Paolo VI mentre pronuncia il Credo |
Si parla di Paolo VI; ma non è un semplice ritorno al passato: è il punto d'inizio o se vogliamo la persona e il momento attraverso cui è precipitato e si è manifestato un sentire ecclesiale ormai attestato e consolidato e che sta dando i frutti poco commestibili che oggi subiamo. Un'analisi molto precoce, lucida ed icastica, ma purtroppo inascoltata e totalmente silenziata, nonostante i tentativi di riproporla da parte di chi ama la Chiesa e cerca di cogliere dalle dinamiche che ne animano la 'pastorale' la cause prossime e remote dei problemi e le possibili soluzioni. Dunque diagnosi e rimedi. Manca chi li applica e chi dovrebbe esserne voce autorevole. Che si levi almeno la nostra flebile voce. Se non raggiunge chi dovrebbe sentirsene fortemente responsabilizzato come Pastore, raggiungerà le rive di cuori aperti e in attesa. La grazia farà il resto.
La Chiesa postconciliare. Paolo VI
65. La desistenza dell'autorità. Una confidenza di Paolo VI. – La disunione della Chiesa, visibile nella disunione dei vescovi tra di loro e dal Papa, è il fatto ad extra. Il fatto ad intra che lo produce è la desistenza dell'autorità papale medesima, dalla quale si propaga la desistenza di ogni altra autorità.
L'autorità, di qualunque specie sia la società in cui si esercita, è funzione necessaria (secondo alcuni addirittura costitutiva) della società, la quale è sempre una moltitudine di voleri liberi che si hanno da unificare. Questa unificazione, che non è riduzione ad unum di tutto, ma coordinamento di tutte le libertà in un'unione intenzionale, è lo scopo dell'autorità. Essa deve volgere le libertà degli uomini associati al fine sociale, prescrivendo i mezzi, cioè l'ordine, per conseguirlo. Perciò l'atto dell'autorità è duplice: è puramente razionale in quanto scopre e promulga la regola dell'operare sociale; è invece pratico in quanto comanda un tale ordine, disponendo le parti dell'organismo sociale secondo quell'ordine. Questo secondo atto dell'autorità è il governare.
Ora, il carattere singolare del pontificato di Paolo VI è la propensione a spostare l'officio pontificale dal governo alla monizione e, per adoperare i termini adoperati nella Scolastica, a restringere il campo della legge precettiva, la quale origina una obbligazione, e allargare quello della legge direttiva, la quale formula una legge ma non vi annette obbligazione di eseguirla.
In questo modo il governo della Chiesa risulta dimidiato [dimezzato] e, per dirla biblicamente, rimane abbreviata la mano di Dio (Isai., 59, 1). La breviatio manus può dipendere da più ragioni: o da una cognizione imperfetta dei mali, o da manco di forza morale, o anche da un calcolo di prudenza la quale non pone mano ai rimedi dei mali veduti, perché stima che così aggraverebbe i mali anziché guarirli.
Allo snervamento della sua potestà Papa Montini era inclinato da una disposizione dell'indole sua, confessata nel suo diario intimo e confidata al Sacro Collegio nel discorso del 22 giugno 1972 per il IX anniversario della sua elevazione: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non già perché io vi abbia qualche attitudine, o perché governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa e sia chiaro che Egli, non altri, la guida e la salva». La confessione è notabile. (11) Esorbita da ogni aspettazione, sia in linea storica sia in linea teologica, che Pietro, deputato da Cristo a condurre la nave della Chiesa (governare infatti è un traslato dal nautico pilotare), appaia ritroso a un tal servizio e si rifugi nel desiderio di patire per la Chiesa. L 'officio papale infatti prescrive un servizio di operazione e di governo. L 'atto del governare è estraneo all'indole e alla vocazione di Montini: l'uomo non trova nel proprio fondo il modo per unire la sua anima al proprio destino: «peregrinum est opus eius ab eo» (Isai., 28, 21). (12) Inoltre nel lasciar prevalere le propensioni dell'indole alle prescrizioni dell'officio il Papa sembra ravvisare un maggior esercizio di umiltà nel patire che non nell'operare per l’officio. Non so se un tal pensiero sia fondato: è certo che proporsi di patire per la Chiesa sia maggior umiltà che accettare di operare per la Chiesa?
L'avere il Papa riguardato l'officio suo come quello di chi dà regole direttive, ma non comanda con regole precettive, produce poi in lui la persuasione che nell'assolvere il compito direttivo si assommi il compito di Pietro. Questo appare distintamente nella lettera all'arcivescovo Lefèbvre (OR, 2 dicembre 1975). In essa il Papa, riconosciuta la grave condizione della Chiesa travagliata dalla caduta della fede, dalle deviazioni dogmatiche e dal rifiuto della dipendenza gerarchica, riconosce parimenti che spetta anzitutto al Papa di «individuare ed emendare» le deviazioni, e tosto proclama di non aver cessato mai di levare la voce rifiutando tali sfrenati ed eccessivi sistemi teorici e pratici. Ed infine protesta: «Re quidem vera nihil unquam nec ullo modo omisimus quin sollicitudinem Nostram servandae in Ecclesia fidelitatis erga veri nominis Traditionem testificaremur». (13)
Ora, tra le parti integranti del supremo officio furono sempre noverati gli atti di governo, cioè di potestà iussiva ed obbligante, senza dei quali l'insegnamento stesso delle verità di fede rimane pura enunciazione teoretica e di scuola. Per mantenere la verità occorrono due cose. Prima: rimuovere l'errore in sede dottrinale, il che si fa confutando gli argomenti dell'errore e dimostrando che non concludono. Seconda: rimuovere l'errante, cioè deporlo dall'officio, il che si fa per atto autoritativo della Chiesa. Se questo servizio pontificale vien meno, sembrerebbe non potersi dire che tutti i mezzi sono stati adoperati per mano tenere la dottrina della Chiesa: si verifica una breviatio manus Domini. Si diffonde allora, senza incontrare sufficiente impedimento, un concetto minorato dell'autorità e dell'obbedienza, cui corrisponde un concetto maggiorato della libertà e dell'opinabilità.
Questa breviatio manus ha certamente origine dal discorso inaugurale del Concilio che annunciò la rinuncia al metodo della condanna dell'errore (§ 40) e fu praticata da Paolo VI in tutto il suo pontificato. Egli si attenne come dottore alle formule tradizionali contenenti l'ortodossia, ma come pastore non impedì che corressero le formule eterodosse, pensando che da se stesse si sistemerebbero in formule ortodosse conformi alla verità. Gli errori furono da lui denunciati e la fede cattolica mantenuta, ma la disformazione dogmatica non fu condannata negli erranti e la situazione scismatica della Chiesa venne dissimulata e tollerata (§ 64).
All'incompiutezza del reggimento papale cominciò a portar riparo soltanto Giovanni Paolo II, sia condannando nominatim e rimovendo i maestri di errore, sia ristabilendo i principii cattolici nella Chiesa d'Olanda mediante il Sinodo straordinario dei vescovi di quella provincia convocati a Roma.
Paolo VI preferì il metodo ortatorio e monitorio [continuato in Benedetto XVI] che richiama, ma non condanna; fa attento, ma non obbliga; dirige, ma non comanda. [Di fatto, tuttavia, ha imposto la Riforma liturgica]. Anche nella solenne Esortazione apostolica Paterna dell'8 dicembre 1974 a tutto l'orbe cattolico il Papa denuncia quelli che «tentano di abbattere la Chiesa dal di dentro» (confortandosi ipocoristicamente [riduttivamente, con leggerezza] che siano proporzionalmente pochi); si diffonde sul rifiuto di obbedienza all'autorità accusata di «custodire un sistema e un apparato di potenza ecclesiastica»; deplora il pluralismo teologico insorgente contro il Magistero; protesta altamente «adversus talem agendi modum perfidum»; giunge ad appropriarsi la rivendicazione che della propria autorità episcopale fece il Crisostomo: «Quamdiu in hac sede sedemus, quamdiu praesidemus, habemus et auctoritatem et virtutem, etiamsi simus indigni». (14) Il Papa si addolora, denuncia, rivendica, accusa, ma nell'atto stesso di rivendicare l'autorità la immedesima in un monitorio: come se nella causa egli non fosse che una parte anziché giudice, assume di accusare, ma non condanna.
Il più generale effetto della desistenza dell'autorità è la disistima e inosservanza in cui cade da parte di quelli che le soggiacciono, non potendo il suddito avere dell'autorità una nozione superiore a quella che l'autorità ha di se medesima. Un arcivescovo francese proclama: «Aujourd'hui l'Eglise n'a plus à enseigner, à commander, à condamner, mais à aider les hommes à vivre et à s'epanouir». (15) E per scendere dal Palatino alla Suburra, in una tavola rotonda di preti indetta dal giornale «L'Espresso» nel 1969 si sostenne che il Papa è come i laici, e precisamente come il vigile che sul disco sta più alto degli altri per regolare la circolazione. E l'universale contestazione che rende la Chiesa attuale così diversa dalla Chiesa storica e preconciliare, anziché fenomeno patologico e anomalo sembra essere il proprio della religione autentica e sintomo di vitalità ecclesiale. Non c'è documento papale di fronte al quale gli episcopati del mondo non prendano posizione e, dietro ad essi, ma indipendentemente da essi e reciprocamente contraddicendosi, teologi e laici. Si ha così una molteplicità di documenti manifestanti una varietà che non è quella dell'ordine, giacche in essi l'autorità moltiplicandosi si annulla.
------(11) Una concezione diametralmente opposta fu quella di GIOVANNI XXIII che sul letto di morte diceva al suo medico: «Un Papa muore di notte, perché di giorno governa la Chiesa».
(12) «L 'opera di lui è a lui estranea».
(13) «In realtà Noi non abbiamo mai ne in alcun modo tralasciato di manifestare la Nostra sollecitudine nel conservare nella Chiesa l'autentica Tradizione».
(14) «Finché sediamo, benché indegni, su questo seggio, finché presiediamo alla Chiesa, abbiamo l'autorità e il potere».
(15) «Courrier de Rome», n. 137, 5 dicembre 1974 p.7
20 commenti:
Le parole di Amerio sono di una chiarezza cristallina, soprattutto quando mostra l'incompatibilità tra governo centrale e collegialità.
Fa notare come la Chiesa in quegli anni disconobbe quel grande assioma di tutta l'arte politica che vuole tanto più forte il momento dell'autorità quanto più grande è la mole da reggere e quanto è più diversificato il complesso in cui conservare l'unità. Mi sembra incredibile la debolezza di Paolo VI nei confronti dei modernisti che, come osserva Amerio, vede il guasto provocato, ma non vi pone mano per fermare i responsabili. Soprattutto in occasione dello scisma olandese, quando il pontefice scrive una lettera a quei vescovi non per sanzionarli, ma per chiedere loro come rafforzare la loro autorità ... incredibile veramente.
Di certo Paolo VI peccò per inazione, astenendosi dall'esercizio dell'autorità. Ma nel caso delle Ordinazioni sacerdotali della FSSPX, egli comminò la sospensione a divinis, ed altrettanto fece nell'imporre la liturgia riformata: in ciò trovando nella Gerarchia altrimenti disobbediente un ottimo braccio secolare che rese operativa la riforma liturgica vietando le Messe tridentine, perseguitandone i sacerdoti, allontanandone i difensori, denigrandone i sostenitori. Centinaia, migliaia di sacerdoti subirono un ostracismo impietoso e crudele avvallato da Montini e messo in pratica da quanti, disobbedienti in tutto ciò che di cattolico ancora sopravviveva dopo il Concilio, trovavano in quella volontà rivoluzionaria una perfetta coerenza di intenti.
[Di fatto, tuttavia, ha imposto la Riforma liturgica]
Non è dunque l'autorità che manca. Tutto quello che dice il grande Amerio sugli atti di governo e la loro "potestà iussiva ed obbligante" si può trovare negli atti di Paolo VI contro Monsigneur Lefèbvre. Non ha cambiato l'autorità, ma l'errore combattuto. Lo stesso oggi contro i Francescani dell'Immacolata. Oggi l'unico errore è la Tradizione cattolica. Contro questo errore, non manca l'autorità e anche la forza.
"Non ha cambiato l'autorità, ma l'errore combattuto. Lo stesso oggi contro i Francescani dell'Immacolata. Oggi l'unico errore è la Tradizione cattolica. Contro questo errore, non manca l'autorità e anche la forza.!
Come negarlo?
"Non ha cambiato l'autorità, ma l'errore combattuto. Lo stesso oggi contro i Francescani dell'Immacolata. Oggi l'unico errore è la Tradizione cattolica. Contro questo errore, non manca l'autorità e anche la forza.!
Come negarlo?
Non posso che sottoscrivere.
A maggior ragione, se si pensa che tra le accuse più rimarcate nei confronti dei FI c'è quella di "cripto-lefebvrismo".
il comportamento segnalato e' tipicamente "liberal" o " leftist" che dir si voglia: non uso l' autorita', mi mostro tollerante e democratico con chi la pensa come me, ma sono tirannico, dittatoriale, illiberale ed antidemocratico con chi la pensa come me, proclamando nel frattempo la tolleranza, il dialogo, la colleggialita', ecc.ecc.
Montini sarebbe stato al massimo un buon politico democristiano, ma come Papa...
Rosa
Segnalo questo articolo:
http://www.ilfoglio.it/soloqui/21925
Mi permetta una correzione, Rosa:
Montini non "sarebbe stato, al massimo, un buon democristiano" ma un ottimo comunista.
A Roma, il suo nomignolo era: Maolo VI...
caro Lister, non volevo infierire. e' stato pur sempre un Romano Pontefice. Penso inoltre che il suo modo di essere derivasse da problematiche personali, piu' che da un' ideologia, marxista, alla quale poteva o no appartenere.
Rosa
Segnalo quanto segue:
http://traditioliturgica.blogspot.it/2014/02/gesu-cristo-signore-dei-signori.html
http://rorate-caeli.blogspot.com/2014/02/important-pope-francis-on-feb-14-young.html
No comment
Concordo pienamente con i commenti che sono stati fatti sull'esercizio dell'autorità da parte di Paolo VI ma il grande Siri disse a benny Lay che Paolo VI rasentava il genio
Una lettura diversa, da angolazione diversa.
Quanto c'è di ideologico e quanto di reale?
http://www.formiche.net/2013/09/18/papa-giovanni-xxiii/
Attenzione al "lettore"!
Si tratta di Giancarlo Elia Valori, uomo-crocevia di tanti interessi, sostenitore del dialogo tra massoneria e cattolicesimo. Tant'è che su ‘Hiram', la rivista del Grande Oriente d'Italia, Valori regala ai confratelli uno strepitoso saggio sulle "Società dello Spirito", in cui fa una clamorosa considerazione: gli attacchi alla Chiesa sono il frutto della perdita "delle reti sapienziali occulte" del Vaticano, in cui l'omosessualità era un tratto distintivo.
Scrive Valori : "La questione della pedofilia, o le altre tematiche di tipo laicista, sono segnali significativi. L'omosessualità è un tratto, anch'esso rovesciato, della iniziazione sapienziale, come insegna la leggenda della relazione tra Dante e Brunetto Latini".
http://www.grandeoriente.it/images/Goi/Riviste/hiram/2012/02-2012.pdf
Paolo VI rasentava il genio.
Genialità applicata/adoperata in modo e per scopi negativi?
"perdita "delle reti sapienziali occulte" del Vaticano, in cui l'omosessualità era un tratto distintivo."
Significherebbe che la lobby omo non è più così potente?
E da cosa lo deduce?
beh, magari in Vaticano ci fossero meno porci...che' non sara' politically correct, ne' elegante da dire, ma secondo me, con la scusa delle " reti sapienzali" , sono semplicemente dei porci.
Rosa
Anamnesi perfetta, dott. Rosa....Paolo VI è morto ed è già stato giudicato da Chi di competenza, lasciatelo in pace, parce sepultis, perfino il tremendo e feroce impero romano seguiva questa legge.... Anonymous.
Parce sepultis...OK, ma deve valere per tutti i sepulti, non solo quelli di una parte, visto che c'è ancora chi sparla di Pio XII.
Tuttavia, se ai sepulti si deve la pietas, questo non obbliga i sopravvissuti a continuare sulla strada da loro battuta, se si è rivelata - e su questo non ci sono dubbi alcuni - devastante per la Chiesa e la società cristiana di paesi cattolici come il nostro, e non solo.
Rosa
Pio XII dava e dà ancora fastidio a certe lobbies che tu ben sai, come già dissi per la shoah, ci saranno sempre morti di serie A e morti di serie Z, almeno fino a quando......intelligenti pauca (last but not least la regia della visita in terra santa è affidata a skorka..... Lupus et Agnus.
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