Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 3 giugno 2023

L’ottava settimana: la sapienza dell’ottava di Pentecoste tradizionale

Oggi si conclude l'Ottava di Pentecoste. Nella nostra traduzione da New Liturgical Movement acquistiamo sempre più consapevolezza delle profondità spirituali inesorabilmente perdute con l'abolizione della stessa nel Novus riformatore. Delle usanze dimenticate dell'Ascensione abbiamo già parlato qui, mentre qui abbiamo ricordato le Quattro tempora di Pentecoste, anch'esse tra le pratiche abbandonate col Novus Ordo ma ancora vive nella Tradizione. Sulle variegate manipolazioni subite dai testi latini liturgici tradizionali utilizzati dagli artefici della Messa riformata, interessante trattazione generale qui - qui.

L’ottava settimana:
la sapienza dell’ottava di Pentecoste tradizionale 
Gregory Dipippo

Siamo molto grati a un monaco benedettino per aver condiviso con noi queste sagge osservazioni sull’importanza di celebrare l’ottava di Pentecoste.

Quando il Consiglio per l’attuazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia post-Vaticano II affrontò la questione del ciclo temporale, vale a dire la celebrazione annuale dei misteri della salvezza dall’Incarnazione all’invio dello Spirito Santo a Pentecoste, il suo principio fondamentale (come in tutti gli altri ambiti, secondo la prescrizione della Sacrosanctum Concilium) sembra essere stata la “semplificazione”, un processo che imporrebbe necessariamente una serie di soppressioni e accorciamenti. Se il cuore stesso dell’anno liturgico, la Settimana Santa e la Pasqua, è rimasto pressoché intatto all’interno del calendario, i tempi preparatori e conclusivi della celebrazione hanno registrato due significative perdite, vale a dire la Settuagesima e l’ottava di Pentecoste. Mentre il calendario tradizionale prepara la Quaresima con le due settimane e mezza di Settuagesima e chiude il periodo pasquale con un’ottava per la venuta dello Spirito Santo, i riformatori sembrano aver creduto di dover applicare alla lettera le parole di Sant’Agostino: “Celebriamo quaranta giorni di penitenza prima della Pasqua; con gioia però, avendo ricevuto la nostra ricompensa, cinquanta giorni dopo la Pasqua” (Tratto 17 su san Giovanni; questo testo si legge nel Breviario del venerdì di Quaresima).

Perché l’ottava di Pentecoste? Ragioni numerologiche

Indubbiamente i numeri quaranta e cinquanta sono altamente simbolici, avendo profonde radici nella tradizione biblica. La Chiesa ha sempre fatto riferimento al santo digiuno di quaranta giorni e al giubileo di cinquanta giorni dopo Pasqua. Per oltre un millennio il digiuno di quaranta giorni è stato composto da quarantasei giorni (tenendo conto le sei domeniche che sono incluse nella Quaresima ma non sono giorni di digiuno) ed è stato preceduto da un periodo per prepararci ad esso, cioè la Septuagesima, che serve come una sorta di riscaldamento, in modo che quando arriva il Mercoledì delle Ceneri siamo pronti per il combattimento spirituale. Il defunto canonico André Rose, che era membro del Consilium di Bugnini, si lamentò con questo autore del fatto che la soppressione della Septuagesima [qui] non ci lasciava altra scelta che “paracadutare le persone nella Quaresima” (espressione sua). Pare che il suo superiore, Mons. Martimort, insistesse sul fatto che quaranta giorni di preparazione alla Pasqua sono sufficienti. “Quaranta giorni e non di più!”. E da quel giorno fu creato un nuovo ufficio liturgico non ufficiale, quello del paracadutista quaresimale…

Qualcosa di simile è avvenuto all’altro termine della celebrazione pasquale, con la soppressione dell’Ottava di Pentecoste. Sono stati assegnati cinquanta giorni alla celebrazione della “magna Dominica” (espressione di sant’Atanasio per definire la celebrazione dei cinquanta giorni della Pasqua). Il giubileo di cinquanta giorni risale al monte Sinai, poiché fu il cinquantesimo giorno dopo la prima Pasqua e dopo l’uscita dall’Egitto che la Legge fu data a Mosè sul monte. La promulgazione dell’Antica Legge è sempre stata vista come una prefigurazione della Nuova. Di conseguenza, il cinquantesimo giorno dopo la risurrezione viene effuso lo Spirito Santo, a coronamento del mistero pasquale, e viene promulgata la nuova legge del Vangelo per tutte le genti. L’antico inno delle Lodi di Pentecoste lo esprime mirabilmente con la strofa: “Patrata sunt haec mystice / Paschae peracto tempore / Sacro dierum numero / Quo lege fit remissio — Queste cose già avvenivano misticamente / allorché, trascorso il tempo pasquale, / si apriva un ciclo sacro di giorni / in cui la legge rimetteva i debiti”.

La domenica di Pentecoste è il cinquantesimo giorno di Pasqua, ma è anche, cosa più significativa, l’ottava domenica di Pasqua, il che significa che apre l’ottava settimana della celebrazione pasquale. Come la risurrezione di Nostro Signore avviene l’ottavo giorno, vale a dire dopo il riposo sabbatico, poiché è un altro giorno che inaugura una nuova era, così qui la celebrazione del tempo pasquale si chiude opportunamente con un’ottava settimana, che simboleggia il fatto che la fondazione della Chiesa cristiana ha introdotto l’umanità in un’era nuova e definitiva, preludio all’eternità. Infatti, se l’ottavo giorno simboleggia la nuova creazione, l’ottava settimana è come una settimana celeste, nella quale l’anima fedele può anticipatamente deliziarsi della presenza dello Spirito Santo, legame eterno tra il Padre e il Figlio. Quindi, il carattere sacrale della celebrazione pasquale dei cinquanta giorni non è mai andato perduto nella Chiesa, ma il suo prolungamento in un’ottava settimana gli ha conferito una dimensione ancora più profonda.

Ragioni pratiche
C’è anche una ragione pratica che può aver contribuito al prolungamento della Pentecoste di un’intera settimana. Così come il numero dei giorni di Quaresima è stato aumentato a quarantasei (per questo la Quaresima inizia di mercoledì) per includere quaranta giorni di digiuno oltre alle domeniche, che non sono giorni di digiuno, anche le cinquanta celebrazioni della Pasqua sono state prolungate a causa del fatto che durante il tempo pasquale ci sono sei giorni in cui è consuetudine digiunare, vale a dire i giorni delle Rogazioni e le Quattro Tempora dopo la Pentecoste. Se sottraiamo quei sei giorni dalle otto settimane intere del tempo pasquale, abbiamo esattamente cinquanta giorni di celebrazione giubilare.

Viceversa, da un punto di vista pratico, così come, a causa della soppressione della Settuagesima, sembra strano far cominciare bruscamente la Quaresima col Mercoledì delle Ceneri, senza alcuna transizione dal “tempo ordinario”, sembra strano anche, dopo la celebrazione giubilante della domenica di Pentecoste, ritrovarsi di colpo e senza transizione nel “tempo ordinario”, come se il giorno prima non fosse successo niente. Come tanti altri aspetti della liturgia riformata, questo fatto, ideato negli uffici della burocrazia liturgica, sembra logico, sembra pulito sulla carta. Quindi abbiamo una bella e ordinata marea pasquale, così come abbiamo una bella e ordinata Quaresima. Quaranta giorni di Quaresima, cinquanta giorni di Pasqua. Questo è tutto.

Un cambiamento importante nella teologia
Tuttavia, la soppressione dell’ottava avrebbe creato una serie di altri problemi. Questo è ciò che succede quando un’opera d'arte complessa è ritenuta troppo elaborata e si cerca di semplificarla. Potete immaginare di riuscire a “semplificare” la Cattedrale di Chartres o le Quattro stagioni di Vivaldi? Il risultato sarebbe inevitabilmente un disastro. In questo caso particolare, il problema più grande è che in Occidente, contrariamente a quanto accade nelle liturgie orientali, la teologia dello Spirito Santo che si è sviluppata nel corpus dei testi liturgici è in gran parte concentrata proprio all’interno dell’ottava di Pentecoste. Amputare l’ottava significava amputare la liturgia dei suoi più cospicui testi pneumatologici.

La soluzione trovata è stata quella di sostituire l’ottava dopo la Pentecoste con una novena di preparazione prima della Pentecoste. Questa novena, che va dal giovedì dell’Ascensione alla Pentecoste (o, purtroppo, ora in molti luoghi dalla domenica dell’Ascensione alla Pentecoste, diventando così una “novena di sette giorni”…) è definita ufficialmente un tempo di preparazione per la venuta dello spirito Santo. Di conseguenza vi trovano posto alcune preghiere dell’antica ottava (sebbene un po’ mutilate, come sottolineeremo). A prima vista, il cambiamento è sembrato agevole ed è stato salutato come un’ottima iniziativa. Ora cantiamo il Veni Creator Spiritus prima della Pentecoste, il che sembra avere senso. Preghiamo affinché lo Spirito venga prima che sia effettivamente qui, invece di farlo quando è già con noi.

Ma questo approccio trascura un punto molto importante. Il cambiamento incide profondamente sul concetto stesso di ciò che si celebra. Celebrando liturgicamente la novena di preparazione — si noti che la novena è sempre esistita nella devozione personale dei singoli e delle comunità religiose, che spesso considerano quel periodo come un tempo di ritiro — abbiamo oggi solo una commemorazione dell’evento salvifico invece della celebrazione continua di una grazia che perdura attualmente. Ricordiamo quanto è accaduto nel primo secolo della nostra era: Gesù è venuto, ha offerto la Sua vita per noi, è risorto dai morti, è asceso al cielo e ha mandato lo Spirito Santo in mezzo a noi. Questa è una rievocazione storica. Ma quando arriviamo alla domenica di Pentecoste, una volta commemorato l’evento non c’è altro da fare. Lo Spirito Santo è stato dato alla Chiesa. Viviamo con Lui. Egli è la nostra vita. Torniamo a ciò che è ordinario.

Cosa dobbiamo pensarne? In un certo senso è vero. Lo Spirito Santo è stato davvero dato alla Chiesa e i doni di Dio sono irrevocabili. Ma fermiamoci un attimo e consideriamo quale potrebbe essere il significato teologico sottostante della forma più antica della liturgia. I giorni tra l’Ascensione e la Pentecoste, conosciuti in inglese come Ascensiontide (o l’ottava dell'Ascensione, come divenne nota nel periodo post-tridentino), trascorrono nella contemplazione del trionfo dell’umanità glorificata del Salvatore, mentre allo stesso tempo volgiamo lo sguardo verso il dono del Paraclito. L’antifona al Magnificat, O Rex Gloriae, cantata ai secondi Vespri dell’Ascensione, unisce entrambi questi aspetti, ed è cantata quotidianamente durante questo periodo. Ma quando, a Pentecoste, riceviamo il dono dello Spirito, sentiamo il bisogno di trascorrere un’intera settimana ringraziandoLo, gioendo alla Sua presenza, crogiolandoci alla Sua luce, ma anche pregandoLo di venire in modi sempre nuovi e di rimanere con noi per sempre. Anche se a prima vista potrebbe non sembrare, l’ottava annuale dello Spirito Santo radica nella nostra mente e nel nostro cuore il fatto che, sebbene lo Spirito ci sia stato dato, dobbiamo continuamente pregare che Egli ci illumini, che rimanga con noi, che ci difenda da ogni male e ci conduca a una beata eternità.

La Chiesa, infatti, è costantemente in grave pericolo, finché il Signore non ritornerà nella gloria. Ad essa è stato affidato il mistero della salvezza, ma la Chiesa sa bene che tra i suoi figli ci sono quelli che si allontanano dal suo seno, si lasciano coinvolgere da false dottrine e perdono la loro anima. La brusca fine del tempo pasquale del Novus Ordo proprio la sera della domenica di Pentecoste sembra indicare che, ora che abbiamo lo Spirito, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ma sappiamo che ciò non è vero.

L'antica liturgia invece, come in tanti altri ambiti, è una scuola di umiltà. Abbiamo lo Spirito Santo; se Lo perdiamo, non sarà colpa Sua. Proprio questa consapevolezza ci ha aiutato a non dimenticare l’ottava di Pentecoste: possiamo perderLo per colpa nostra se smettiamo di pregare e di chiedere la Sua guida. Ciò può accadere a tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi pastori. È eccessivo dire che la Chiesa, nel Vaticano II, sembrava fare bisboccia autocelebrando la propria gloria? Che è entrata nell’era postconciliare con quella che probabilmente era un’esagerata fiducia in se stessa, proprio come se si affidasse troppo al dono dello Spirito che aveva già ricevuto e che non poteva perdere? È vero che la Chiesa ha lo Spirito e che non può perderLo, ma i singoli membri della Chiesa, inclusi i suoi pastori, possono farlo. Ci sono troppi esempi di questo fatto per azzardarsi a negarlo.

L’impressione di chi scrive è che il periodo postconciliare della Chiesa sia stato segnato da una crescente assenza della luce dello Spirito Santo e, al tempo stesso, da una crescente audacia nel pretendere che la Chiesa non possa fallire. La ridotta devozione allo Spirito Santo non potrebbe forse spiegare alcuni gesti di eccessiva audacia, se non di grave imprudenza, di alcuni recenti pontefici — sebbene Dio solo sia giudice di ciò —, soprattutto nell’ambito del dialogo interreligioso e dell'ecumenismo, così come nei suoi sforzi spesso eccessivi per essere in buoni rapporti con i poteri politici del tempo, fino al punto di non avere il coraggio di alzarsi in piedi e di difendere i suoi diritti (come abbiamo visto così chiaramente, recentemente, con la chiusura delle chiese per mandato del Stato, e anche con la rimozione delle acquasantiere e col divieto della Comunione sulla lingua, a causa di notizie non verificate secondo cui queste pratiche causerebbero un pericolo di contagio)?

In questo senso, molti dei pastori della Chiesa sembrano aver dimenticato ciò di cui i loro predecessori erano molto diffidenti, vale a dire la propria fragilità. Gli antichi, proprio perché ne erano pienamente consapevoli, evitavano saggiamente di percorrere strade irte di gravi pericoli per la fede, o di intervenire in temi sui quali la Chiesa non ha carisma di verità, o di essere troppo loquaci sulla fede, moltiplicando in tal modo il rischio di pronunciare errori nei documenti ufficiali. Molti hanno additato appunto proprio il vizio della loquacità da parte della Chiesa dal Vaticano II — è difficile stare al passo con tutti i documenti che vengono pubblicati! Ma poiché, secondo il Vaticano I, il carisma dell’infallibilità è limitato a pochi e rarissimi casi, è troppo parlare di peccato di presunzione quando la Chiesa interviene costantemente nei dibattiti pubblici soprattutto su questioni per le quali non ha particolare mandato o competenza (come ecologia, clima, vaccinazioni, etc.…) e allo stesso tempo trascura il suo vero ruolo di ammaestrare le nazioni e di predicare con chiarezza la dottrina cattolica per la salvezza delle anime?

Alcune gemme dell’ottava
Oltre all'importanza dell'ottava stessa per le ragioni appena esposte, la celebrazione degli otto giorni di Pentecoste contiene anche una serie di gemme che la liturgia riveduta ha semplicemente perso. Numerosi commentatori hanno sottolineato la grande ricchezza dell’ottava di Pentecoste.

Il primo motivo per cui i riformatori hanno trovato da ridire sull’ottava di Pentecoste era il fatto che fosse una sorta di doppio dell’ottava pasquale, con la rispettiva, lunga messa di veglia. Il fatto è che, dopo l’Editto di Milano, erano tanti gli adulti che volevano essere battezzati che non era possibile riceverli tutti a Pasqua, e così la Pentecoste divenne la seconda grande festa del Battesimo (da cui il termine inglese Whitsunday, che si riferisce alle bianche vesti dei neofiti che escono dal fonte battesimale). Sarebbe tuttavia errato vedere nell’ottava di Pentecoste una ripetizione servile della Pasqua. Anche se un piccolo numero di canti è ripreso dall’ottava pasquale, la grande maggioranza è propria di questa ottava, che ci fornisce una sintesi di tutta la vita cristiana. I testi delle varie Messe sono ricchi di tesori che manifestano i molteplici doni dello Spirito Santo.

Come accennato in precedenza, alcuni dei testi dell’ottava hanno subito significative mutilazioni quando sono stati spostati nella nuova novena di preparazione. Basteranno due esempi. La prima è l’orazione del venerdì di Pasqua dopo la Pentecoste, nella quale si prega:
Da, quaesumus, Ecclesiae tuae, misericors Deus: ut Sancto Spiritu congregata, hostili nullatenus incursione turbetur”. (“Concedi alla Tua Chiesa, Ti preghiamo, o Dio misericordioso, che essendo raccolta nell’ovile dello Spirito Santo, non possa essere turbata dall’attacco del nemico”.)
Nel Nuovo Messale questa orazione è diventata:
Ecclesiae tuae, misericors Deus, concede propitius, ut, Sancto Spiritu congregata, toto sit corde tibi devota, et pura voluntate concordet”. (Dio misericordioso, concedi alla Tua Chiesa, TI preghiamo, che, unita dallo Spirito Santo, possa essere devota a Te con tutto il suo cuore e unita con una volontà pura”.)
Non riconosciamo più che, essendo riuniti dallo Spirito Santo, abbiamo ancora bisogno di protezione dai nemici, sia visibili che invisibili. Come altrove nel Nuovo Messale, è svanito ogni riferimento a difficoltà, ostacoli o nemici. Chiediamo solo di essere devoti e uniti: sono cose meravigliose, ma sembra che ci sia un pelagianesimo latente, con un’implicita negazione degli effetti del peccato originale che alla fine rischia di farci prendere alla sprovvista. Facendoci dimenticare i veri pericoli in cui ci troviamo spesso, ci viene reso più difficile compiere proprio quelle cose che la nuova orazione richiede.

La stessa logica soggiace all’orazione del martedì di Pentecoste:
Adsit nobis, quaesumus, Domine, virtus Spiritus Sancti: quae et corda nostra clementer expurget et ab omnibus tueatur adversis”. (Concedi, ti preghiamo, o Signore, che il potere dello Spirito Santo dimori in noi; possa misericordiosamente purificare i nostri cuori e difenderci da ogni pericolo”.)
Questa orazione è ora diventata:
Adveniat nobis quaesumus Domine, virtus Spiritus Sancti, qua voluntatem tuam fideli mente retinere, et pia conversazionee depromere valeamus”. (O Signore, venga su di noi la potenza dello Spirito Santo, mediante la quale siamo in grado di osservare la Tua volontà con mente fedele e di realizzarla con una vita santa”.)
A quanto pare, i nostri cuori non hanno più bisogno di essere purificati, né abbiamo bisogno di essere difesi dai pericoli. Tutti i nemici sono svaniti, e questo non ci aiuta a vincerli, perché in realtà sono ancora lì.

Penitenza e digiuno
Un’altra parte significativa dell’ottava di Pentecoste sono le tre Quattro Tempora, che sono tradizionalmente giorni di penitenza. I riformatori sembrano aver ritenuto incompatibile la fusione di una gioiosa celebrazione con la pratica della penitenza. Ma qualcosa di simile accade con le Rogazioni prima dell’Ascensione e con le ferie del mese di settembre, in cui diversi testi ci ricordano di essere gioiosi e di far festa, mentre altri ci esortano a digiunare e a fare penitenza. Come può essere? Diciamo anzitutto che le Quattro Tempora e le Rogazioni, storicamente parlando, non hanno alcun legame con il tempo liturgico in cui si celebrano. Seguono il ciclo solare e sono destinate a santificare le stagioni dell’anno e a chiedere grazie particolari, soprattutto per scongiurare malattie, guerre, calamità naturali e ogni sorta di mali.

C’è, tuttavia, un senso profondo in cui il cadere di tali giorni in tempi di gioia è più appropriato. Da un lato dobbiamo sempre, mentre siamo ancora in questa valle di lacrime, unirci alla Passione di Nostro Signore e accettare di condividere le Sue sofferenze. Ma dobbiamo anche tenere presente che la vittoria è già stata conquistata dalla Risurrezione. Possiamo e dobbiamo rallegrarci della nostra penitenza, e possiamo rinnegare noi stessi nei nostri giorni di allegria. Proprio questo concetto è colto da san Benedetto, che dice ai suoi monaci, nel pieno del loro digiuno quaresimale, di attendere con ansia la santa Pasqua “con la gioia dello Spirito Santo… con gioia e nostalgia spirituale” (Regola, cap. 49).

Qui vediamo che la ricchezza dei vari elementi delle antiche pratiche liturgiche sono un insegnamento molto più reale e concreto sulla realtà della nostra vita. Sono proprio queste celebrazioni che ci educano a vivere come buoni cristiani. L’antica liturgia, come la fede stessa, è veramente una liturgia incarnata che integra una lunga esperienza dell’uomo e dei suoi reali bisogni, mentre la nuova liturgia è un po’ disincarnata, in quanto sembra non prendere sul serio il pericolo in cui l’uomo si trova in un mondo caduto. Intesi in questa prospettiva, possiamo dire che giorni come questi, che uniscono gioia e penitenza, sono forse i più significativi dell’anno liturgico, poiché sono il tipo stesso della nostra vita cristiana, in cui siamo configurati con Cristo crocifisso ma allo stesso tempo abbiamo l’assoluta certezza del fatto che, se perseveriamo, camminiamo verso la gioia eterna e la gloria della risurrezione. Allora si riesce a capire come sia possibile avere un volto gioioso durante il digiuno, come ci ha detto Nostro Signore nel Discorso della Montagna (cfr. Mt 6, 17-18). Per inciso, san Tommaso dice una cosa che sorprenderà molti, e cioè che il digiuno domenicale è del tutto appropriato, poiché il giorno del Signore è un giorno di gioia spirituale, e tali giorni sono quelli in cui è più opportuno temperare i bisogni naturali. La disciplina canonica della Chiesa ha chiaramente stabilito che non si deve digiunare la domenica, perché è bene rilassare un po’ il corpo e renderlo partecipe della gioia della risurrezione, ma il principio enunciato da san Tommaso rimane, e mostra come gioie spirituali e penitenza corporale possano andare di pari passo.

Un ultimo punto da tenere presente è che l’antica ottava di Pentecoste è un’ottava privilegiata di prima classe. Ciò significa che nessun’altra celebrazione ha la precedenza, e anche le altre feste di prima classe devono essere trasferite dopo l’ottava. Invece la novena di preparazione del Novus Ordo non ha un rango particolare rispetto agli altri giorni del tempo pasquale. Ciò significa in pratica che se ci sono feste o memoriali (vale a dire, nella terminologia più antica, feste di seconda o terza classe), queste hanno la precedenza, e non si fa menzione della novena. A causa di questa rubrica, la novena liturgica di preparazione non viene quasi mai celebrata per tutti i nove giorni, e in alcuni anni può essere interrotta per più giorni consecutivi. La grande solennità dello Spirito Santo è così ulteriormente sminuita.

Conclusione
Come tanti altri aspetti dell’antica liturgia, ci vuole tempo ed esperienza per svelare tutti i misteri contenuti nell’ottava di Pentecoste. Non si può attraversare semplicemente una cattedrale medievale e aspettarsi di vedere e comprendere tutto ciò che ha da offrire: bisogna fermarsi a leggere o ascoltare le spiegazioni; bisogna trascorrere del tempo al suo interno; bisogna pregarvi. Con la vecchia liturgia succede la stessa cosa. Ci sono voluti secoli per sviluppare questo capolavoro. Tagliarlo a pezzi e incollarne di nuovo alcuni insieme integrando elementi ibridi presi altrove è stata una pessima idea che non ha giovato alla Chiesa.

Per quanti di noi hanno il privilegio di celebrare l’intera ottava di Pentecoste, preghiamo con fervore lo Spirito Santo affinché continui ad agire potentemente all’interno della Chiesa, e in particolare sulla gerarchia. Come notato sopra, nell’orazione del venerdì dopo la Pentecoste, lo Spirito è Colui Che protegge la Chiesa dagli attacchi del nemico. Oggi di nemici ce ne sono molti, sia dentro che fuori di essa. Possa Egli proteggerci e dare ai nostri pastori il coraggio di usare entrambe le estremità del loro pastorale, l’estremità superiore ricurva per attrarre le pecore e tenerle dentro, l’estremità inferiore appuntita per allontanare i lupi che cercano di divorarle (il bastone e il vincastro del Salmo - ndT).
Hostem repellas longius,
Pacemque dones protinus.
Ductore sic te praevio,
Vitemus omne noxium. Amen.
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]
______________________________
A I U T A T E, anche con poco,
l'impegno di Chiesa e Post-concilio per le traduzioni
IBAN - Maria Guarini
IT66Z0200805134000103529621
Codice BIC SWIFT : UNCRITM1731

8 commenti:

Anonimo ha detto...

ANGOLI CIECHI

La prova comincia nel preciso istante in cui un sottilissimo dubbio trova lo spazio per serpeggiare nell’intercapedine che c’è tra la fede e la volontà.
-“Ma sei poi sicuro che Dio interverrà?”
-“E se stai sperando invano?”
-“Non è che ti stai illudendo miseramente?”
-“tutte queste preghiere a che cosa servono?”

Il maligno conosce i nostri “angoli ciechi”, punti in cui non si ha nessuna possibilità di basarsi sui dati di realtà per credere e sperare.
Momenti in cui ci sentiamo soli, persi e abbandonati da Dio e dagli uomini.
Sono tremendi squarci di tenebra che paragonerei arditamente all’istante in cui si aziona la cordicella del paracadute e questa si inceppa...
Che fare?
“Agere contra”, agire al contrario secondo il motto Ignaziano.
La tentazione che cosa suggerisce?
Non pregare? Tu prega!
Disperare? Tu spera!
Non agire? Tu esci!

Dio ci prende sul serio...
ci siamo forse già dimenticati di tutte le volte che, come Pietro, gli abbiamo promesso - incautamente - assoluta ed eroica fedeltà?
Ecco, ci caschiamo sovente nei momenti di sole ed entusiasmo, nevvero?
Quello della prova è il momento della verifica.
Bisogna essere forti e risoluti perché se disgraziatamente si cade, si vanifica tutto il cammino e si deve faticosamente ripartire da zero.
Qualche superficiale dirà: ma basta confessarsi... be’, certamente, ma se foste in fase di riabilitazione post operatoria per un muscolo strappato chi sarebbe così fesso da forzarlo e comprometterne la guarigione, perché tanto si può operare nuovamente e ricominciare la fisioterapia?
Coraggio! Il coraggio vince la paura.
Chi sopravvive alle tenebre vedrà sorgere il sole.
RB

Anonimo ha detto...

Sembra facile, ma non è così. Soprattutto, il problema della prosperità dei cattivi ha scosso ad un certo punto la mia fede. Conosco benissimo le spiegazioni che dà S. Alfonso nell'Apparecchio alla morte e quelle di altri autori; conosco anche il Commento a Giobbe di San Gregorio Magno. A chi non ha la fede, non prega mai, maltratta il prossimo, si disinteressa della propria madre ammalata, per ben undici anni, salvo alla morte raccoglierne l'eredità (mio fratello) va tutto a meraviglia. I teologi per giustificare il totale disprezzo di Dio e la furbizia impuniti, raccontano che Dio per qualche bene compiuto ai malvagi e ai furbi concede tutto adesso perché nell'altra vita non può dare loro niente. Il problema è questo: quel che succede adesso tutti lo vediamo, quel che potrebbe eventualmente succedere dopo nessuno lo vede. Bisogna crederci. Io non ci credo più. Qualche volta ci casco, recito qualche preghiera, poi smetto e mi dico che tanto è inutile. È assurdo fare il male, per esempio dimenticandosi della propria mamma per undici anni e poi venirne a raccogliere l'eredità e restare del tutti impuniti... e continuare nelle cattiverie, nonostante i miei numerosi atti di perdono ed oblio. Quindi, è tutto bello, ma perché io ritorni a credere come prima ci vorrebbe un intervento di Dio, adesso. Ed è gia tardi!

Anonimo ha detto...

LA NOSTRA FEDE E' L'AVARIZIA, LA NOSTRA FEBBRE E' LA LUSSURIA, LA NOSTRA FEBBRE E' L'AMBIZIONE, LA NOSTRA FEBBE E' L'IRACONDIA ( S.AMBROGIO)

Considera la clemenza del Salvatore che non si mostra agitato dallo sdegno, né offeso dalla malvagità né oltraggiato dai torti ricevuti e non abbandona la Giudea, anzi dimentico delle offese e memore della sua clemenza, accarezza i cuori del popolo infedele, ora insegnando, ora liberando dai demoni, ora sanando.
Dopo la liberazione dell’uomo posseduto dallo spirito impuro san Luca racconta immediatamente la guarigione di una donna perché il Signore era venuto a guarire l’uno e l’altro sesso dovendo cominciare da quello che per primo fu creato non tralasciando la donna che aveva peccato più per la mutabilità che per la malvagità del suo animo.

E’ di sabato che il Signore comincia a compiere guarigioni per significare che la nuova creazione comincia dove l’antica si era arrestata e per rimarcare sin dal principio che il Figlio di Dio non è sottoposto alla Legge ma superiore alla Legge e che egli è venuto non a distruggere la Legge ma a perfezionarla. Infatti il mondo non è stato creato dalla Legge ma dal Verbo Eterno di Dio così come leggiamo Dio creò i cieli con la Sua Parola (Ps. 32,6). Quindi la legge non è abolita ma adempiuta perché avvenisse la rinascita spirituale dell’uomo già decaduto. Per cui dice S.Paolo: Spogliandovi dell’uomo vecchio (Col. 3,9), rivestitevi dell’uomo nuovo creato secondo Dio (Ef.4,24).

E a ragione egli comincia di sabato per mostrare che Egli è il Creatore che fa entrare le opere nella trama delle opere, continuando l’opera che un tempo da Egli stesso era stata iniziata. Così fa l’operaio che si appresta a riparare una casa, egli inizia a demolire le fatiscenze non dalle fondamenta ma dai tetti; e così egli pone mano per prima dove una volta aveva terminato poi comincia dalle cose minori per arrivare a quelle maggiori. Anche degli uomini possono liberare dal demonio? Sì, ma in nome di Dio. Comandare ai morti di risuscitare non appartiene che alla potenza di Dio.

Nel tipo di questa donna, suocera di Simone e di Andrea, può forse anche raffigurarsi questa nostra carne che soffriva delle diverse febbri dei peccati e bruciava di smisurati trasporti di innumerevoli cupidigie. La febbre degli affetti sregolati non è certo da meno di quella che riscalda. Una brucia l’anima, l’altra il corpo. La nostra febbre è l’avarizia, la nostra febbre è la lussuria, la nostra febbre è l’ambizione, la nostra febbre è l’iracondia.

SABATO DELLE QUATTRO TEMPORA DI PENTECOSTE

Lc.4,38-44

S.AMBROGIO,
Liber 4 in Lucae cap.4 circa finem

Breviario Romano, Letture del Mattutino

Anonimo ha detto...

Grazie, Mic . Ancora un articolo che è oro colato!

Anonimo ha detto...

Tutto da bere.

Anonimo ha detto...

Carl Schmitt
di Marcello Veneziani
26 Settembre 2016

Anonimo ha detto...

Niccolò Machiavelli
di Marcello Veneziani
05 Dicembre 2016

Spes ha detto...

Non le rispondo in maniera distaccata, come chic è estraneo a queste dolorose esperienze , e non può capire. No, non è così. Ma come dice S Luigi di Monfort, cosa ha dato il Padre al Figlio diletto fatto uomo? La Croce. Durante il corso di tutta la vita terrena, dal momento del concepimento. E la da anche a noi , figli adottivi, come unico mezzo per giungere alla Gloria. Ad ognuno di noi una scheggia, grande o piccola secondo le nostre forze, della Croce. È preoccupante la condizione dei cattivi cui va tutto bene. Sembra quasi che non siano più, come i figli, degni di essere corretti. Dico sembra perché non spetta a noi giudicare. Noi dobbiamo tentare, con forza che supera la capacità umana ma che ci viene certamente data se la chiediamo, di pregare per loro , per la loro emendazione ( proprio perché si trovano in una situazione pericolosa)