Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

mercoledì 10 dicembre 2025

In Illo Tempore: II Domenica di Avvento

Nella nostra traduzione da OnePeterFive la consueta meditazione di P. John Zuhlsdorf che ogni settimana ci consente di approfondire i tesori di grazia ricevuti nella domenica precedente qui. Importante anche per i riferimenti al superamento dei problemi attuali.

In Illo Tempore: II Domenica di Avvento
P. John Zuhlsdorf – 6 dicembre 2025

La Chiesa ci propone, nella seconda domenica di Avvento, un passo del Vangelo secondo Matteo (11, 2-10) la cui struttura è composta da due movimenti che si rispecchiano come le estremità di un libro ben rilegato. Il primo riguarda l’identità di Cristo, ricercata dal Precursore incarcerato. Il secondo riguarda l’identità del Precursore, confermata da Cristo stesso.

Giovanni Battista, rinchiuso per aver denunciato senza timore l’unione illegittima di Erode, invia i suoi discepoli dal Signore con una domanda che risuona lungo tutta la storia della salvezza: “Sei Tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?” (v.2). Nel cupo carcere di Macheronte, Giovanni attende l’esito non soltanto della sua missione, ma della promessa antica della venuta di Dio. La risposta di Cristo può sembrare evasiva alle orecchie moderne; eppure, per coloro che avevano familiarità con le Scritture d’Israele, essa risuonò con chiarezza inequivocabile. Il Signore rispose con un catalogo di segni che il profeta Isaia aveva da tempo associato alla venuta di Dio in mezzo al suo popolo: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete — dice il Signore —: i ciechi recuperano la vista e gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati e i sordi odono, i morti risorgono e ai poveri è annunciata la buona novella. E beato è colui che non si scandalizza di Me”.

Non erano prodigi casuali: erano prove profetiche. In Isaia 35 il profeta aveva annunciato che, quando Dio stesso fosse venuto a salvare il Suo popolo, il deserto sarebbe fiorito nella gioia e i deboli avrebbero trovato forza: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto griderà di gioia” (Is 35, 5-6). E ancora, nel capitolo 61, il Servo unto dallo Spirito proclama la liberazione e annuncia la buona novella ai poveri. Proprio questi segni sono le opere che Cristo compì, e sono gli stessi testi che Egli applicò a Sé nella sinagoga di Nazaret. La domanda di Giovanni — “Sei tu colui che deve venire?” — non chiedeva semplicemente del Messia come figura astratta. Quando Isaia parla di “colui che deve venire”, parla di Dio stesso:
“Ecco, il vostro Dio viene con vendetta, con la ricompensa divina. Egli verrà e vi salverà” (Is 35, 4).
Il Messia può compiere prodigi, ma soltanto Dio purifica i lebbrosi e risuscita i morti. Il re d’Israele un tempo si stracciò le vesti quando gli fu chiesto di guarire Naaman, gridando: “Sono forse Dio, capace di far morire e di far vivere?” (2 Re 5,7). Cristo aveva già guarito lebbrosi e ridonato la vita al figlio della vedova di Nain. Le Sue opere dichiaravano non solo che Egli era l’Unto, ma che in Lui Dio aveva visitato il Suo popolo.

Non sorprende, dunque, che dopo aver risposto agli inviati di Giovanni, Gesù aggiunga — rivolgendosi alla folla: “Beato è colui che non si scandalizza di Me” (v.6). Gli ascoltatori ne compresero le implicazioni: Gesù aveva rivendicato una prerogativa divina. Alcuni non avrebbero tollerato quella affermazione. Ma coloro che, come Giovanni, avevano l’umiltà del cuore, potevano riconoscere che Dio Si era avvicinato loro in carne umana.

Quando i messaggeri si allontanarono, Cristo interpellò la folla: che cosa si erano aspettati di vedere in Giovanni? Non “una canna agitata dal vento”, perché Giovanni non si era mai piegato ai desideri dei potenti o della folla. Non “un uomo vestito con abiti morbidi”, perché tali ricchezze appartengono ai palazzi dei re, non ai profeti. Cristo rivela che Giovanni è il messaggero promesso da Malachia: “Ecco, Io mando davanti a Te il Mio messaggero, egli preparerà la Tua via davanti a Te”.

Nel testo di Malachia, il Signore degli eserciti annuncia che Egli stesso verrà al Suo Tempio, preceduto dal Suo messaggero. Così, come la risposta di Cristo a Giovanni conferma la Sua divinità, la descrizione di Giovanni conferma l’identità divina di Colui al quale egli prepara la via. Giovanni non è soltanto profeta, ma più che profeta (v.9), il più grande tra coloro che sono nati da donna (v.11), l’Elia che precede il giorno del Signore (cf. Mal 4,5).

La domanda del Precursore, tuttavia, ha suscitato a lungo interrogativi: Giovanni dubitava? Come poteva colui che aveva esultato nel grembo materno alla presenza di Cristo, che Lo aveva battezzato e indicato come l’Agnello di Dio, ora tentennare? San Gregorio Magno risolve la questione considerando l’ordine degli eventi. Finché fu libero sulle rive del Giordano, Giovanni proclamò Cristo con audacia. Una volta incarcerato, tuttavia — scrive Gregorio — Giovanni desiderò sapere se Cristo sarebbe sceso personalmente nel regno dei morti. Gregorio scrive:
Ad Jordanis enim fluenta positus, quia ipse Redemptor mundi esset asseruit; missus vero in carcerem, an ipse veniat requirit, non quia ipsum esse mundi Redemptorem dubitet, sed quaerit, ut sciat si is qui per se in mundum venerat per se etiam ad inferni claustra descendat. Quem enim praecurrens mundo nuntiaverat, hunc moriendo et ad inferos praecurrebat.
Tradotto:
“Quando era sulle rive del Giordano, affermò che Egli stesso era il Redentore del mondo; ma quando fu mandato in prigione, domandò se Egli stesso sarebbe venuto, non perché dubitasse che fosse il Redentore del mondo, ma perché voleva sapere se Colui Che era venuto nel mondo di persona sarebbe sceso personalmente anche nelle prigioni dell’inferno. Colui Che aveva annunciato al mondo precedendolo, lo precedeva ora, morendo, negli inferi” (Omelie sui Vangeli, 6,1).
Il Battista, che aveva preceduto Cristo nella vita, ora lo avrebbe preceduto anche nella morte. Desiderava la certezza di poter annunciare, nel regno dei morti, la venuta di Colui che aveva già proclamato in Israele. Gregorio immagina Giovanni dire implicitamente: “Poiché hai ritenuto essere degno il nascere per gli uomini, dimmi: riterrai essere degno anche morire per loro?”. Gregorio offre così non solo una risposta all’interrogativo, ma anche una luminosa intuizione sulla sofferenza cristiana.

Dalle nostre carceri interiori — fatte di ansia, malattia o prova — non dubitiamo dell’identità di Cristo. Come Giovanni, chiediamo piuttosto come Egli verrà nelle nostre oscurità e se la sua vicinanza, conosciuta nella luce, ci accompagnerà anche nell’ombra.

Insieme al passo evangelico, la Chiesa ci offre nella liturgia anche il brano della Lettera ai Romani. Questa epistola, scritta intorno al 57 d.C., si rivolge a una comunità cristiana composta da ebrei e pagani, tra i quali regnavano tensioni. L’imperatore Claudio aveva espulso gli ebrei da Roma nel 49 d.C. a causa di disordini nelle sinagoghe “a causa di Chrestus” (Svetonio, Claudio, 25,4). Al loro ritorno, dopo la morte di Claudio, trovarono una Chiesa ormai prevalentemente gentile. Alcuni cristiani di origine ebraica guardavano dall’alto i gentili, forti della loro eredità; alcuni gentili pensavano di sostituire Israele, dimenticando che Paolo ammonisce i rami innestati a non insuperbirsi contro la radice (Rm 11,18). In questa tensione Paolo interviene, citando le tre sezioni delle Scritture — Torah, Profeti e Salmi — per affermare che Cristo è venuto sia per i circoncisi sia per le nazioni. Il suo appello è urgente e pastorale:
“Accoglietevi gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio” (Rm 15,7).
Le divisioni della comunità romana echeggiano nelle nostre. La Chiesa non è estranea ai conflitti: dai dissidi tra gli Apostoli fino alle controversie moderne. Oggi assistiamo a pressioni dall’esterno e dall’interno. Durante la precedente presidenza, nel nostro paese, un paese del Primo Mondo, le autorità civili guardavano con sospetto ai cattolici tradizionali, come rivelato da recenti documenti parlamentari. In certi luoghi, alcune persone sono state arrestate dalla “polizia del pensiero” per aver pregato in silenzio. All’interno della Chiesa, alcuni pastori parlano in modo gelido della tradizione e promuovono repressioni liturgiche. Perfino tra coloro che difendono la dottrina e il culto tradizionale, sorgono rivalità e risentimenti. Proprio quando l’unità sarebbe più necessaria, energie preziose vengono consumate in conflitti sterili. L’esortazione di Paolo non è un gentile suggerimento, ma una richiesta evangelica: se Cristo ha accolto noi — peccatori — dobbiamo accoglierci l’un l’altro. Senza la carità, ogni fazione diventa vulnerabile e l’intero Corpo soffre.

La liturgia della seconda domenica di Avvento ci offre un rimedio, rivolgendo lo sguardo verso Gerusalemme, la città e il mistero verso cui la Scrittura e la liturgia ci orientano come pellegrini e soldati. I canti della Messa sono un richiamo del cuore pellegrino: Introito: “Populus Sion, ecce Dominus veniet… Popolo di Sion, ecco il Signore verrà”. Graduale: “Ex Sion species decoris eius: Deus manifeste veniet… Da Sion, perfezione della bellezza: Dio verrà manifestamente”. Dio verrà manifestamente — non più nascosto nella dolcezza di Betlemme, ma nella piena gloria della sua maestà. Antifona alla comunione: “Ierusalem, surge et sta in excelso, et vide iucunditatem quae veniet tibi a Deo tuo… Gerusalemme, alzati, poniti sul monte alto, contempla la gioia che ti viene dal tuo Dio” (Bar 5,5). Gerusalemme diventa simbolo sacramentale della vita della Chiesa.

Quando celebriamo secondo i riti venerabili della Chiesa, siamo moralmente a Gerusalemme: la città dove Cristo ha istituito l’Eucaristia, ha sofferto, è morto, è risorto e asceso. La nostra liturgia guarda insieme alla Gerusalemme terrena e alla Gerusalemme del cielo che deve discendere da Dio. L’Avvento rende più intensa questa doppia prospettiva: ci prepara all’umiltà di Betlemme e alla maestà della Parusia.

Il Precursore torna davanti a noi e grida: «Preparate la via del Signore». Le valli della nostra tiepidezza devono innalzarsi e i monti del nostro orgoglio abbassarsi. Se non ci prepariamo, il Signore raddrizzerà ogni cosa a suo tempo; tuttavia, è nostra gioia e dovere preparare le vie del cuore.

La Colletta di questa domenica riunisce desiderio, preparazione e grazia in un’unica antica preghiera:
Excita, Domine, corda nostra
ad praeparandas Unigeniti tui vias;
ut, per eius adventum,
purificatis tibi mentibus servire mereamur.
Questa antica orazione era già presente nei sacramentari Gelasiano e Gregoriano. Il verbo excito significa anzitutto “risvegliare, destare”, ma anche “rallegrare, confortare, vivificare”. Praeparo, “preparare”, è composto da prae e paro, “rendere pronto”. Alla fine del Vangelo, Gesù parla di Giovanni con le parole di Malachia: “Ecco, mando il Mio messaggero davanti a Te, egli preparerà (praeparabit) la Tua strada”.

TRADUZIONE LETTERALE:
“Risveglia i nostri cuori, o Signore,
per preparare le vie del Tuo Figlio Unigenito,
affinché, per la Sua venuta,
possiamo meritare di servirTi
con mente purificata”.
Questa colletta fa da compagna a quella della prima domenica, nella quale chiedevamo a Dio di destare la sua potenza (Excita… potentiam tuam). Oggi chiediamo che desti i nostri cuori (excita corda nostra): per confortarli, sì, ma soprattutto per vivificarli. Domenica scorsa Paolo ci ricordava che era tempo di svegliarsi dal sonno (Rm 13). Oggi chiediamo al Padre che renda i nostri cuori vie (viae) degne del cammino del Signore, risvegliandoli e consolandoli. La nostra mente (mens) e il nostro cuore devono riflettere la Sua bellezza. Nel Graduale la Chiesa canta: “Da Sion la bellezza del Suo splendore: Dio verrà manifestamente”. Questa manifestazione non riguarda soltanto la fine del mondo nella gloria, ma anche la vita della grazia, che diventa visibile nelle parole e nelle opere.

La preghiera continua: “ut, per eius adventum, purificatis tibi mentibus servire mereamur... affinché, per la Sua venuta, possiamo meritare di servirti con mente purificata”. Tale purezza richiama l’appello penitenziale della scorsa domenica [ qui] e la necessità della confessione. Il servizio reso non è astratto: la grazia deve esprimersi in opere buone, come la colletta sottintende. La venuta manifestata non è soltanto futura, ma presente: la santità diventa visibile quando la grazia opera in noi.

In questo tempo, la Chiesa — madre saggia — pone davanti a noi la figura maestosa di Giovanni Battista, il profeta che abbraccia i due avventi di Cristo. Esultò nel grembo quando il Verbo incarnato venne nell’umiltà; annuncia ora la venuta gloriosa del Figlio dell’Uomo nel giudizio. La testimonianza che Cristo dà di Giovanni diventa un ponte fra l’antica profezia e l’annuncio evangelico: Giovanni prepara la via al Signore che è insieme Messia e Dio. Così anche noi dobbiamo prepararci. Come Giovanni, possiamo sentirci prigionieri delle circostanze. Come i cristiani di Roma, possiamo affrontare divisioni e pressioni. Tuttavia, la risposta che Cristo diede a Giovanni è anche la risposta che dà a noi:
Cosa udite e vedete? I ciechi vedono. Gli zoppi camminano. Le anime vengono guarite dalla grazia. I morti nel peccato sono risuscitati. Ai poveri è annunciato il Vangelo. Dio è venuto. Dio viene. Dio verrà.
Così l’Avvento diventa una scuola di pazienza — insegnata da Paolo — e uno spazio di attesa ardente — guidata da Giovanni. Ogni generazione cristiana ha vissuto la tensione tra l’attesa del Signore e il peso del tempo. I giovani la sentono come la lentezza con cui arriva il Natale. I sofferenti la sentono nel desiderio di liberazione. La Chiesa la sente nel desiderio di unità e rinnovamento. La pazienza non è passività: è una forma di perseveranza nata dal latino patior, “soffrire”. È la sopportazione che permette all’attesa di maturare in speranza. Paolo la chiama fermezza. Isaia la chiama contemplazione della gloria di Dio. Gregorio la definisce certezza che Cristo verrà persino nel regno della morte.

Così, lungo lo svolgersi delle preghiere della Messa secondo l’Usus Antiquior, passiamo dall’annuncio del giudizio alla promessa della gioia. La penitenza resta necessaria, ma la gioia è promessa a coloro che attendono il Signore con cuore purificato.

L’Avvento è un tempo privilegiato in cui la Chiesa mette nelle nostre mani la bussola delle Scritture, la stella della profezia, il grido del Battista e le antiche preghiere che hanno formato il cuore di innumerevoli santi. Attraverso tutto ciò, Dio ci conforta e ci risveglia. Ci attira verso la Gerusalemme terrena, la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme interiore dove desidera regnare. Il deserto che fiorisce, gli occhi aperti, i morti risollevati, le vie raddrizzate, le menti purificate e la venuta manifesta convergono nell’Unico di Cui Giovanni interrogò l’identità dalla prigione e al Quale dedicò l’intera sua vita preparando la via.
P. John Zuhlsdorf

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

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