Antica, il cui tempo si è compiuto nella Nuova, che ne costituisce non la contrapposizione ma il superamento-compimento.
Non fa di Paolo uno gnostico, Taubes, ma afferma che c'è in lui un "tratto gnostico" sviluppato poi da Marcione!
Che il fondatore-inventore del cristianesimo sia stato Paolo e non Gesù è tesi adottata da molti intellettuali e teologi ebrei, che in tal modo si sentono autorizzati, contro la lettera e il senso dei Testi, a presentare il cristianesimo quale semplice eresia dell'ebraismo, destinata un giorno a sparire o ad esser riassorbita.

Taubes è comunque un autore di grande onestà intellettuale, qualità che gli va riconosciuta anche se non possiamo seguirlo nella sua
interpretazione di Paolo, che va anzi debitamente criticata.
(Vedi: Jacob Taubes, La teologia politica di san Paolo, tr. it., Adelphi, 1997, tutta la I parte, pp. 9-103; 107-117 su Marcione).
[Ai fautori del "dialogo" con l'ebraismo: i Noachiti, pagani proseliti dell'ebraismo, frequentavano la sinagoga, ascoltando le letture della Torah : "Erano però una presenza passiva, non erano cioè chiamati alla lettura della Torah, rimanevano spettatori. (Dal punto di vista ebraico le cose stanno così - e questo vale ancora oggi, non è cambiato nulla; tutte le chiacchiere sulla comprensione fra Ebrei e cristiani non hanno alcun valore - il mondo si suddivide in Jews and Gentiles]) (Taubes, op. cit., p. 47).
PP

Anonimo ha detto...

"...quindi fa di Paolo l'autentico inventore del cristianesimo, al posto di Gesù..."

questo l'ho sentito ventilare anche in ambiente cattolico durante seminari cattolici in istituzioni cattoliche...

Anonimo ha detto...


# Paolo "inventore" del cristianesimo al posto di Gesù.

Non mi rammento al momento l'origine effettiva di questa assurda tesi. Forse è maturata nell'ambito del razionalismo protestante.
Comunque assai diffusa, credo, nell'odierna polemica ebraica contro il cristianesimo (dico "polemica" perché tale è anche se i toni sono smorzati rispetto al passato).
Lo "gnosticismo" di Paolo, che anticiperebbe Marcione, consisterebbe secondo Taubes nell'immagine di un Dio terribile e vendicativo che Paolo propalerebbe nei suoi scritti, un Dio sterminatore, responsabile del male nel mondo, come appunto ritenevano gli gnostici.
Ma san Paolo non fa altro che richiamare, in alcuni passi, la giustizia divina e il carattere inesorabile della sua punizione, per il peccatore impenitente. Dov'è lo scandalo? Invece per gli gnostici la creazione stessa era malvagia, opera di un Dio malvagio (Antico Testamento, come inteso da loro), cui andava contrapposto un Dio buono, Gesù, inteso tuttavia più come un principio trascendente-immanente che come individuo storico. Dal male del mondo in cui ci troviamo, lo gnostico crede di liberarsi mediante una conoscenza (gnosi) di tipo iniziatico, filosofico, teurgico, magico. Niente a che vedere con l'insegnamento di san Paolo.
Nel suo scritto Taubes insiste su certi elementi simbolici della liturgia giudaica, come riproposta dal celebre "Stella della redenzione" di Franz Rosenzweig, 1921, tradotto da il Mulino. Un'opera quest'ultima assai complessa, possiamo dire di filosofia della religione, nella quale cristianesimo ed ebraismo vengono visti come entrambi portatori di una rivelazione ugualmente valida. Mi chiedo se questa impostazione non abbia influito sul modo nel quale Ratzinger ha voluto vedere il rapporto tra i due monoteismi.
PP