Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 30 giugno 2025

La superficialità di una latinità strumentale

Non sono sempre d'accordo con Giorgia Meloni che, tuttavia, al momento, ritengo il meno peggio. Pubblico il testo che segue – anche se ritengo la critica alla persona troppo severa: purtroppo la forma senza contenuto oggi è una costante non solo in politica –, perché è interessante conoscere la reale profondità della massima citata; il che dimostra quanto abbiamo perso della nostra cultura oltre che della nostra civiltà. Qui l'indice degli articoli sul Latino.

La superficialità di una latinità strumentale

Nel corso dell’intervento a Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica, l’On. Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, ha evocato, con piglio assertivo ma senza reale profondità, la nota massima romana "si vis pacem, para bellum", attribuita generalmente a Vegezio (V secolo d.C.), autore tardoimperiale del "Epitoma rei militaris" (è contenuta nel Prologo del III libro). La frase, divenuta ormai luogo comune nella retorica politico-militare, è stata adoperata in riferimento alla delicata tregua intervenuta tra la Repubblica Islamica dell’Iran e lo Stato di Israele, come se il richiamo a tale principio bastasse a conferire profondità analitica o spessore teorico all’azione diplomatica dell’esecutivo italiano. Tuttavia, una simile esibizione di latinità, così come proposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri, si rivela nient’altro che un involucro retorico vuoto, uno slogan ad effetto, ripetuto senza alcuna consapevolezza del suo significato storico, politico e soprattutto filosofico. [L'uso è semplicemente pragmatico nel contesto di una scelta difficile e controversa -ndr]A differenza di quanto la banalizzazione contemporanea lascia intendere, la formula "si vis pacem, para bellum" non si riduce alla semplice esortazione alla deterrenza. Essa non suggerisce, come vorrebbe la lettura moderna di matrice realista, che l’accumulo della forza militare sia sufficiente a garantire la pace, come se la minaccia fosse in sé misura di equilibrio.
Per Roma, e ancor più nella sua più alta tradizione repubblicana e stoico-cristiana, la guerra non era un fine, né mero strumento tecnico di risoluzione del conflitto: era un "actus" tragico e sacrale, ordinato al ristabilimento dell’ordine naturale e giuridico violato. Prepararsi alla guerra significava, dunque, nella mente del giurista come del console, non armarsi a scopo di intimidazione, ma disporre la "res publica" all’equilibrio dell’ordine delle genti, a un universo normativo che trascendeva l’opportunità del momento e fondava la pace su un concetto sostanziale di iustitia. La pace, per Roma, non era assenza di conflitto, ma conformità alla "lex naturae", armonia tra l’essere e il dover essere, secondo il retto uso della ragione.
Chi si limita, come il Presidente del Consiglio, a ripetere questa espressione senza tenere conto dell’ontologia politica che la sorregge, tradisce il senso stesso del concetto di pace. La Meloni, nel citare "si vis pacem, para bellum" come giustificazione dell’inasprimento degli equilibri geopolitici o come presunto fondamento per legittimare la corsa al riarmo europeo, rivela piuttosto una concezione puramente funzionale e meccanica del conflitto. Tuttavia, in tal modo, la guerra viene svuotata di ogni residuo contenuto etico, viene ridotta a gesto tecnico, a esercizio di potenza, a dimostrazione di forza priva di teleologia. 
Questo è il segno di una regressione preoccupante del pensiero politico, che si priva di ogni dimensione escatologica e trascendente per ridursi a una ragion pratica, fredda e tautologica, dove il potere vale solo perché si può esercitare. Non vi è, infatti, nella citazione della Meloni, e tanto meno nelle sue politiche nonostante i penosi slogan "vai Giorgia, grande Giorgia" etc. ripetuti a pappardella da una pseudo classe dirigente, alcuna traccia della sapienza romana che, nella prudenza, vedeva la più alta virtù del comando, né eco del pensiero classico-cristiano, per cui la guerra giusta è sempre subordinata a un "finis bonus", a un fine giusto e superiore, ordinato al bene comune. 
La pace, così come essa è intesa nei fondamenti della civiltà europea, non è il sottoprodotto della forza, bensì il frutto della "ordinatio ad bonum", della costruzione di una comunità che vive nella verità, nella giustizia e nella carità. In questo senso, prepararsi alla guerra non è semplice esercizio di addestramento o ammodernamento delle forze armate, ma impegno costante per rendere la società degna della pace, per renderla capace di riceverla e custodirla.
C’è, nel modo con cui il Presidente del Consiglio dei Ministri si appropria di espressioni latine, una tendenza tipica di certo conservatorismo politico contemporaneo: quella di strumentalizzare il patrimonio linguistico e simbolico della romanità per legittimare scelte pragmatiche che nulla hanno a che vedere con l’ethos romano. È la stessa retorica che adorna di richiami identitari politiche del tutto slegate da ogni profondità filosofica, che usa la forma senza contenuto, l’autorità della tradizione senza la sua sostanza. Ciò che è peggio, però, è che questa superficialità produce effetti reali: essa giustifica una visione della pace come risultato dell’egemonia e giustifica, al contempo, una politica estera italiana sempre più ancillare rispetto alle logiche delle grandi potenze, incapace di esercitare un vero ruolo di mediazione o di testimonianza. Chiudo con una invocazione che mi auguro Giorgia Meloni comprenda: "O Di, liberate nos ab his politicis sine prudentia".
Daniele Trabucco

5 commenti:

Anonimo ha detto...

La superficialita' e' arrivata ad un punto tale che
basta l'enunciato e...si digerisce tutto senza piu' senso critico.

Anonimo ha detto...

L ' autore dell'articolo sembra impugnare un maglio per schiacciare una noce. Tanto spreco di analisi "ontologica" sul significato che la guerra avrebbe avuto per i Romani antichi, del tutto superflua, dato che quello che Meloni ha voluto dire, con una citazione peraltro molto usata da sempre: noi dobbiamo "riarmarci" ma non lo facciamo con intenti aggressivi. Lo facciamo solo per difenderci e quindi per mantenere la pace, da noi e in Europa. Tutto qui.
Si è giocato molto sul termine "riarmo" quasi volesse indicare chissà quali piani mondiali di conquista. La maggior parte di chi scrive articoli o commenta sui blog non sa nulla di questioni militari, non si istruisce in proposito, si bea nell'ignoranza di queste cose tipica di un società di ignavi come la nostra. Bisogna vedere innanzitutto da che livello di preparazione militare parte il riarmo e quali fini si propone. Il livello è molto basso, gli eserciti europei sono in generale in condizioni penose. Il fine non è certo quello di invadere la Russia o qualche altro paese.
Il conflitto ucraino ha fatto vedere importanti cambiamenti nella tattica e strategia, dovuti soprattutto all'impiego dei droni, diventato universale e letale contro carri armati e mezzi meccanizzati di ogni tipo. L ' Italia in questo campo è del tutto sprovvista, deve pertanto "riarmarsi". Abbiamo una guerra permanente anche in Medio Oriente, che coinvolge il Mediterraneo orientale, con la presenza dominatrice della potenza israeliana. Una realtà che non si può ignorare.
La Russia sta dimostrando di non esser interessata a negoziare la pace in Ucraina, visto che la situazione militare, sia pur lentamente, sta volgendo a suo favore. Ha già di fatto acquisiti tutti o quasi i territori cui ambiva (Crimea e Donbass), cui ha aggiunto Mariupol escludendo del tutto l'Ucraina dal mar d'Azov. Perché allora non accetta di chiudere la guerra, in cambio si capisce di uno status di neutralità assoluta dell'Ucraina?
Il fatto è che la Russia si è ormai convertita ad un'economia di guerra pertanto si trova in posizione di vantaggio rispetto all'Occidente. Un articolo de ilGiornale di giorni fa riportava l'opinione dell'Ispettore generale dell'esercito tedesco cioè del Comandante in capo dell'esercito tedesco, basata su un dettagliato rapporto, giusta il quale la Russia sarebbe (tecnicamente) pronta ad attaccare l'Europa occidentale nel 2029, vibrando il colpo verosimilmente attraverso punti deboli quali un corridoio semipianeggiante che si trova tra Polonia e uno Stato baltico, lungo qualche decina di km e largo solo qualche km, attualmente del tutto indifeso. Non è che il generale tedesco conoscesse i futuri piani russi. Semplicemente, di fronte all'ormai gigantesco "riarmo" russo, che non molla la presa sull'Ucraina, egli si preoccupava di indicare i punti deboli di un possibile fronte con i russi, punti che andrebbero subito fortificati (alla luce dell'esperienza della guerra ucraina). Strategia difensiva, dunque.
Ma i problemi militari ci sono e grossi.
Bene fa il governo attuale a perseguire il c.d. "riarmo", che può spaventare solo i prevenuti o le anime belle, oltre a far infuriare la sinistra (post)comunista, da sempre nemica del proprio Paese.
Miles

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI PRO TEMPORE SULLA VERA PACE ha detto...

Preg. mo Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Giorgia Meloni,

Le scrivo nella consapevolezza che ogni responsabilità di governo è anche, in senso proprio, un atto di testimonianza: la testimonianza di un ordine di principi che precede la convenienza e il calcolo e che trova nell’idea di giustizia la sua ragion d’essere più profonda.

La parola pace viene spesso pronunciata come se fosse un mero espediente retorico per velare la durezza di una politica che, nei fatti, identifica la sicurezza con l’espansione indefinita della potenza militare. Tuttavia, la pace, se intesa nella sua verità originaria, non è la semplice sospensione provvisoria dell’ostilità, né l’equilibrio instabile dei timori contrapposti. Essa è, piuttosto, la forma più alta di giustizia resa visibile nell’ordine delle relazioni umane e internazionali. Secondo la dottrina del diritto naturale classico, la pace è la "tranquillitas ordinis": la quiete che scaturisce dall’armonia dei fini e dal riconoscimento della legge morale che vincola la libertà dei singoli e delle comunità.

Ogni volta che il potere politico confonde la pace con l’accumulo di strumenti di offesa sia pure diluito nel tempo, o la riduce a un progetto di supremazia tecnologica, viene reciso alla radice il legame tra la forza e la ragione, tra l’autorità e la verità. Non è l’arsenale a rendere una comunità più libera, ma la fedeltà a quei principi universali che riconoscono nell’uomo, prima che nel cittadino (che è una mera finzione giuridica), il titolare di una dignità inviolabile. La corsa all’armamento non è che una forma sofisticata di inquietudine, la proiezione esteriore di un disordine interiore: un potere che non trova più la misura in un fondamento di giustizia trascendente è costretto a cercare nella minaccia l’ultima giustificazione di sé.

Ora, la forza, privata della luce della ragione e della verità, diviene cieca necessità e si trasforma in un idolo che pretende sacrifici sempre più grandi. Comprendo bene che le circostanze politiche, spesso, obbligano a compromessi che paiono inevitabili. È possibile che un’azione diversa da parte Sua avrebbe prodotto scosse di instabilità e incrinato assetti di governo. Tuttavia, se vi è una sovranità che davvero supera i confini mutevoli degli interessi, essa è quella della coerenza interiore: il primato della coscienza sulla convenienza, della verità sull’opinione, dell’ordine giusto sulla finzione costruita per un popolo che, da tempo, si illude di essere libero mentre è sempre più vincolato a un orizzonte di necessità impersonali.

Non vi è pace dove la ragione è subordinata alla strategia, dove la prudenza si trasfigura in calcolo tattico, dove l’idea stessa di bene comune (che non è il bene pubblico, bensì il bene dell'uomo in quanto e, per questo motivo, conune all'intera comunità) si piega a una logica di supremazia. La vera pace si edifica solo quando il diritto riconosce la sua origine in un ordine superiore, che nessuna maggioranza politica può violare senza rinnegare se stessa. Si potrebbe obiettare che queste mie semplici considerazioni costituiscano una mera utopia. In realtà, non è affatto così. Semmai è una forma di realismo più profondo, perché riconosce che la forza, se non trova il suo limite nella giustizia, si autodistrugge. La storia dimostra che ogni sistema fondato solo sulla deterrenza e sull’accumulo di armi genera prima o poi una crisi di legittimazione che puó (ci auguriamo tutti che non sia così) condurre ad esiti drammatici. Con rispetto.

Prof. Daniele Trabucco
(Professore stabile in Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario "san Domenico" di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico nell'Università degli Studi di Padova).

Chi desidera, ovviamente in piena libertà, puó apporre la propria firma tra i commenti, indicando il nome ed il cognome.
Daniele Trabucco

Serge ha detto...

Professore, guardi che "quella di strumentalizzare il patrimonio linguistico e simbolico della romanità per legittimare scelte pragmatiche che nulla hanno a che vedere con l’ethos romano" è tecnica politica collaudata, già in uso nel Ventennio!

Laurentius ha detto...

Un intervento prezioso, profondo, che condivido per intero. Da meditare.