Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 10 dicembre 2016

Tre postille all'intervista del 17 novembre 2016

Paolo Pasqualucci: Tre postille all’intervista rilasciata da Papa Francesco a l’Avvenire, il 17 novembre 2016

La prima riguarda le oscurità riscontrabili nella sua menzione dell’accordo con i luterani (tradottosi nella famosa Dichiarazione comune sulla Giustificazione). La seconda, la sua replica ai critici della Amoris Laetitia in nome di un concetto esistenziale di “vita”, giustificante una “misericordia” che sembra perdonare, in certi pur gravi casi, addirittura senza presupporre pentimento e conversione a Cristo. La terza, i suoi richiami all’insegnamento del Concilio Vaticano II per difendersi dall’accusa di “protestantizzare il cattolicesimo”, nella quale si dimostra come in certi testi del Concilio Vaticano II sia penetrata un’interpretazione di Gv 17, 21-23 che si presta all’equivoco ecumenismo oggi dominante1.
1. Una frase piuttosto oscura sulla “Grazia necessaria” alla Giustificazione
Dopo aver ricordato che il dialogo con i luterani dura da cinquant’anni, il Papa, in una delle sue risposte, ha ribadito che esso ha “dato i suoi frutti con la Dichiarazione comune, firmata nel 1999, sulla dottrina della Giustificazione, cioè su come Cristo ci rende giusti salvandoci con la sua Grazia necessaria, cioè il punto da cui erano partite le riflesprio [refuso per: riflessioni] di Lutero. Quindi, ritornare all’essenziale della fede per riscoprire la natura di ciò che unisce”.

Confesso che non mi è chiaro cosa voglia dire: “Cristo ci rende giusti salvandoci con la sua Grazia necessaria”. Sappiamo che il Papa non si esprime in un italiano scorrevole ma qui fino a che punto c’entra la lingua? Che significa affermare che “siamo resi giusti da Cristo che ci salva con la sua grazia necessaria”? Non mi è chiaro questo concetto di “grazia necessaria” e non credo lo sia nemmeno ai lettori.
Forse il Papa voleva riferirsi al concetto cattolico secondo il quale il giusto ha sempre a disposizione la “grazia sufficiente” per resistere alle tentazioni e compiere le opere buone? Lo troviamo, questo concetto, in un celebre passo paolino: “Perciò colui che si crede di star bene in piedi, guardi di non cadere. Non vi è sopraggiunta nessuna tentazione se non proporzionata all’uomo; Dio è fedele; egli non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma insieme alla tentazione vi darà pure la forza di poterla superare” (1 Cr 10, 12-13). Se Dio, nella sua bontà, non permetterà che siamo tentati al di sopra della nostra capacità di resistere, perché ci darà sempre la grazia necessaria (ed indispensabile) a resistere, ciò significa che, quando pecchiamo, lo facciamo perché ci chiudiamo all’aiuto sovrannaturale della grazia, non perché la tentazione sia come tale superiore alle nostre forze (anche se a noi sembra in quel momento esserlo). La forza per superare le tentazioni è solo in parte umana, innestandosi necessariamente su di essa l’elemento sovrannaturale e prevalente rappresentato dalla grazia (“Senza di Me non potete far niente”, Gv 15, 5), all’azione della quale dobbiamo aprire consapevolmente l’intelletto e la volontà, strumenti con i quali si attua la nostra resistenza alla tentazione.
Se questo è ciò che voleva dire il Papa, sorge allora un problema, visto che egli sta qui parlando di ciò che avremmo in comune con i luterani. Infatti, resistere alle tentazioni con l’aiuto (indispensabile e determinante) della grazia significa, dal punto di vista cattolico, resistervi in modo da praticare le buone opere, meritorie per la nostra salvezza, invece di quelle cattive, che ci tentano e conducono alla perdizione (è il cadere paolino: stai attento a non peccare di superbia e a non cadere in tentazione sì da peccare). Ma Lutero, respingendo l’idea che le opere buone possano essere meritorie per la salvezza nemmeno può accettare l’idea che a noi sia sempre concessa da Dio la grazia necessaria a resistere al male e ad attuare le buone opere. Perciò la “grazia necessaria” alla giustificazione menzionata dal Papa, se è quella della dottrina cattolica, non può essere quella dei luterani e non si capisce, allora, con quale criterio sia stata fatta questa “Dichiarazione c o m u n e sulla Giustificazione” tra cattolici e luterani. Se invece è la grazia “necessaria” alla salvezza nel senso dei luterani, allora l’affermazione del Papa è in sostanza luterana e non è cattolica, cosa del tutto inaccettabile e che desta enorme sconcerto.
Del resto, in un’altra intervista, del luglio scorso, Papa Bergoglio non ha forse fatto l’elogio della dottrina di Lutero sulla Giustificazione, quella stessa condannata come formalmente eretica dal Concilio di Trento in molti dei 33 canoni apposti al Decreto sulla Giustificazione, del 13 gennaio 1547? Non ha detto egli: “Ed oggi luterani e cattolici, con tutti i protestanti, siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto importante lui non aveva sbagliato”. Corsivo mio. Di fronte a queste incredibili affermazioni viene da chiedersi: per Papa Francesco, ha sbagliato allora il Tridentino a condannarlo, e prima ancora Leone X, con la bolla del 15 giugno 1520, che ne metteva all’indice 41 proposizioni, confermata espressamente dai suoi due immediati successori, Adriano VI e Clemente VII?
Per Lutero, infatti, la grazia vien data ai predestinati alla salvezza per condurli alla fede in Cristo (che sola ci salva - salvezza sola fide) e non mira a sostenere il predestinato (a questa fede) nell’attuazione di alcuna opera buona, come tale ritenuta ininfluente alla salvezza ed anzi persino di ostacolo ad essa (“in ogni opera buona il giusto pecca”, sragionò Lutero). Ed è, come si sa, una grazia che opera totalmente dall’esterno, senza effettivamente modificare l’uomo, senza cioè mai contribuire in modo decisivo a farne “l’uomo uomo” che deve essere il cristiano (Gv 3, 5), poiché per Lutero l’essere umano è totalmente corrotto dal peccato originale e compie sempre il male anche quando fa il bene: pecca sempre.
Perché l’uomo, nell’ottica luterana, “compia una buona opera – riassume il Bartmann – bisogna che la grazia lo afferri come se fosse uno strumento senza vita e senza volontà (una pietra, un pezzo di legno, un cavallo) e lo conduca dove vuole condurlo. Perciò, sotto l’influenza della grazia l’uomo resta libero solo esteriormente, ma non interiormente, necessitato com’è da essa”. E difatti Lutero scrisse, contro Erasmo da Rotterdam, il celebre libello De servo arbitrio (1525), o Della nostra non libera volontà, incatenata come può esserlo uno schiavo alla sua catena. Si può allora dire – sottolineo - che anche per Lutero la grazia sia necessaria alla salvezza, ma solo perché necessita i predestinati dall’esterno, coprendo i loro peccati come un mantello, secondo l’espressione famosa.
“Anche questo i cristiani devono prima di tutto sapere, per loro utilità e salvezza: Dio non prevede nulla a caso bensì prevede, predetermina e porta tutto a compimento con volontà immutabile, eterna e infallibile. In tal modo il suo fulmine atterra e annienta completamente il [nostro] libero arbitrio”2.
Come ha sempre sottolineato la teologia cattolica ortodossa, siamo qui agli antipodi dell’insegnamento della Chiesa: ci troviamo di fronte ad un determinismo assoluto, di chi crede alla predestinazione al male in chi si danna e a Dio quale causa del peccato di Adamo ed Eva; di chi nega (contro i Testi, la Tradizione e l’esperienza storica) la possibilità stessa di una nostra autentica rigenerazione interiore, ad opera della Grazia3.
Ma Papa Francesco ci dice qui che l’idea della “Grazia necessaria” era “il punto dal quale erano partite le riflessioni di Lutero” e che sarebbe proprio questo punto a costituire “l’essenziale della fede per riscoprire la natura di ciò che [ci] unisce”. E allora, conclusione logicamente inevitabile: l’essenziale della fede che unirebbe noi ai luterani sarebbe dato da un concetto di giustificazione ad opera della Grazia necessaria che appare assai più luterano che cattolico, visto che è quello dal quale “sono partite le riflessioni di Lutero”, condannate formalmente come eretiche dal dogmatico Concilio di Trento. E se, invece, questo concetto fosse ancora quello cattolico, ciò renderebbe del tutto assurda per manifesta contraddizione questa Dichiarazione c o m u n e sulla Giustificazione con i luterani. Insomma: siamo nella confusione più completa. E non potrebbe esser diversamente: la nozione cattolica e quella luterana della grazia sono non solo diverse ma anche opposte, come opposti sono la verità e l’errore, ossia l’insegnamento plurisecolare della vera dottrina cristiana ad opera della Chiesa e la torbida eresia del monaco sassone. In questa infausta Dichiarazione si sono evidentemente voluti unire “Cristo e Belihar” (2 Cr 6, 14-16).
2. Una replica sempre generica (e anche piccata) a chi ha criticato ‘Amoris Laetitia’: “alcuni continuano a non comprendere…” – e che si rifà immancabilmente al Concilio per giustificare una “misericordia” che perdona senza esigere affatto, per alcune colpe gravi, le “opere” del pentimento, della conversione, del mutamento radicale di vita.
Ai cinque Dubia manifestati ufficialmente il 19 settembre scorso nei confronti della Amoris Laetitia dalle Eminenze Burke, Caffarra, Brandmüller, Meisner, il Papa (che ufficialmente a tutt’oggi mostra di ignorarle) sembra aver replicato, nell’intervista, con un breve inciso lasciato cadere in una risposta riallacciante la sua personale pastorale della Misericordia alla proclamazione della “medicina della misericordia” quale unico criterio guida per la Chiesa, enunciato da Giovanni XXIII nella celebre Allocuzione di apertura del Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia: ispirandosi alla misericordia, la Chiesa non avrebbe più dovuto condannare gli errori. Come già rilevato da Romano Amerio, l’errore gravissimo di questa dichiarazione (che a mio avviso contraddice la costituzione divina della Chiesa) non sta ovviamente nell’aver ricordato che la “misericordia” è pur sempre un criterio ispiratore essenziale della pastorale della Chiesa bensì nell’averne dedotto, in modo del tutto improprio, la necessità di non più condannare gli errori del Secolo (che già pullulavano al tempo del Concilio, soprattutto fra i teologi), come se tra la misericordia di Nostro Signore e la sua Giustizia ci potesse essere antitesi, contraddizione! E come se la Chiesa anteriore al Concilio, nell’applicare accanto alla misericordia la giusta severità delle condanne, quando necessarie, non avesse saputo applicare (e per tanti secoli) il principio della carità cristiana, che è il fondamento della misericordia!
“Con la Lumen Gentium è risalita [la Chiesa] alle sorgenti della sua natura, al Vangelo [come se prima del Concilio la Chiesa non si fosse attenuta al Vangelo!]. Questo sposta l’asse della concezione cristiana da un certo legalismo, che può essere ideologico, alla Persona di Dio che si è fatto misericordia nell’incarnazione del Figlio. Alcuni – pensa a certe repliche ad Amoris laetitia continuano a non comprendere, o bianco o nero, anche se è nel flusso della vita che si deve discernere”.
Così Papa Francesco. Ho sottolineato la parte che si riferisce, con quella che sembra una punta di acredine, a coloro (“certe repliche”) che criticano Amoris Laetitia perché “continuano a non comprendere”, afflitti come sono, dice il Papa, da un “legalismo” che impedisce di cogliere “il flusso della vita”, quel “flusso” nel quale si deve invece “discernere”. È un tipo di critica ai suoi critici da lui manifestato altre volte e in un modo poco consono allo stile dei Papi, tradizionalmente sobrio, super partes, improntato allo spirito della carità cristiana. Poco consono, come di chi è solito additare mediaticamente al ludibrio delle folle chi è costretto a criticarne certe esternazioni perché destano scandalo (p.e. che convertire a Cristo sia una “sciocchezza” o un “peccato grave” o che Lutero abbia visto giusto sulla Giustificazione) o non sembrano conformi al Magistero perenne della Chiesa (come gli articoli di Amoris Laetitia contestati). L’eloquio dal taglio spiccio e popolaresco di questo Pontefice, che non ricusa dall’invettiva e dal dileggio dell’avversario, si conferma anche nella sua messa alla gogna di chi ne critica l’impegno ecumenico. Nella suddetta intervista a Avvenire così si esprime sul punto:
“Altre volte si vede subito che le critiche prendono qua e là per giustificare una posizione già assunta, non sono oneste, sono fatte con spirito cattivo per fomentare divisione. Si vede subito che certi rigorismi nascono da una mancanza, dal voler nascondere dentro un’armatura la propria triste insoddisfazione. Se guardi il film Il pranzo di Babette c’è questo comportamento rigido”.
Il film io l’ho visto, circa 30 anni fa, mi sembra, e ne ho un vago ricordo, non saprei collegarlo al tema delle critiche all’attuale ecumenismo. Né credo lo saprebbe la gran parte dei lettori. Prescindiamo, dunque, da questo peculiare e anodino riferimento alla cultura profana corrente. Ciò che balza comunque agli occhi ­è il fatto che chiunque lo critichi sembra essere, per il Papa, persona in malafede, giacché il suo autentico scopo sarebbe quello di “fomentare divisione”; e persona che, in quanto afflitta da “rigorismo”, soffrirebbe di interiori frustrazioni, che cercherebbe invano di nascondere. Insomma, i critici sarebbero solo facitori di divisioni, frustrati e in malafede. E sarebbero anche ottusi, perché da situare tra coloro che non comprendono le esigenze della “vita”. Nel merito delle loro osservazioni si evita naturalmente di entrare.
Chi osa “certe repliche” non avrebbe dunque capito che la vita non è bianco o nero, che bisogna immergersi nel flusso delle sue situazioni per poter “discernere” nel modo giusto, cioè conforme alle esigenze della stessa vita, cui i pastori d’anime dovrebbero andare incontro con una “misericordia” che, in certi casi gravi, contro tutto il plurisecolare insegnamento della Chiesa accetti ed assolva senza richiedere di pentirsi e cambiar vita.
Il concetto di v i t a è quello utilizzato più volte da Papa Francesco e mostra una forma mentis di tipo modernista, a sua volta di lontana origine romantica: essa pone la supposta esperienza di vita o vitale del soggetto quale fonte dell’esperienza religiosa e pertanto anche della regola morale (sulla religione fondata), che si deve adottare nel caso concreto. In tal modo la nostra religione rivelata, l’unica vera, viene svilita a esperienza soggettiva della religione, a malferma, composita, equivoca religiosità, alla quale possono nutrirsi tutte le esperienze e tutti i vizi.
Così, l’esperienza di vita, che si vuol supporre esistenzialmente “ferita”, dei divorziati risposati i quali, pur continuando a vivere more uxorio nel senso pieno del termine e quindi in stato di peccato grave, vogliano essere “integrati” a vari livelli nella Chiesa e/o ricevere la S. Comunione; quest’esperienza di vita “ferita” dalla supposta infelicità esistenziale di un soggetto che ha disobbedito e continua a disobbedire scientemente ai comandi del Signore, comportandosi da suo nemico (“Chi non mi ama, non osserva le mie parole” [Gv 14, 24] – “Chi non è con Me, è contro di Me” [Lc 11, 23]), esigerebbe ora il proprio riconoscimento da parte della norma, che deve pertanto adattarsi ad essa esperienza sotto forma di eccezione valida caso per caso, concessa dall’opportuno e misericordioso “discernimento” di un sacerdote. Concessa, cioè, senza più pretendere il rispetto delle condizioni sempre giustamente imposte dalla Chiesa in simili casi, per mantenersi nell’insegnamento del Signore: pentimento sincero e mutamento radicale di vita testimoniato dal perseguimento costante della castità assoluta tra gli sposi irregolari.
Questa concessione è contraria oltre che alla lettera anche allo spirito del cristianesimo, che è quello di cercare di mantenersi sempre in piena coscienza fedeli alla Parola di Cristo ossia ai suoi comandamenti ed insegnamenti; mantenervisi ad ogni costo, contro noi stessi e i nostri desideri e passioni, sino alla fine della propria esistenza, per rispetto e fede verso Nostro Signore e per guadagnarsi in tal modo l’eterna ricompensa da Lui promessa. Fedeli, con l’aiuto indispensabile della Grazia, che ci permette di resistere alle lusinghe e alle sofferenze della vita, innestandosi in modo decisivo sul nostro libero arbitrio. Contraria, anche perché, invece di indurre a combattere il peccato oggettivamente lo favorisce e persino lo accresce: il divorziato risposato convivente more uxorio che va a fare la Comunione in questa condizione, né pentito né intenzionato a cambiar vita, commette peccato di sacrilegio nei confronti del Corpo del Signore, peccato che si aggiunge a quelli del suo status irregolare – adulterio, fornicazione, pubblico scandalo – per l’ulteriore rovina della sua anima4.
Bisogna chiedersi: ma questo aspetto, Papa Francesco l’ha preso in considerazione? Si è reso conto delle conseguenze disastrose che la sua peculiare “medicina della misericordia” provoca per le anime di noi poveri peccatori? E si è reso conto che, con questa incredibile nuova normativa, egli non ha contribuito a sanare situazioni irregolari ma ha invece contribuito a legittimare un abuso già da tempo in vigore? Quello, appunto, della comunione data senza discernimento alcuno, sacrilegamente, a divorziati risposati e conviventi more uxorio, o a chi convive pubblicamente more uxorio, magari con un “partner” dello stesso sesso, oltre che a peccatori notori di ogni tipo senza più pretendere che si confessino?
Il fatto è che la “misericordia” di cui si è fatto araldo Papa Francesco, a giudicare da certe sue risposte, oltre che dagli articoli contestati di Amoris Laetitia, sembra ignorare la necessità del pentimento e della conversione del peccatore, con il relativo mutamento di vita, indici tutti del formarsi di quell’uomo nuovo ossia moralmente rigenerato in Cristo, che Cristo stesso vuole noi si diventi – con il suo aiuto – se vogliamo esser accolti nel Regno del Padre suo.
“Spero che tante persone abbiano scoperto di essere molto amate da Gesù e si siano lasciate abbracciare da Lui. La misericordia è il nome di Dio ed è anche la sua debolezza, il suo punto debole. La sua misericordia lo porta sempre al perdono, a dimenticarsi dei nostri peccati. A me piace pensare che l’Onnipotente ha una cattiva memoria. Una volta che ti perdona, si dimentica. Perché è felice di perdonare. Per me questo basta. Come per la donna adultera del Vangelo “che ha molto amato”. “Perché Lui ha molto amato”. Tutto il cristianesimo è qui. Gesù non domanda grandi gesti, ma solo l’abbandono e la riconoscenza…”.
Da queste parole del Papa, sempre nell’intervista citata, sembra che il perdono per i peccati venga concesso unilateralmente da Gesù, senza porre nessuna condizione. Ma non è così. All’adultera Egli disse: “Nemmeno io ti condannerò: va’, e d’ora in poi non peccar più” (Gv 8, 11). Visto il pentimento sincero della disgraziata, che stava per esser lapidata, Egli l’assolse e la rimandò in pace, ingiungendole però di “non peccare più”, dandole cioè il comando di mutar vita, se voleva esser gradita a Dio e salvarsi. Imponendole quindi di mortificare d’ora in poi se stessa, cosa niente affatto facile per tutti coloro, uomini e donne, che sono afflitti dal demone della sensualità, cioè per quasi tutti noi figli d’Adamo, in particolare in quest’epoca così ferocemente carnale.
“L’animo che si eleva a Dio si sente combattuto dalla sua carne, in cui prima, immerso nei vizi, si trovava tanto bene. Tornano alla mente i piaceri d’una volta e tormentano l’anima che non vuol più saperne di loro”5.
Il Signore ci impone dunque la mortificazione delle nostre passioni, un’ulteriore prova nella dura prova che è la nostra vita: ci impone il giogo della sua legge, che consiste nell’osservare i suoi insegnamenti, amarsi l’un l’altro per amor di Dio, esser perfetti come il Padre nostro nei cieli (Mt 5, 48); cose a r d u e ma possibili con la fede in Lui, in forza della quale otteniamo, mediante lo Spirito Santo, la grazia che ci rende il giogo soave e leggero (Mt 11, 28-30). E perché il giogo, la croce? Per poterci far entrare nella vita eterna, per poterci ricompensare in modo infinito delle nostre prove qui, in questo mondo, la cui figura passa rapidamente e noi con essa. Del resto, i figli del Secolo, che respingono il giogo di Cristo, non si caricano a loro volta di una croce ben più pesante, anche in termini solo umani, lasciandosi vincere e alla fine dominare dalle “brevi seduzioni” dei piaceri carnali, alle quali credono di non poter e persino di non dover resistere? Se credessero nella vita eterna, allora si comporterebbero diversamente, accetterebbero le difficoltà della vita, la cui causa profonda è nel peccato originale -- lotterebbero contro se stessi, convinti di questa verità: “Se la Provvidenza non avesse disegni d’eterna salvezza non li tormenterebbe con la lezione delle tribolazioni”6.

Tornando all’intervista del Pontefice, per amore della verità, sono costretto a rilevare che, nel citare a memoria l’episodio dell’adultera, Papa Francesco si confonde poiché la donna che viene perdonata “perché ha molto amato” non è l’adultera ma la prostituta di cui a Lc 7, 37 ss, erroneamente per tanti secoli identificata con Maria Maddalena (Maria di Magdala), che non era una meretrice ma una benestante che il Signore aveva guarito da una grave possessione diabolica, cosa che di per sé non implica affatto una vita peccaminosa. In seguito a ciò, questa donna si era messa alla sua sequela, unitamente ad altre (dotate di qualche mezzo) che aiutavano materialmente Gesù e gli Apostoli (Lc 8, 1-3)7.
Nella sua risposta, inoltre, Papa Francesco non chiarisce il senso dell’espressione “che ha molto amato”, riferita da Gesù alla donna. “Che ha molto amato”, chi e come, trattandosi di una donna da tutti conosciuta poiché “era peccatrice nella città” (hetis ēn en te polei hamartolosquae erat in civitate peccatrix)8. Dobbiamo forse ritenere che Gesù la perdonasse per i suoi molti ed infami “amori”? O, nel caso di un’adultera, che la perdonasse per aver “molto amato” il suo amante? No, ovviamente. Ma se non si menziona il suo pentimento, non si capisce perché, per restare alle parole del Papa, il Signore abbia perdonato l’adultera “che ha molto amato”.
Torniamo quindi a Lc 7, 37 ss. Gesù è invitato a pranzo da un fariseo di nome Simone. Era usanza nei conviti lavare i piedi impolverati degli ospiti e rinfrescarli nella persona con unguenti o profumi. La donna apparve dal nulla: “non invitata, quasi importuna”, spinta da una “pia impudenza” sottolinea sant’Agostino9. Tutti sapevano chi era. Piangendo (a dirotto) essa lavò con le sue lacrime i piedi del divino Maestro, li asciugò con i suoi capelli e li baciò, ungendoli poi con un unguento prezioso. In tal modo, si umiliò di fronte a tutti per i propri peccati e soprattutto si umiliò, adorandolo, di fronte al Figlio di Dio, mostrando nello stesso tempo di affidarsi fiduciosa alla sua misericordia (secondo gli usi del tempo, avrebbe potuto esser scacciata dalla sua presenza, anche in malo modo). Il suo comportamento equivaleva ad una pubblica confessione, il suo dolore e la sua vergogna erano evidenti. Pertanto, il Signore disse al fariseo Simone, scandalizzato in cuor suo già dal fatto che Gesù, acclamato come predicatore di santa vita e profeta, si lasciasse anche solo toccare da una donna del genere: “Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato acqua per i piedi ma lei mi ha bagnato i piedi con le sue lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli”. Tu, continuò, non hai fatto nessuna delle cose che lei mi ha fatto: non mi ha dato l’acqua per i piedi, non mi hai dato il bacio di benvenuto, non mi hai offerto alcun unguento. Per tutto ciò che ha fatto a me, concluse, “le sono rimessi i suoi molti peccati, perché molto ha amato. Ora, quello cui meno si perdona, meno ama”. E alla donna disse: “Ti sono perdonati i peccati”, soggiungendo: “La tua fede ti ha salvata; vattene in pace”(Lc 7, 37-50).
È evidente che il “perché molto ha amato” si riferisce a Gesù stesso: è Lui l’oggetto di questo amore10. Pertanto: questa donna ha molto amato Me poiché ha avuto fede in Me, dimostrandolo con il suo comportamento; per amore di Me si è prosternata a Me, si è umiliata pubblicamente di fronte a Me, si è affidata alla mia misericordia, la misericordia del Figlio di Dio che perdona i peccati al peccatore pentito. E Io la perdono. Non le disse, come all’adultera, “non peccare più” ma, dato il contesto, non era necessario; il concetto è comunque da ritenersi incluso nella frase di congedo: “la tua fede ti ha salvato, vattene in pace”. La fede nella natura divina di Cristo, la cui misericordia poteva ottenerle la salvezza.
Nostro Signore vuole sempre il nostro pentimento e mutamento di vita quali condizioni per la concessione del suo perdono e la salvezza dell’anima. Questo è sempre stato il suo messaggio a tutti gli uomini: “paenitemini [metanoeite] et credite evangelio”(Mc 1, 15). “Pentitevi e credete al Vangelo”. Se credo ma non mi pento dei miei peccati e non cambio vita, vana è la mia fede (Gc 2, 14).
Lo si vede anche nella conversione di Zaccheo, il ricco esattore delle imposte (publicanus), considerato pubblico peccatore dai Giudei perché professionalmente a contatto con le autorità pagane (romane) occupanti. Chiamato dal Signore, che l’aveva scorto su di un sicomoro sul quale, essendo “basso di statura”, si era arrampicato per vederlo passare tra la folla, egli l’accolse in casa sua e gli disse: “Ecco, Signore, io dò ai poveri la metà dei miei beni e se di qualcosa ho defraudato qualcuno, gli rendo il quadruplo”. Il gesto di Zaccheo dimostra che egli si era pentito delle sue ruberie nell’esazione delle imposte e senza por tempo in mezzo voleva ora cambiar vita, attratto dal Signore. Pertanto Nostro Signore esclamò: “Oggi è venuta la salvezza a questa casa perché anche lui è figlio d’Abramo. Infatti il Figlio dell’Uomo è venuto a cercare e a salvare quello che era perduto” (Lc 19, 3-10). Vale a dire: Zaccheo era considerato un pubblico peccatore, un reprobo, come se non appartenesse ai discendenti di Abramo, al popolo ebraico. Ma il Figlio dell’uomo è venuto a cercarlo, per salvare “quello che era perduto”, cioè nella circostanza lo stesso Zaccheo; perduto, perché formalmente maledetto dalla comunità e perché inevitabilmente disonesto (almeno in parte) nel mestiere che faceva. Credendo in Cristo, pentendosi e dimostrando subito con le opere di voler cambiare radicalmente vita, Zaccheo il pubblicano, trattato dal Signore non come reietto ma come “figlio d’Abramo” nella carne, qual era, per il quale valeva sempre la Promessa, predicata prima agli ebrei e poi ai gentili, era giunto anch’egli alla salvezza. Ma sempre con l’opera richiesta da Cristo a chi ha la vera fede in Lui: il pentimento e il mutamento di vita.
È pertanto solo una verità parziale quella affermata da Papa Francesco quando ci dice: “Gesù non domanda grandi gesti ma solo l’abbandono e la riconoscenza”. È vero che Gesù vuole l’abbandono a Lui e la nostra riconoscenza. Ma non vuole solo questo. Ridurre a questo la sua misericordia significa darne una rappresentazione mutila, che ne occulta l’afflato sovrannaturale. Gesù vuole invece da noi proprio “grandi gesti”, addirittura che noi viviamo in modo da essere “perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). Non vuole un “abbandono” come quello proposto qui dal Papa, che sembra del tutto passivo, e ricorda quello dei luterani eretici, i quali dicono: “la giustificazione è dunque del tutto incondizionata, l’uomo non deve fare niente, ma semplicemente si affida a Dio”11. Per l’appunto si abbandona con gratitudine, credendo di esser già salvo per via di questa fede (errata fede fiduciale degli eretici).
Invece Nostro Signore vuole che ci affidiamo a Lui con generosità, pronti ai sacrifici spirituali più duri per vivere secondo la norma ideale da Lui indicataci; che ci slanciamo in avanti verso di Lui, cosa possibile con l’aiuto della sua Grazia. E questo indispensabile aiuto viene dato alle sue condizioni non alle nostre. La generosità è poi quella della lotta quotidiana contro se stessi, per la propria santificazione, un concetto che sembra essersi smarrito quasi del tutto nella pastorale della Gerarchia attuale. Perché il Papa non ha soggiunto che Gesù vuole soprattutto vedere in noi un cuore contrito, che combatta e ripudi totalmente il peccato, e una chiara volontà di lottare contro se stessi per operare il bene da Lui insegnatoci e fare in tutto la volontà di Dio?
“Se non possiamo dare per Cristo il nostro corpo alla morte [come hanno fatto i martiri], diamo almeno una vittoria sull’animo nostro. Da questo sacrificio il Signore resta placato e nel giudizio della sua misericordia approva la vittoria della nostra pace. Dio vede la battaglia del nostro cuore”12.
3. “Non svendo la dottrina, seguo il Concilio”: a fondamento della presente confusione dottrinale troviamo sempre, lo si voglia o non, il pastorale Concilio Ecumenico Vaticano II; nella fattispecie, l’art. 24 della Costituzione ‘Gaudium et spes’ sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.
Con la frase ripresa nel titoletto del paragrafo Papa Bergoglio ha risposto, sempre nella citata intervista, a chi lo accusa, nella Chiesa, di “protestantizzare” il cattolicesimo mediante l’ecumenismo. Egli si è appellato al Concilio, facendone l’ennesima apologia. Ma proprio questo è il punto, del quale ancora troppo pochi sembrano rendersi conto, nella Chiesa: la “svendita della dottrina” cattolica autentica è cominciata proprio con il pastorale Vaticano II.
“È il cammino del Concilio che va avanti, s’intensifica. Ma è il cammino, non sono io. Questo cammino è il cammino della Chiesa […] Gesù stesso prega il Padre per chiedere che i suoi siano una cosa sola, perché così il mondo creda. È la sua preghiera al Padre. Da sempre, il vescovo di Roma è chiamato a custodire, a ricercare e servire questa unità. Sappiamo anche che le ferite delle nostre divisioni, che lacerano il corpo di Cristo, non possiamo guarirle da noi stessi. Quindi non si possono imporre progetti o sistemi per tornare uniti. Per chiedere l’unità tra noi cristiani possiamo solo guardare a Cristo e chiedere che operi tra noi lo Spirito Santo. Che sia lui a fare l’unità”.
L’unità fra i cristiani deve ricrearla “lo Spirito”. L’accusa di “protestantizzare” il cattolicesimo, ha continuato il Papa, “non mi toglie il sonno. Io proseguo sulla strada di chi mi ha preceduto, seguo il Concilio […] Ecco perché dico che l’unità si fa in cammino, perché l’unità è una grazia che si deve chiedere, e anche perché ripeto che ogni proselitismo tra cristiani è peccaminoso. La Chiesa non cresce mai per proselitismo ma “per attrazione”, come ha scritto Benedetto XVI. Il proselitismo tra cristiani è quindi in se stesso un peccato grave. Perché contraddice la dinamica stessa di come si diventa e si rimane cristiani. La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi”. Il “cammino” verso l’unità, in tal modo concepita, si attua con “il camminare insieme nelle opere di carità, pregare insieme, e poi riconoscere la confessione comune così come si esprime nel comune martirio ricevuto in nome di Cristo, nell’ecumenismo del sangue”.
Ci sarebbe parecchio da ridire su questo “camminare insieme”, tipico del singolare ecumenismo professato dall’attuale Gerarchia. Si propone qui di mantenere una pluridecennale prassi comune che non possiede tuttavia l’indispensabile fondamento rappresentato da una fede comune. Protestanti ed Ortodossi sono e restano eretici e scismatici: come possono condividere con noi “la confessione comune”, come se appunto le loro eresie e gli scismi non esistessero? Per tacere della galassia protestante, basti ricordare che una parte della c.d. Ortodossia è nestoriana o monofisita. La parte maggiore, rimasta fedele al dogma sanzionato a Calcedonia nel 451 (due nature nell’unica persona del Verbo Incarnato), tuttavia nega anch’essa il Filioque, l’esistenza del Purgatorio, il Primato petrino, l’indissolubilità del matrimonio. Se la fede senza le opere è morta, lo stesso si può dire delle opere senza la fede, “senza la qual ben far non basta”13.
Che poi esista un “ecumenismo del sangue” ossia un “comune martirio ricevuto in nome di Cristo”, ciò appare alquanto dubbio. Occasionalmente, missionari protestanti furono uccisi in quanto “cristiani”. Ma, a parte il significato teologico poco chiaro di questo “ecumenismo del sangue”, bisogna rammentare che, storicamente, le nazioni protestanti non hanno quasi mai partecipato alla difesa dell’Occidente contro la sanguinosa avanzata dei Turchi maomettani, subentrati agli Arabi nell’attacco all’Europa cristiana. Lutero, nel citato De servo arbitrio, gridava che non si doveva resistere alle guerre imperversanti e al Turco invasore, poiché questa era la volontà di Dio: che tutto venisse distrutto (a cominciare dal Papato, dalla Chiesa), tutto calpestato sotto gli zoccoli dei cavalli degli Infedeli, affinché si rigenerasse un mondo completamente nuovo, purificato. Mentre egli così delirava di sinistre palingenesi, nel 1525, creando con il suo scisma eretico divisione e guerra civile in aggiunta alla guerra in corso tra le Potenze dal settembre del 1494 per la conquista della disgraziata e divisa Italia, i Turchi avanzava sempre più verso il cuore dell’Europa mentre si rafforzava sempre più l’attacco da Sud, l’offensiva mediterranea della pirateria musulmana, sempre appoggiata dai Turchi, particolarmente micidiale per l’italia meridionale e insulare. Nel 1521 avevano preso preso Belgrado, nel 1527 l’Ungheria, nell’ottobre del 1529 avrebbero posto l’assedio a Vienna con un grande esercito. Si sarebbero ritirati dopo circa un mese, decimati dalla resistenza austriaca e dalle epidemie, fra stragi e devastazioni e con un ricco bottino di fanciulle e fanciulli cristiani, le cui famiglie avevano in gran parte sterminate.

La pezza d’appoggio teologica del ragionamento “ecumenico” del Papa è costituita da un noto versetto della grande Preghiera di Gesù al Padre nell’imminenza della Passione, chiamata da sempre Preghiera sacerdotale, riportata da san Giovanni nel cap. 17 del suo Vangelo. “Gesù stesso, ci ricorda il Papa, prega il Padre per chiedere che i suoi siano una cosa sola, perché il mondo così creda”. Il rimando è a GV 17, 21. Il versetto è inserito a memoria dal Papa nel contesto del suo discorso, giusta il quale sembra che “i suoi”, per i quali Gesù prega il Padre, e che devono essere “una cosa sola” di fronte al mondo, siano tutti i cristiani senza distinzione di “denominazione”, come si dice oggi: cattolici, protestanti, ortodossi – tutti insieme nell’unità!
L’interpretazione estensiva di questo versetto, la quale sembra attribuire ”l’esser una cosa sola” addirittura all’umanità, come se il Signore avesse pregato il Padre con il fine di realizzare l’unità del genere umano, come se il Padre gli avesse affidato questa missione, non appartiene all’ermeneutica tradizionale della Chiesa. La ritroviamo, invece, nei testi del Vaticano II, nel famoso art. 24 della Gaudium et spes, costituzione che si occupa del rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo. Quest’articolo è dedicato alla “indole comunitaria dell’umana vocazione nel piano di Dio”. In esso si afferma che “l’uomo è l’unica creatura in terra che Dio abbia voluto per se stessa”, come se non l’avesse creata innanzitutto per la sua (di Dio) gloria, al pari di tutto il rimanente, pur attribuendole una posizione di eccellenza nella gerarchia della creazione. La “vocazione umana” si attuerebbe secondo “l’indole comunitaria” sua propria soprattutto nell’amore per il prossimo, oltre che nell’amor di Dio, al primo strettamente collegato. Ciò, sottolinea il testo conciliare, “è di grande importanza per degli uomini sempre più dipendenti gli uni dagli altri e per un mondo che va sempre più verso l’unificazione. Anzi, il Signore Gesù, quando prega il Padre perché “tutti siano una cosa sola, come io e tu siamo una cosa sola” (Gv 17, 21-22), aprendoci prospettive inaccessibili alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nell’amore. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”14.

Nell’originale latino del testo conciliare, la citazione giovannea è riportata con puntini di sospensione, non essendo completa: “omnes unum sint…,sicut et nos unum sumus”. I puntini scompaiono nella traduzione italiana corrente mentre sono riportati, ad esempio, in quella francese15. In effetti, la citazione è ritagliata in modo da mettere in evidenza il concetto dell’unità “di tutti” come tale, da realizzarsi a similitudine dell’unione delle Persone divine. E questo subito dopo aver affermato che il mondo contemporaneo “stava andando verso l’unificazione”. L’accostamente ­è significativo, ovvia la conclusione suggerita: l’unificazione del mondo doveva avere a modello l’unità delle Persone divine. Ciò significava attribuire a questo processo unitario, assunto improvvisamente ad obiettivo primario della Chiesa (vedi infra, su Lumen Gentium 1), un fondamento evangelico, come se appunto il Signore in persona avesse conferito tale fine alla Chiesa da Lui fondata. Ma l’analisi del testo completo di Gv 17, 21-22 dimostrerà che le cose non stanno affatto così, che Nostro Signore non ha m a i conferito ai suoi sacerdoti il compito di unificare il genere umano e per di più senza preliminarmente convertirlo a Lui.

Ma il testo conciliare non nomina “i figli di Dio”? Chi sono qui “i figli di Dio”, non sono solo i cristiani? Potrebbe sembrare. Ma in realtà, dal taglio del discorso si comprende che i “figli di Dio”sono tutti gli uomini. Secondo il testo conciliare, Nostro Signore voleva che fossero “una cosa sola” come Lui e il Padre sono “una cosa sola”. Andando oltre la lettera e lo spirito di Gv 17, 21, il testo conciliare sviluppa, dunque, l’ardita e nuova similitudine tra l’esser “una cosa sola” delle persone divine del Padre e del Figlio e l’esser “una cosa sola” dei Figli di Dio, cioè di tutta l’umanità. E non dice che quest’ultima debba esserlo “nella fede in Cristo” bensì “nella verità e nell’amore”. Di quali “verità e amore” si tratti non viene specificato. Si tratta di quella “verità” e di quell’”amore” che implicano “un dono sincero di sé” (si cita a sostegno in nota Lc 17,33, ma la citazione non appare convincente, concernendo essa non il comando dell’amore per il prossimo bensì il famoso versetto: “[Ricordatevi della moglie di Lot!] Chi cercherà di salvare la sua vita, la perderà; e chi la perderà, la conserverà”, illustrante gli accadimenti terribili della fine dei tempi e la necessità di obbedire ai divini comandi in quel frangente supremo). Anche supponendo che la “verità e l’amore” che spingono al “dono di sé” non siano semplici sentimenti di umanitaria filantropia, ma individuino l’amore per il prossimo predicato da Gesù, mi sembra comunque temerario stabilire una similitudine tra l’unione che questi valori e sentimenti sarebbero capaci di produrre nell’ intera umanità (unificandola) e l’unione constustanziale del Padre e del Figlio nel mistero della Santissima Trinità. E volerla per di più giustificare sulla base di Gv 17, 21!
Va inoltre considerata attentamente l’affermazione che l’uomo “non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”. Non si dice, come ci si aspetterebbe: “non possa conseguire la salvezza” ma solamente: “non possa ritrovarsi pienamente”. Ma che significa qui “ritrovarsi”? Forse “esser se stesso”, in quanto uomo? Si afferma, allora, che, “attraverso il dono sincero di sé” l’uomo può “ritrovarsi” (se ipsum invenire) al punto da raggiungere la pienezza di un’unione (di tutto il genere umano) simile all’unione delle Persone del Padre e del Figlio! Affermare ciò, non significa forse insinuare che la natura umana ha la capacità di innalzarsi da se stessa al sovrannaturale, come se quest’ultimo ne costituisse l’immagine speculare e non invece una dimensione insondabile, separata ed inaccessibile, conoscibile solo nella misura in cui essa stessa si comunichi a noi, mediante la Rivelazione? In questo modo, grazie alla figura semantica della similitudine, la natura umana in generale e la divina non sembrano messe sullo stesso piano?
Ma come potrebbe il genere umano ritrovarsi pienamente” in un’unione del genere, chiaramente al di fuori della sua portata? Potrebbe, sembra di capire, perché l’uomo “è la sola creatura in terra che Iddio abbia voluto per se stessa”, frase che ha destato scandalo, perché sembra porre nell’uomo un valore intrinseco tale da aver indotto Dio a crearlo! Come se, per l’appunto, la creazione dell’uomo dal nulla avesse rappresentato un riconoscimento del valore immenso che si vuol attribuire all’essere umano! In tal modo, non si divinizza l’uomo, aggiungendosi per di più quest’elogio al concetto appena visto, secondo il quale la realizzanda unione del genere umano (ad opera dell’uomo che “ritrova se stesso”) sarebbe simile a quella che si riscontra nell’identità consustanziale del Padre con il Figlio?
E ricordo che Gaudium et spes 22.2, per giustificare la “dignità sublime” che l’Incarnazione avrebbe apportato alla natura umana in ciascuno di noi, arriva addirittura ad affermare che: “Infatti, con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Questo modo singolare di intendere l’Incarnazione divinizza di fatto l’uomo peccatore e getta nello scompiglio il vero concetto dell’Incarnazione del Verbo, avvenuta unicamente nell’unione con l’uomo Gesù di Nazareth, nel quale solamente, essendo Egli senza peccato, la natura umana ha assunto una “dignità sublime”, non in ognuno di noi. 16
La nuova “dottrina” che il Concilio ha tentato di introdurre si fonda dunque sul passo di Gv 17, 21-22. Prima di analizzarlo, situandolo nel suo proprio contesto, voglio ricordare che questo passo è stato menzionato più volte nell’insegnamento della Chiesa postconciliare, a sostegno appunto della liceità dell’indirizzo ecumenico omnicomprensivo e sincretista perseguito in base al Concilio, quello del dialogo e non più della conversione degli acattolici, seguita dal loro ritorno pentiti alla Chiesa, se eretici e scismatici (come ribadito da Pio XI nell’Enciclica Mortalium animos sulla vera unità religiosa, del 1928). Mi limito qui a ricordare l’Enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II sull’impegno ecumenico, del 1995, che all’art. 26 si appoggia sul menzionato versicolo di Giovanni per legittimare la “preghiera ecumenica”, volta cioè all’unità con i “fratelli e le sorelle” delle altre confessioni cristiane, con sullo sfondo sempre l’aspirazione all’unità del genere umano quale meta ultima del processo ecumenico.
“La preghiera “ecumenica”, la preghiera dei fratelli e delle sorelle, esprime tutto questo [che, ha appena detto, siamo tutti figli di un solo Padre (Mt 23, 9) e uno solo è il nostro Maestro, per cui siamo tutti fratelli (Mt 23, 8)]. Essi, proprio perché separati tra di loro, con tanta maggiore speranza si uniscono in Cristo, affidandogli il futuro della loro unità e della loro comunione. A questo contesto si potrebbe ancora una volta applicare felicemente l’insegnamento del Concilio: “ Il Signore Gesù quando prega il Padre, ‘perché tutti siano uno […]come noi siamo una cosa sola’ (Gv 17, 21-22) mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle Persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità””17.

Ha ragione, dunque, Papa Francesco quando afferma di continuare l’opera dei suoi immediati predecessori, di seguitare nel cammino voluto dal Concilio, da loro inaugurato e perseguito con maggiore o minore intensità ma senza tentennamenti. Il concetto di un’unione del genere umano ricalcata addirittura sull’unione delle Persone del Padre e del Figlio, è uno dei pilastri dell’ecclesiologia professata dal Vaticano II. L’art. 1 della Lumen Gentium sulla Chiesa, non pone forse alla Chiesa, come suo scopo essenziale, la realizzazione di quest’unità o unione che dir si voglia? “…la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Partendo da questa nuova nozione della Chiesa come “unione-unità del genere umano in Cristo”, il medesimo articolo spiega che la costituzione vuole illustrare “ai suoi fedeli e al mondo intero” la “natura e la missione universale” della Chiesa. Al fine di meglio convertire le anime a Cristo, per la loro eterna salvezza? N o : al fine di aiutare il genere umano a conseguire quell’unità verso la quale si sta incamminando, almeno secondo il Concilio. “Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa [di informare e illustrare], affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti da vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo”. In realtà il mondo era allora (1962-5) diviso in due blocchi rigidamente contrapposti (mondo libero contro mondo comunista) e la marcia verso “la piena unità” del mondo stesso è potuta avvenire, con i risultati disastrosi che vediamo oggi, grazie anche al fatto che la Chiesa cattolica, invece di opporvisi con la vera evangelizzazione e la difesa dei valori delle nazioni ancora cattoliche, l’ha addirittura anticipata con le “aperture” eterodosse del Vaticano II e per vari aspetti promossa.
Come ognun può vedere, è scomparso dall’art. 1 della Lumen Gentium il fine ultraterreno che giustifica l’esistenza stessa della Chiesa, stabilito dal suo divino Fondatore: la s a l u t e e t e r n a del maggior numero possibile di uomini e donne. Al suo posto, un obiettivo decisamente terreno: la piena unità del genere umano. Obiettivo di per sé chimerico ed utopistico, sostanzialmente politico, ritagliato dalla concezione illuministica e razionalistica della Rivelazione e della storia, di un Lessing, di un Emanuele Kant, il quale vedeva nella storia un progresso verso “la perfetta unione civile dell’umanità” ad opera della ragione; e più ancora dalle utopie umanitarie e rivoluzionarie di un Condorcet o panteistico-romantiche di un Giuseppe Mazzini18. Obiettivo di sicuro non indicato da Nostro Signore alla sua Chiesa, cui ha ordinato di predicare alle Nazioni cioè a tutti gli uomini senza preoccuparsi di realizzare l’impossibile “unificazione” del genere umano (Mt 28, 19).
Si dirà: ma non si aggiunge nel testo conciliare: in Cristo? E quindi non si propone l’unità del genere umano nella conversione a Cristo? In realtà, l’espressione “piena unità in Cristo” è ambigua perché non nomina espressamente la conversione dei popoli a Cristo. Il suo vero significato l’avrebbe svelato la pastorale dei Papi continuatori del Concilio: tale “piena unità” è quella che questi Pontefici hanno cercato e tuttora cercano di realizzare con l’ecumenismo basato sul “dialogo” interconfessionale ed interreligioso, e la conseguente r i n u n c i a (persino espressa nei confronti di Ortodossi ed Ebrei) a convertire i fedeli di altre religioni. Il Cristo nel cui nome si dovrebbe realizzare l’unità del genere umano è quello inautentico di Gaudium et spes 24, non quello autentico, quello storico, della Tradizione e del Magistero cattolici perenni.
Applicando la logica che emerge dalle esternazioni di Papa Francesco contro il “proselitismo”, dovremmo allora dire che gli Apostoli erano dei grandi peccatori, visto che non pensavano ad altro che a convertire, a far proseliti alla vera ed unica fede di salvezza, opportune ed importune, come incitava sempre l’Apostolo delle Genti! Convertire, predicando fedelmente e pubblicamente il vero insegnamento di Cristo, oltre a viverlo nella propria vita quotidiana, per quanto tale insegnamento potesse (e possa) a prima vista scandalizzare chi lo riceve.

“…Ma con l’aiuto di Dio [nonostante tante traversìe e persecuzioni] sono in piedi fino ad oggi, a render testimonianza davanti al piccolo e al grande, nient’altro asserendo se non quello che Mosè e i Profeti hanno detto dover avvenire, cioè che il Cristo soffrirebbe e che, risuscitato per primo dai morti, annunzierebbe la luce al suo popolo e ai Gentili”.
Mentre egli così parlava in sua difesa, Festo disse ad alta voce: “Tu vaneggi, o Paolo, la troppa dottrina ti ha dato al cervello!”.
“Non sono pazzo, eccellentissimo Festo, replicò Paolo, anzi proferisco parole di verità e di saggezza. Il Re conosce bene queste cose e gliene parlo con franchezza, perché son persuaso che egli non ne ignora nessuna; niente infatti, di tutto questo è avvenuto in segreto. Credi tu ai Profeti, o Re Agrippa?...Io so che tu ci credi”. Agrippa rispose a Paolo: “Manca poco che tu mi persuada a farmi cristiano”. “Che manchi poco o molto, soggiunse Paolo, piaccia a Dio che non soltanto tu, ma anche tutti quelli che oggi mi ascoltano, diventino tali, quale sono io, ad eccezione di queste catene!
Il Re, il governatore e Berenice e tutti quelli che erano con loro seduti, si alzarono, e mentre si ritiravano andavan dicendo fra loro: “Quest’uomo non ha fatto niente che meriti la morte o la prigione”. E Agrippa disse a Festo: “Si poteva costui rimettere anche in libertà, se non si fosse appellato a Cesare”19.
3.1 L’unità invocata da Gesù nella Preghiera Sacerdotale si applica solo ai cristiani fedeli al suo insegnamento: Gv 17, 21-23.
Uno spirito di conquista delle anime a Cristo ha infiammato per tanti secoli i missionari cattolici: lo stesso spirito, lo stesso slancio quasi sovrannaturale che possedevano gli Apostoli. Ma oggi, dopo il Concilio, lo sappiamo tutti che l’attività missionaria in senso proprio è quasi scomparsa, ridottasi ad un’attività di prevalente assistenza materiale a popolazioni indigenti, ad una forma di assistenza sociale non dissimile da quella di organizzazioni laiche o di altre religioni, in nome di uno spirito genericamente umanitario di fratellanza universale, che si rivela tuttavia a m b i g u o perché spesso ideologicamente inquinato ossia orientato nel senso della marxistica “teologia della liberazione” e del femminismo.
Ma può trovare un fondamento nel Vangelo un’impostazione che, sostituendola con le illusioni megalomani e millenariste di una pace universale apportata a tutti i popoli dall’auspicata unità politico-religiosa del genere umano sotto l’alta autorità del Papa, perverte il senso autentico della missione della Chiesa? No, sicuramente. Se andiamo a rileggere il cap. 17 del Vangelo di Giovanni, vediamo che la Preghiera di Nostro Signore al Padre, in ciò che si riferisce all’unità dei suoi discepoli, non può esser applicata né al genere umano in quanto tale (come suggerisce il Concilio) né ai non cattolici, ricomprendendosi in tale concetto non solo i membri di tutte le altre religioni ma anche tutti i cristiani eretici e scismatici, eufemisticamente chiamati oggi “fratelli separati”.
Nella sua grande Preghiera Sacerdotale, Gesù, dopo aver preannunciato le future persecuzioni ai discepoli e aver promesso l’invio dello Spirito Santo (Gv 16), “prega dapprima il Padre per se stesso, per esser da lui glorificato (17, 1-5); quindi per gli Apostoli, perché siano protetti nella loro futura missione (17, 6-19); infine per tutti coloro che crederanno in Lui (17, 20-26). È la più lunga preghiera di Gesù riportata nei vangeli; e con fine accortezza provvide Giovanni a far sì che questo inestimabile tesoro, tralasciato dai Sinottici, non andasse perduto perché egli lo considerò giustamente come riepilogo di tutta l’operosità di Gesù, quasi ultimo fiore di fuoco sbocciato sul sommo vertice della sua vita. Più in su di quel fiore luminoso non c’è che il cielo del Padre”20.

“È giunta l’ora”, esordisce il Signore, l’ora del commiato e della prova suprema. Egli ha compiuto la missione di salvezza affidatagli dal Padre. Nel far ciò, ha “glorificato” il Padre e chiede a sua volta di essere “glorificato” dal Padre.
“Padre, è giunta l’ora, glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, come tu gli hai dato potere su tutti gli uomini, affinché egli doni la vita eterna a coloro che gli hai dato. Or, la vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”(Gv 17, 1-3).
Si nota subito che “l’unità” concerne gli Eletti: il Signore ha ricevuto “potere su tutti gli uomini” ma non per unificarli in un regno di questo mondo bensì per donar loro la vita eterna, facendoli entrare alla fine dei tempi nel Regno del Padre, che non è di questo mondo. Ma la vita eterna la godranno solo “quelli che il Padre gli ha dato”, prima come discepoli e poi come credenti, in generale. Ciò significa che solo una parte del genere umano avrà la vera fede, quella che riconoscerà il Padre e il Figlio (Gv 17, 3). Si capisce subito che non vi sarà alcuna unità finale del genere umano in una sorta di regno di perfetta giustizia ed uguaglianza su questa terra, come affermerà poi l'errore millenarista: il genere umano resterà sempre diviso tra Eletti e Reprobi, anche se l’esatta misura, ampiezza e composizione della divisione si vedranno solo alla fine dei tempi, con il Giudizio universale21.
Ciò premesso, si inizia la parte della preghiera dedicata agli Apostoli, venuti a Lui sempre per opera del Padre.
Gli Apostoli sono stati “scelti di mezzo al mondo, erano tuoi e li hai donati a Me ed essi hanno osservato la tua parola” (Gv 17, 6). Gesù parla come chi avesse ricevuto in consegna delle anime che aveva il dovere di salvare e conservare, per fare la volontà del Padre, per la Gloria del Padre. Gli Apostoli hanno creduto nella natura divina del Cristo e “hanno creduto che Tu mi hai mandato” (ivi, 8). Ora, nell’imminenza della Passione, il Signore deve abbandonarli, in termini umani. Per tal motivo Egli prega il Padre per loro:
“Io prego per loro; non prego per il mondo ma per quelli che mi hai donati perché sono tuoi. Ed ogni cosa mia è tua, ed ogni cosa tua è mia. In essi io sono stato glorificato. Ormai io non sono più nel mondo; ma essi restano nel mondo, mentre io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel nome tuo che mi hai dato, affinché siano una cosa sola come noi [ut sint unum sicut et nos- hina ōsin hen kathōs hēmeis]. Finché ero con essi, io li conservavo nel tuo nome, che tu m’hai dato, e li ho custoditi, e nessuno di loro è perito eccetto il figlio della perdizione, affinché sia compiuta la Scrittura. Ma ora vengo a te, e questo dico nel mondo, affinché abbiano la pienezza della mia gioia in se stessi”22.
Gesù è qui il sacerdote che consegna idealmente e moralmente il suo piccolo gregge al Padre, affinché lo protegga dal male e lo renda capace di continuare la missione per la quale Egli lo ha formato, secondo la volontà del Padre. Il mondo è qui l’umanità nella sua totalità, il genere umano in quanto afflitto dal peccato originale, in preda alla concupiscenza, condizione tipica delle realtà terrene, come notava sant’Agostino23. È per volontà del Padre che gli Apostoli sono stati tratti dal mondo. Essi non sono del mondo pur restando temporaneamente nel mondo. Il Signore lo vuol dire apertamente, alla vigilia della Passione, che, in questa particolare preghiera al Padre, Egli non consegna alla custodia del Padre il mondo cioè tutti gli uomini in quanto tali ma solo quelli che il Padre stesso gli ha affidato, i suoi amati discepoli. Essi sono suoi in quanto del Padre (“perché sono tuoi”) poiché tra Lui e il Padre c’è un’identità assoluta, consustanziale (Gv 10, 30: “Io e il Padre siamo uno”), onde “ogni cosa mia è tua e ed ogni cosa tua è mia”. L’unità che è a fondamento della preghiera del Signore è quella della divinità, ossia della sua persona con quella del Padre; l’unità cui mira la preghiera è esclusivamente quella di coloro che credono in lui, dei cristiani, non del genere umano in quanto tale, che resta anzi ostile in quanto “regno del principe di questo mondo” (Gv 12, 31) e pieno d’odio e di livore nei confronti del Verbo Incarnato (Gv 7, 7) e dei suoi discepoli (Gv 17, 14). E di quali cristiani? Di tutti indistintamente? N o . Di quelli che credono (e crederanno) seguendo fedelmente i suoi insegnamenti; con esclusione, quindi, di tutti i cristiani in vario modo infedeli.
Ciò risulta chiaramente dal riferimento al “figlio della perdizione”, l’unico che sia “perito”. Si tratta con ogni evidenza di Giuda Iscariota. Qui non c’è alcun anacronismo. Gesù sta parlando prima di entrare nell’orto di Getsemani. Giuda era da poco andato via nell’oscurità a consumare il suo tradimento, dal quale, pur pentendosi amaramente, non si sarebbe redento, almeno a giudicare dalla sua fine nel suicidio. Egli era dunque già “perito”. La menzione del “figlio della perdizione” rivelatosi di tra gli Apostoli, che il Signore non aveva potuto “conservare” e quindi salvare, dimostra che la preghiera sacerdotale è rivolta al Padre per la protezione sovrannaturale dei soli veri discepoli di Cristo, vale a dire di tutti quelli che non avevano e non avranno tradito gli insegnamenti del Verbo Incarnato, né con il tradimento in senso proprio né con quella forma di tradimento rappresentata dalle eresie, dalle apostasie, dagli scismi, dalle negligenze, dalle omissioni, insomma da tutte le forme intellettuali e pratiche con le quali i s a c e r d o t i possono venir meno alla loro fedeltà al Deposito della Fede.
Compare quindi una prima volta in questa ardente e sublime preghiera il concetto dell’esser uno con il Padre, applicato per analogia all’unità (l’esser uno o una cosa sola) che i discepoli in senso stretto devono realizzare e mantenere fra di loro. Dobbiamo dire che ci troviamo in presenza di una semplice metafora? O che, in questo modo, gli Apostoli e i loro successori vengano come ad esser divinizzati? Né l’una né l’altra cosa. Il Signore non auspica affatto una divinizzazione dei suoi seguaci e nemmeno dei semplici fedeli, i cristiani, ai quali estende subito dopo l’analogia.
“Nè soltanto per questi prego; ma prego anche per quelli che crederanno in me, per la loro parola [per la predicazione degli Apostoli]; affinché siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, ed io in te; che siano anch’essi una cosa sola in noi [ut omnes unum sint, sicut tu, Pater, in me, et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint], affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu mi desti, io l’ho data loro, affinché siano una sola cosa, come noi siamo una cosa sola, io in essi e tu in me; affinché sian perfetti nell’unità [ut sint unum, sicut et nos unum sumus. Ego in eis, et tu in me, un sint consummati in unum], e il mondo conosca che tu mi hai mandato, e li hai amati, come hai amato me” (Gv 17, 21-23).
Nostro Signore rimette, dunque, alla “custodia” del Padre, che sarà perfezionata con il successivo invio dello Spirito Santo, oltre agli Apostoli e ai sacerdoti loro successori, anche tutti quelli “che crederanno in me, grazie alla loro predicazione [sed et pro eis, qui credituri sunt per verbum eorum in me]”: in sostanza, tutti noi semplici cattolici fedeli alla sua Parola, grazie alla “predicazione” dei suoi Sacerdoti. Li rimette affinché diventino “una cosa sola”. Ma non in se stessi bensì “in noi”, nel Padre e nel Figlio: è l’unità sovrannaturale delle due Persone divine ad attuare l’unità spirituale di ciascun credente con loro stessi, con il Padre e il Figlio, e da quest’unità deriva poi l’unità di intenti (morale, spirituale) di ciascun credente con ciascun altro e quindi di tutti. E non rimette affatto al Padre l’intera umanità, ancora non convertita.
Egli è venuto nel mondo “affinché tutti gli uomini siano salvi” (1 Tm 2, 3-4) ma non tutti lo saranno, e molti si perderanno, per colpa loro (Lc 12,37; 13, 24-30). Lasciar cadere nell’oblìo questa scomoda verità e voler far credere, come si fa oggi sulla base del Concilio (vedi supra), che Egli abbia rimesso alla protezione del Padre tutti i cristiani, compresi gli eretici e scismatici (tutti fuori della Chiesa per colpa loro, tutti assimilabili alla figura del traditore Giuda, “figlio della perdizione”), o addirittura tutta l’umanità in quanto tale, ancora non convertita a Cristo, e pertanto con tutte le sue religioni, tutte false perché non rivelate dal vero Dio – ciò significa fornire una interpretazione dei Sacri Testi non solo edulcorata ma anche profondamente a l t e r a t a. Del tutto contraria, quindi, alla vera Tradizione, alla vera ermeneutica della Chiesa, risultante già dal commento di un sant’Agostino a Gv 17, 20-23.
“ Non disse: “Che io e loro siamo una cosa sola”, sebbene come capo della Chiesa ed essendo la Chiesa il suo corpo [Eph 5, 23; Col 1, 18] potesse dire: “Che io e loro siamo, non una cosa sola, ma uno solo” [non unum sed unus], perché il capo e il corpo è un solo Cristo [1 Tm 2, 5; 1 Cor 8, 6; 12, 20]. Ma manifestando la sua divina consustanzialità con il Padre (riferendosi a questo, in un altro passo dice: Io e il Padre siamo una sola cosa [Io 10, 30]), consustanzialità di un genere proprio a lui, cioè uguaglianza consustanziale della medesima natura, vuole che i suoi siano una sola cosa, ma in lui [vult esse suos unum sed in ipso]. Infatti in se stessi ne sarebbero incapaci, disuniti l’uno dall’altro dalle opposte volontà, dalle passioni, e dall’immondezze dei peccati. Per questo sono purificati dal Mediatore per essere una sola cosa in lui, non solo nell’unità della natura, nella quale da uomini mortali diventano uguali agli Angeli [Lc 20,36; Mt 22, 30; Mc 12, 25 – si riferisce alle anime dei risorti], ma anche per l’identità di una volontà che cospira in pieno accordo alla medesima beatitudine, fusa in qualche modo in un solo spirito dal fuoco della carità”24.
Dopo aver chiarito il senso dell’unità auspicata da Nostro Signore, il santo vescovo d’Ippona chiarisce il significato esatto della frase inserita dal Concilio in Gaudium et spes, 24.4, in modo mutilo, raccorciato e in un contesto che ne altera il significato genuino.
“È questo il senso dell’espressione: Che essi siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa: come il Padre e il Figlio sono una sola cosa non solo per l’uguaglianza della sostanza, ma anche per la volontà, cosí questi che hanno il Figlio come Mediatore tra sé e Dio, siano una cosa sola non soltanto perché sono della stessa natura ma anche per la comunanza di uno stesso amore [per eadem dilectionis societatem]. Dopo il Signore ci indica che egli è il Mediatore grazie al quale siamo riconciliati con Dio, con queste parole: Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell’unità[Io 17, 23]”25.
Come può avvenire la consummatio in unum, cioè il compimento e perfezionamento nostro nell’unità auspicata dal Signore? Non certo per un autoctono ed autonomo svolgimento della nostra forza coscienza, mossa dalla forza interiore dell’uomo che “ritrova se stesso”, ma solo e sempre con la mediazione del Signore. Non possiamo riprodurre da soli, anche solo per analogia, il modo di essere unitario della Santissima Trinità: lo possiamo, unicamente mediante l’azione ineffabile del Cristo in noi e per noi, azione che non può aver luogo se non c’è la fede, ovvero se non ci si è convertiti a Cristo, dimostrandosi suoi fedeli discepoli. Senza l’avverarsi dello “Io in essi”, senza la mediazione sovrannaturale del Signore, non c’è unità che tenga. Ma questa unità di tutti i veri fedeli non è quella di un soggetto collettivo. Essa si realizza solo in quanto in ciascuno di essi credenti si attui la mediazione di Cristo vale a dire abbia luogo l’inabitazione del Padre e del Figlio, in sostanza della Santissima Trinità.

I discepoli e i fedeli diventeranno u n o sul modello della S.ma Trinità quando, amando ardentemente Nostro Signore, ciascuno di loro osserverà la sua Parola, ragion per cui “il Padre mio lo amerà e verremo a lui e dimoreremo in lui” (Gv 14, 23). Non noi in loro ma il Padre e il Figlio in noi: essi premieranno la nostra dilectio ricambiandola e venendo a dimorare in noi. Non diventeremo come loro né loro come noi ma la S.ma Trinità si degnerà di “abitare in noi” riempiendoci della forza e delle illuminazione dello Spirito Santo, che viene in noi dal Padre con la mediazione del Figlio (Filioque). E l’esser in noi della Santissima Trinità non lo constatiamo ogni volta che respingiamo con l’aiuto essenziale della Grazia le tentazioni, salvandoci dal peccare, e l’intelletto, la volontà, l’animo nostro li sentiamo non solo purificati ma completamente rinnovati, anzi del tutto guariti e rinati e come dotati all’improvviso di un’ineffabile, sovrumana lucidità e forza?
È vero che poi quest’elevazione delle nostre facoltà si attenua e scompare, nel fragore della battaglia quotidiana per la nostra santificazione. Ma non ricompare forse quando, confessatici dei nostri peccati e ricevuta la S. Eucaristia, ci sentiamo di nuovo rinascere spiritualmente, anche se sempre imperfettamente, rispetto a ciò che dovremmo e vorremmo essere, in quanto discepoli del divino Maestro, che cerchiamo di obbedire in tutto ciò che facciamo?
Naturalmente, la presenza in noi della Santissima Trinità resta ineffabile, percepibile dalla nostra coscienza solo indirettamente. Ce ne possiamo render conto, per esempio, quando sentiamo risuonare nitidamente e con forza dentro di noi la voce della coscienza (come si suol dire) che ci illumina, guida e giudica al fine di emendarci. È ovvio che questa presenza promessaci da Nostro Signore, raffigurabile per l’appunto come inabitazione dello Spirito Santo in noi, non rende l’uomo simile a Dio (non lo divinizza) ma purifica l’umano dalle sue scorie temporali, lo rinnova e lo fa spiritualmente rinascere nei confronti di se stesso e di fronte a Dio(Gv 3, 5).
Pio XII, nella Mystici Corporis, ha ammonito a non intendere in modo sbagliato “l’inabitazione dello Spirito Santo nelle anime” poiché “vi sono dei velami che l’avvolgono come caligine, a causa della debolezza della nostra mente”. Questa nostra unione con Cristo “resta un altissimo mistero”. Non bisogna pertanto “allontanarsi dalla genuina dottrina e dal retto insegnamento della Chiesa” e star bene attenti a “respingere, in questa mistica unione, ogni modo col quale i fedeli, per qualsiasi ragione, sorpassino talmente l’ordine delle creature ed invadano erroneamente il campo divino, che anche un solo attributo di Dio eterno possa predicarsi di loro come proprio”26.
Paolo Pasqualucci
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1 Papa Francesco: non svendo la dottrina, seguo il Concilio, intervista a cura della giornalista Stefania Falasca, pubblicata su Avvenire.it il 17 novembre 2016, ripresa da: www.avvenire.it/papa/pagine/giubileo-ecumenismo-concilio-intervista-esclusiva-del-papa-ad-avvenire. Pp. 8. Le citazioni in italiano dei Testi Sacri, da me utilizzate, sono tratte da La Sacra Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana (Edizioni Paoline, anteriore e posteriore al Concilio) o da quella a cura dell’Abate Giuseppe Ricciotti, Salani, Firenze, 1954). Per le edizioni in lingua originale quelle in greco e latino curate da Merk SI e da Nestle-Aland; da Aland, Black, Martini, Metzger, Wikgren, per il solo greco, oltre, naturalmente, per il solo latino, alla Vulgata Clementina, nella classica edizione della BAC.
2 Martin Luther, Vom unfreien Willen, 1525, traduzione in tedesco moderno reperita sul sito: www.siewerth-akademie.de/cms/pdf....; p. 8/42. Mia traduzione in italiano.
3 Vedi: B. Bartmann, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. dell’abbé Marcel Gautier, Salvador, Mulhouse, 1951, II vol., p. 51 e gli autori ivi citati. L’esperienza storica è quella delle tante conversioni di peccatori a Cristo, a volte diventati i convertiti grandi santi. Uno dei casi più famosi è quello di sant’Agostino.
4 CIC, can. 915: “Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”. Non c’è barba di autorizzazione pontificia che possa evitare il peccato di sacrilegio a coloro che si comunichino mentre “ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”. Questo peccato è denunciato espressamente nella Rivelazione: “Perciò chiunque mangia questo pane o beve il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore” (1 Cr 11, 27).
5 S. Gregorio Magno, Moralia (Passi scelti), versione it., introduzione e note di Bonifacio Borghini, O.S.B., Edizioni Paoline, 1965, vol. I, p. 209.
6S. Gregorio Magno, La regola pastorale, presentata e interpretata da Armando Candelaresi, Edizioni Paoline, 19782, p. 321.
7 Per l’esatta ricostruzione dell’errata identificazione di Maria Maddalena con la peccatrice anonima di Lc 7, 37 ss., vedi: Dizionario Biblico, diretto da mons. Francesco Spadafora, ordinario di Esegesi nella Pontificia Università del Laterano, Studium, Roma, 19633, ediz. ampliata, voce: Maria (di Bethania; di Magdala; la peccatrice innominata). Sulla Maddalena e i suoi rapporti con Gesù sono poi fiorite, come sappiamo, le leggende più false, strane ed incredibili.
8 Lc 7, 37. Lo Zorell, nel Lexikon Graecum Novi Testamenti, spiega che la terminologia era usata per indicare persona “vitae lascivae impudiceque actae rea”, come era proprio delle meretrici, conosciute come pubbliche peccatrici.
9 Sant’Agostino, Discorsi sul Nuovo Testamento, in: Opere di Sant’Agostino, II/2 (86-116), tr. it. con testo latino a fronte e note di Luigi Carrozzi, indici di Franco Monteverde, Città Nuova Editrice, 1983, pp. 212-229; p. 213. Si tratta del Sermo n. 99, dedicato appunto al commento di Lc 7, 36-50, ricco di profonde osservazioni.
10 “Quella peccatrice in effetti quanti più debiti aveva tanto più amò chi le condonò i suoi debiti, secondo l’affermazione dello stesso Signore etc.” (sant’Agostino, op. cit., p. 217).
11 Chiesa Evangelica Luterana in Italia, Giustificazione per sola grazia, reperito in: www.chiesaluterana.it/teologia/giustificazione-per-la-sola-grazia, di p. 2/5. La sintassi stiracchiata è nel testo.
12 S. Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli, introduz. tr. it. e note a cura di Ovidio Lari, Edizioni Paoline, 1975, p. 305. Si tratta dell’omelia n. XXVII.
13 Dante, Purg., XXII, v. 60.
14 GS 24, 2-5. Testo della traduzione in: I documenti del Concilio Vaticano II. Costituzioni – Decreti – Dichiarazioni, Edizioni Paoline, 1980. Il testo originale recita, per il passo sull’uomo: “Haec similitudo manifestat hominem, qui in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluerit, plene seipsum invenire non posse nisi per sincerum sui ipsius donum” (Concilii Oecumenici Vaticani II. Constitutiones – Decreta – Declarationes, curante Florentio Romita, Desclée ac Socii, Romae, 1967, p. 147). Fu Amerio a notare per primo (in Iota Unum, § 205) che la traduzione italiana “per se stesso” non è precisa e andrebbe sostituita con “per se stessa”, riferita cioè a “la sola creatura”, come nell’originale. Lasciando il “per se stesso”, il lettore può credere che si riferisca a Dio e non all’uomo.
15 “Pour que ’tous soient un…, comme nous nous sommes un’ (Jean 17, 21-22)” (Concile oecuménique Vatican II. Constitutions-Décrets-Déclarations, textes français et latin etc., Éditons du Centurion, Paris, 1967, p. 239).
16 A proposito di questi articoli della Gaudium et spes, in particolare il 12 e il 24, Romano Amerio registra la presenza di un inaccettabile “finalismo antropocentrico”, nel citato § 205 di Iota Unum. Successivamente, mons. Gherardini si è espresso in questi termini sull’affermazione dell’uomo unica creatura “voluta per se stessa” da Dio: “La frase, che si fa risalire [erroneamente] addirittura a san Tommaso, è passata di bocca in bocca fin a diventare un luogo comune. Ma non è altro che un non-senso, e se un senso c’è, è blasfemo: Dio finalizzato all’uomo. Che le creature inferiori siano finalizzate alla creatura razionale e trovino in essa la voce per lodar anch’esse il Creatore e Signore dell’universo, è plausibile. Che Dio diventi il lustrascarpe della sua creatura, sia pure la più nobile, è assurdo e blasfemo. Quale continuità colleghi tutto questo con la dottrina di sempre […] è con ogni evidenza o un mistero o una fallace utopia” (Brunero Gherardini, Quod et tradidi vobis. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, ‘Divinitas’, 1,2,3, Città del Vaticano, 2010, p. 375. Vedi anche: ID., Concilio Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, 2009, p. 190). In questo art. 24 e in generale nella Gaudium et Spes, mons. Gherardini vede la presenza di un “antropocenrismo sfrenato” e persino “idolatrico”. Sul punto mi permetto rinviare a Paolo Pasqualucci, Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa Cattolica del XXI secolo, Solfanelli, Chieti, 2013, cap. XIV, pp. 199-208. E, per l’analisi dettagliata di Gaudium et Spes 22, Paolo Pasqualucci, L’ambigua cristologia della redenzione universale. Analisi di Gaudium et Spes 22, Editrice Ichthys, Albano, 2009, pp. 144. Di questo saggio è apparsa una sintesi in ‘Divinitas’, 2011, 2, pp. 163-187, con il titolo: La Cristologia antropocentrica del Concilio Ecumenico Vaticano II).
17 Lettera Enciclica ‘Ut Unum Sint’ del Santo Padre Giovanni Paolo II sull’impegno ecumenico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1995, p. 32. Corsivi nel testo. Nell’Enciclica del 17 aprile 2003, Ecclesia de Eucharistia, Giovanni Paolo II insiste alquanto sul fatto che la S. Comunione di per sé realizzerebbe soprattutto l’unione intima dei fedeli in Cristo, unione che coinvolgerebbe anche lo Spirito Santo e per questa via rappresenterebbe anche un modulo e archetipo implicante l’unità della Chiesa, dei cristiani, del genere umano: cfr. gli artt. 24, 30, 39, 43. Nella Dichiarazione comune con l’Arcivescovo di Canterbury, del 2 ottobre 1989, Giovanni Paolo II aveva detto: “Né la volontà di unità di Dio deve intendersi limitata esclusivamente ai cristiani. L’unità cristiana è invocata perché la Chiesa possa essere un segno più efficace del Regno di Dio che è Regno d’amore e di giustizia per tutta l’umanità. Infatti, la Chiesa è il segno e il sacramento di quella comunione in Cristo che è volontà di Dio per tutta la sua creazione” (La traccia. L’insegnamento di Giovanni Paolo II, n. 10, pp. 1022-23, citazione a p. 1023). Quest’unità sembra coinvolgere, oltre a tutta l’umanità, addirittura l’intero cosmo (“tutta la creazione”). Difficile non sentire qui una traccia delle visioni panteistiche di un Teilhard de Chardin.
18 Sul punto: Paolo Pasqualucci, La notion de l’Unité du genre humain: une intrusion de la pensée laïque dans Vatican II, in: La tentation de l’oecuménisme, Actes du IIIe Congrès Théologique de sì sì no no, avril 1998, Courrier de Rome, Versailles, 1999, pp. 131-144; Abbé Benoît de Jorna, L’unité politique du genre humain selon Vatican II, in: Magistère de soufre. Études théologiques sur le Concile de Vatican II, Édition Iris, 2009, pp. 139-154.
19 Atti degli Apostoli, 26, 27-29. Sottolineatura mia. San Paolo, arrestato dall’autorità romana in séguito a tumulti sobillati dai Giudei, si dichiarò cittadino romano, ottenendo pertanto il diritto di essere giudicato a Roma, presso l’imperatore (“Cesare”). Parlò pubblicamente in sua difesa a Cesarea, ancora in Palestina, di fronte al procuratore romano Festo e al re (o meglio tetrarca) di stirpe ebraica Agrippa II che, con Berenice sua sorella, dalla voce pubblica accusata di essere sua concubina, erano venuti in visita ufficiale dal procuratore. Festo non capiva il senso delle accuse rivolte a Paolo, vituperandolo i suoi avversari “a proposito di discussioni con lui a riguardo della loro propria religione e di un certo Gesù che è morto e Paolo affermava esser vivo” (Atti, 25, 19). Non sapendo come decidere, Festo aveva chiesto consiglio ad Agrippa ed entrambi convenirono di ascoltare pubblicamente Paolo, per orientarsi. Inviato poi a Roma, vi giunse nel 61. Fu assolto e rimesso in libertà nel 63. Riprese i suoi viaggi missionari per tornare a Roma nel 66, quando fu arrestato, unitamente a S. Pietro, processato e decapitato dopo alcuni mesi di dura prigionia, sulla via Ostiense, il 29 giugno dell’AD 67, secondo la tradizione, XIV di Nerone.
20 Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, con Prefazione di Vittorio Messori, Oscar Mondadori, 1989, p. 630. È la ristampa dell’edizione originale, del 1941.
21 Sant’Agostino, Città di Dio, tr. it. e note di C. Borgogno, introduz. e revisione di A. Landi, Edizioni Paoline, 1973, p. 90 (I, XXXV).
22 Gv 17, 9-13. La Scrittura che fu adempiuta risulta dal versetto 10 del Salmo 40: “Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno”. Il rimando scritturale è indicato nella nota di commento a Gv 17, 12 ne La Sacra Bibbia, edizione posteriore al Concilio, p. 1078.
23 Vedi la nota a Gv 17, 9, ne La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, anteriore al Concilio.
24 Sant’Agostino, La Trinità, tr. it. con testo a fronte di Giuseppe Beschin, introduz. di A. Trapè – M. F. Sciacca, in Opere di Sant’Agostino, ediz. latino-italiana, Parte I, vol. IV, Città Nuova, Roma, 1987, pp. 196-197. L’indicazione dei passi scritturali tra parentesi quadre si trova in nota nel testo.
25 Op. cit., ivi. “Ego in eis, et tu in me, ut sint consummati in unum”(Gv 17, 23, già citato).
26 Pio XII, Lettera Enciclica Mystici Corporis sul Corpo Mistico di Cristo, tr. it. apparsa su L’Osservatore Romano, 4 luglio 1943, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1959, p. 63.

20 commenti:

irina ha detto...

I) La Grazia del Signore, da quello che ho capito in R.Guardini, è in relazione alla libertà dell'uomo. E' un andarsi incontro reciproco, tenendo sempre conto della percentuale di libertà disponibile nell'uomo in quel determinato momento e della libertà di Dio di intervenire con la quantità di Grazia che vuole donare, a quell'uomo, in quella situazione.
La libertà dell'uomo non solo è limitata dalle sue personali debolezze ma, anche dall'ambiente che ne condiziona la mentalità e la coscienza. Lo studio della Dottrina è stato da sempre portatore di un miglioramento complessivo della coscienza e della capacità di pensiero della persona cattolica. Più volte qui si è ripetuto che, quando la Dottrina veniva insegnata a tutti in modo diffuso, il contadino era in grado di porsi da pari con il nobile possidente di cui coltivava la terra, perchè tale era.Era tale perchè libero dalle mode di pensiero del suo tempo e la sua coscienza non era lo specchio della mentalità corrente.La Chiesa oggi, purtroppo ha preso lucciole per lanterne e tutti stiamo pagandone lo scotto.
II) Il pranzo di Babette,film tratto da un racconto di Karen Blixen, lo vidi anch'io ai tempi ma, non ricordavo quasi nulla Così, come forse ho già scritto in un precedente commento, sono andata a leggermi la biografia della autrice e ho guardato alcune parti del film che si trovano su Youtube. Invito chi vuole a fare altrettanto.E' una tessera che dice molto anche su Papa Francesco. Oggi posso dire che questo film era parte di quella politica culturale nella quale siamo stati e siamo tutti immersi. Ricordo ora che scrissi di Karen Blixen per un suo racconto, sulla giustizia, che mi aveva impressionato. Maria non ne fu particolarmente toccata, forse d'istinto.Ed è così che ripercorsi la biografia dell'autrice e rividi parte del film.

Anonimo ha detto...

Per la precisione, gli ortodossi non negano (almeno i loro teologi, tra il popolino, effettivamente spesso si trova chi pensa che non esista) l’esistenza del Purgatorio, solo reputano libera opinione, il credere o meno al fatto che in esso purgatorio ci siano sofferenze. In altri termini, molti teologi foziano-bizantini si figurano il purgatorio come una sorta di "sala d'attesa".

E.P. ha detto...

Non dimentichiamo che le "chiese ortodosse" comprendono posizioni dottrinali anche assai diverse (e non di raro in polemica e lotta tra loro), non è un blocco uniforme.

Anonimo ha detto...

Il cardinale che il papa al suo primo Angelus definì "il cardinale in gamba" si augura la cena comune con i protestanti. Non è l'abominio della desolazione e prodromo per la profanazione anche del sacerdozio?
http://www.katholisch.de/aktuelles/aktuelle-artikel/kasper-hofft-auf-gemeinsames-abendmahl

Sacerdos quidam ha detto...

Ottime le osservazioni del prof. Pasqualucci.
In fin dei conti si ritorna sempre al neomodernismo teilhardiano immesso in diversi testi del Vaticano II, soprattutto in Gaudium et spes, che ha guidato tutti - e sottolineo, tutti - i Sommi Pontefici del Concilio nel loro ministero.
Papa Bergoglio in questo ha ragione, lui non fa altro che condurre il neomodernismo conciliare al suo sbocco finale già predetto da San Pio X, ossia l'ateismo:
"Ma basti sin qui - insegnava Papa Sarto - per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all'ateismo e alla distruzione di ogni religione. L'errore dei protestanti diede il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l'ateismo" (Pascendi Dominici gregis).

Ateismo che può presentarsi, come oggi avviene, anche sotto la forma di panteismo, con il culto dell'uomo, dell'ecologia e della 'madre terra'. E con la 'fissa' dell'unità del genere umano (nel 'Cristo Cosmico' teilhardiano, ovviamente).
E' appunto il bergogliano 'flusso della vita': che però è anche il flusso del "torrente di perdizione" di cui parla l'Apostolo San Pietro nella sua prima Lettera (1Pt 4, 4).

Anonimo ha detto...
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marius ha detto...

Grazie prof. Pasqualucci di questo Suo testo altamente formativo, che mia moglie e io ci siamo presi la briga di leggerci ad alta voce, assaporando così tutte le nuances sugli inganni portati dal CVII e i pontificati susseguenti.

marius ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Anonimo ha detto...

Blogger Esistenzialmente Periferico ha detto...
Non dimentichiamo che le "chiese ortodosse" comprendono posizioni dottrinali anche assai diverse (e non di raro in polemica e lotta tra loro), non è un blocco uniforme.

10 dicembre 2016 20:47
Esempi:
a) gli ortodossi bulgari sono considerati scismatici dagli altri ortodossi perchè insegnano come dottrina il c.d. "Filetismo". Ovvero il fatto che, quando uno Stato diventa politicamente indipendente, la sua locale Chiesa ortodossa acquisisce, per tale motivo, il diritto all'autocefalia. Gli altri ortodossi spesso la fanno, ma reputano che si tratti, eventualmente, di concessione e non di diritto;
b) le altre chiese ortodosse, fin dal '700, accusano quelle rumena ed ungherese di essere soggette ad influenze ed infiltrazioni calviniste. influenze ed infiltrazioni, che non hanno riscontro liturgico, ma che toccano molti insegnamenti.

Cesare Baronio ha detto...

Che il "cardinal" Kasper voglia una cena ecumenica è cosa coerente con gli orrori conciliari.
Di certo i protestanti accettano senza problemi il Novus Horror, avendo cooperato attivamente alla sua stesura.
Ed è altrettanto evidente che i seguaci della setta conciliare credono nella cena luterana e non nella Messa cattolica.
Sarei curioso di sapere quale posizione assumerebbero costoro, se fosse questione di celebrare una Messa tridentina: si straccerebbero entrambi le vesti. Una prova ulteriore (semmai ve ne fosse bisogno) che la setta conciliare e quella luterana condividono gli stessi errori e le stesse eresie. Alla faccia dei normalisti alla Introvigne.

Anonimo ha detto...

Grazie di cuore, prof Pasqualucci.

E' veramente impressionante. Se nemmeno la parola Cristo, nel linguaggio CVIIesco significa veramente Cristo (perché in realtà significa il Cristochesisarebbeìincarnanatoinuncertoqualmodoinogniuomo e cioé significa uomochesifadio, se leparole sono a tal punto storpiate e deformate da assumere un significato addirittura capovolto, allora anche le frasi che all'apparenza potrebbero sembrare integralmente cattoliche non é affatto detto che lo siano. E' come camminare in un campo minato.

Io preferisco camminare sul sicuro.



Anna

Josh ha detto...



http://www.ilgiornale.it/news/cronache/francesco-ho-sensazione-che-rester-papa-poco-1340924.html

Anonimo ha detto...

A mio modo di vedere una delle cose peggiori, avvilenti del pontificato di Bergoglio è il continuo additare alla folla in modo viscido, sbeffeggiandoli, i cattolici che considera nemici semplicemente perchè sconcertati da quello che sta facendo. Ed è la stessa modalità usata dalla sua corte. Per dirla nei suoi termini è il pastore del gregge che prende a calci, sghignazzando, una parte delle sue pecore facendole magari anche mordere dai cani. Ditemi se questa è volontà di dialogo, apertura, misericordia e soprattutto indice di bontà d'animo.
Miles

irina ha detto...

@ Josh 07:48

Se non ricordo male, lo disse dall'inizio.

tralcio ha detto...

La situazione odierna è oggettivamente "insana" per la Chiesa cattolica, ma comunque resta oggettivamente e sostanzialmente, nella sua realtà precisa, propizia per la nostra conversione.

La neochiesa bergogliana non è priva dei santi e della comunione dei santi, tanto che la differenza tra i santi (più contemplativi, più penitenti o più caritativi) sottolinei e indichi comunque, nella realtà delle circostanze, l'occasione più adatta e favorevole in un preciso momento.

Se il momento pullula di eresie la cui diffusione è virale, c'è sempre un San Nicola capace di colpire a schiaffoni l'Ario di turno (come ai tempi del concilio di Nicea).

A quei tempi San Nicola fu punito con la galera dall'imperatore: capirai, "violenza tra vescovi"... Ma a San Nicola imprigionato apparvero il Signore e Maria, chiedendo perchè fosse in prigione. San Nicola spiega l'accaduto e Gesù gli ridà i vangteli (che gli avevano tolto) e la Madonna il pallio (che gli avevano tolto). Saputolo, l'imperatore riabilitò San Nicola.
Poi il concilio di Nicea si concluse condannando l'eresia ariana.

Chi si oppone all'eresia, anche tirando qualche ceffone (oggi mediatici), può sempre contare sull'intervento del Cielo. Alla fine la Verità trionfa. E certi eretici lo schiaffo se lo tengono. Non è violenza... è che la verità va difesa. I santi insegnano che cosa significa amare il Vangelo, che è l'annuncio di Gesù, cioè la Verità, Via e Vita: e per amore di Gesù San Nicola era recluso. Per amore! E Dio lo sa bene...

Non fa del moralismo spicciolo "sull'ammore universale", sul "volemose bbene", facendo media con le eresie, le scimmie del vangelo che fanno il paio con la scimmia da cui l'uomo discenderebbe; tanto meno vive con tiepidezza, senza mai scaldarsi, le peggiori contraffazioni del vero.

Questa è l'occasione buona: non già per schiaffeggiare il prossimo, ma per -se serve- pagare di persona la conversione e la testimonianza che ci è chiesta.
Il tempo è favorevole. La croce è la nostra grazia. Basta lamenti, più sacramenti.

Un sedicente vescovo di Roma venuto quasi dalla fine del mondo dà l'idea dell'urgenza del tempo.

Rr ha detto...

La Junta della Ss. Sede si comporta esattamente come i marxisti-leninisti-staliniani della buona e vecchia URSS. Basta aver letto uno studio, un racconto, un rapporto sull'URSS, e non ci si stupisce più del comportamento della Junta.
Sappiamo tutti che fine ha fatto l'URSS, anche se ha infettato il mondo col suo morbo.
"Sed non praevalebunt".

Anonimo ha detto...


@ PP ringrazia

Prego, ringrazio io voi per i gentili apprezzamenti, la nostra cara Mic ed EP per la pubblicazione dell'articolo nel blog.

Riflessione ad alta voce: bisogna tenere aperto il discorso critico sul Concilio, in primo luogo per dovere nostro di battezzati e cresimati. Poi, per impedire che si formi una tradizione favorevole al Concilio, che si consolidi grazie ad una supposta mancanza di critiche qualificate allo stesso.
La Gerarchia ha finora taciuto, tranne alcune eccezioni, peraltro ancora troppo limitate. Mi riferisco 1. ai rilievi di Benedetto XVI, sempre sfumati, nel suo stile. Disse che la Dichiarazione Nostra Aetate sulle religioni non cristiane aveva occultato l'aspetto oscuro di queste religioni e che la Gaudium et spes non aveva dato una rappresentazione soddisfacente della nostra epoca storica. Ho citato a memoria. Critiche non decisive ma di un certo spessore, se opportunamente sviluppate. Benedetto XVI non sviluppo' ulteriormente questi due spunti.
2. Una recente dichiarazione del cardinale Burke, a proposito della Nostra Aetate, in un'intervista delle sue, a proposito della quale diceva (cito sempre a memoria), che non si riconosceva nel Dio dell'Islam; in sostanza, che non accettava l'impostazione di oggi secondo la quale noi abbiamo lo stesso Dio dei Musulmani. In effetti, non ce l'abbiamo. Ne' adoriamo il Dio Unico degli Ebrei.

Anche qui uno spunto importante da sviluppare, per chi voglia approfondire. La verita' e' che da 50 anni, sulla base dell'ecumenismo promosso dal Concilio, si vuol far credere, da parte della Gerarchia e di tanti teologi, che le "tre grandi religioni monoteistiche" credono nello stesso Dio, in quanto tutte e tre discendenti dalla fede di Abramo. Un'assurdita' mostruosa ed un errore grave nella fede. Sarebbe sicuramente materia di un DUBIUM da presentare all'ex Sant'Uffizio, per chiedere se, considerando l'insegnamento in proposito di t u t t i i Papi dal Concilio in poi, e' ancora valido per la Chiesa il 1mo Comandamento e il dogma secondo il quale al di fuori della Chiesa non c'e' salvezza, dal momento che s o l o la Chiesa cattolica professa la fede nel vero e unico Dio rivelatosi, il Dio Uno e Trino, incarnatosi nell'uomo Gesu' di Nazareth, seconda Persona della S.ma Trinita', crocifisso, risorto dai morti, asceso in Cielo, "ove siede alla Destra del Padre".
PP



miri ha detto...


" anche qui uno spunto importante da sviluppare, per chi voglia approfondire." ???!!!

"Sarebbe sicuramente materia di un DUBIUM da presentare all'ex Sant'Uffizio,....." ????!!!!

Materia di un DUBIUM e spunto per chi voglia approfondire ???!! Ma per la dottrina cattolica non si tratta dei misteri principali della nostra fede? Non si tratta del 1° comandamento?

Ma il concilio è stato ordito ed attuato e sviluppato fino ad ora per imporre che:

(traggo da Jesus et Israel di Jules Isaak presentato alla conferenza di Seelisberg :

1° argomento : " La religione cristiana è figlia della religione ebraica "

2° argomento : " Gesù è ebreo "

3° argomento.......

4° argomento.......

21°argomento : "Israele non ha respinto Yeshua né lo ha crocifisso. Yeshua non ha respinto >>Israele né lo ha maledetto".

Conclusione pratica : " Necessità di una riforma (redressement) dell'insegnamento cristiano ".
DA CUI, NELLE CONCLUSIONI DI SEELISBERG:

1° - ". ricordare che è lo stesso DIO VIVENTE c nell'Antico come
nel Nuovo Testamento ".

2° - " ricordare che Gesù è nato da madre ebrea ,...

3° - ..........

4° - ........

10°- " Evitare di parlare degli ebrei come se essi non fossero stati i primi ad appartenere alla chiesa "

Il 13/6/ del "60 J. Isaak presenta a Giovanni XXIII una riflessione con l'URGENTE RICHIESTA DI PROMUOVERE UNA NUOVA VISIONE DEI RAPPORTI TRA LA CHIESA E L'EBRAISMO.

Così ha avuto inizio la storiella dell'unico dio.



irina ha detto...

...quel "flusso" nel quale si deve discernere...

Qui credo che manchi un'osservazione della vita reale. Ogni sera l'essere umano si ritira dal flusso della sua giornata per andare a riposare. Questo momento è difficile fin da piccoli: l'ignoto ci attende, la coscienza si oscura e non sappiamo granchè. Da piccoli la mamma racconta una fiaba, recita le preghiere per il bambino, con il bambino, poi il bambino diventato ragazzino continua da solo questo rito di lettura e preghiera che si affianca ad un suo racconto alla mamma o al papà di quanto è accaduto nella sua giornata. Il giovane uomo spesso abbandona le buone abitudini dell'infanzia ma, l'andare a letto rimane sempre in qualche modo difficile perchè è la stessa giornata trascorsa che si impone a un discernimento proprio perchè fuori dal suo flusso delle azioni e parole dal sen fuggite che richiamar non vale.Molti adulti fuggono da questo lasso di tempo imbarazzante e in un modo o nell'altro si stordiscono tanto da cadere nel sonno senza passare da questo vestibolo pieno di specchi ove la loro giornata si rispecchia, si riflette appunto.Il cattolico di norma non dovrebbe stordirsi per prendere sonno, anzi a lui viene chiesto espressamente di fare l'esame di coscienza, di guardare con serenità il bene ed il male compiuto. Serenamente perchè sa di non essere solo, sa che in ogni istante il Signore gli è accanto in particolare con il Suo messaggero che è suo Angelo custode.Questo per dire che per discernere, volenti o nolenti, discerniamo ogni sera della nostra vita prima di addormentarci, quando cioè siamo fuori dal flusso. Nessuno discerne nel flusso. Solo in casi di emergenza. Ma nei casi di emergenza il nostro discernimento sarà affidabile se avremo acquisito l'abito di un giudizio giusto attraverso il coraggio di guardare ogni sera la nostra giornata appena trascorsa ed ogni sera fatto il proposito di compiere, domani, azioni e coltivar pensieri e sentimenti che siano più graditi al Signore. Se appunto si osserva la vita si vede, si sperimenta che un tempo per uscire dal flusso il Signore l'ha previsto e la Chiesa, un tempo Madre e Maestra, ci dice anche come impiegarlo al meglio per essere migliori domani stesso.

irina ha detto...

...quel "flusso" nel quale si deve discernere...

Un tempo la RAI aveva previsto una trasmissione di raccoglimento proprio per la fine della giornata dal titolo:"Ascolta si fa sera" il cui conduttore fu per anni don Ennio Innocenti.

Paola Mastrocola in "La scuola raccontata al mio cane" segnala questa poesia di U.Saba:
Anima, se ti pare che abbastanza
vagabondammo per giungere a sera,
vogliamo entrar nella nostra stanza,
chiuderla, e farci un po' di primavera?

Nella liturgia delle ore, che la Chiesa recita ancora nell'oggi, si annovera anche l'inno di compieta che Dante stesso recitava e fa recitare alle anime nel Canto VIII del Purgatorio vv 12-18:
Te, lucis ante terminum,
rerum, Creator, poscimus,
ut solita clementia
sis praesul ad custodiam.
Procul recedant somnia
et noctium phantasmata;
hostemque nostrum comprime
ne fraude mentes obruat.
Praesta, Pater piissime,
per Iesum Christum Dominum,
qui tecum in perpetuum
regnat cum sancto Spititu. Amen.

Questi son gli esempi che la notte mi ha riportato alla mente. Come si può intuire molti sono quelli che si sono occupati di questa uscita dal flusso quotidiano. La Chiesa nella liturgia delle ore ha esplorato la verità e l'identità delle ore, sette volte al giorno chiamava e chiama alla preghiera per lodare e chiedere protezione alla Santa Trinità. Una sapienza che c'è ancora a disposizione di tutti quelli che possono e vogliono tirarsi fuori dal flusso e ritrovarsi col Signore il solo che aiuta a discernere.