No Papa Leone, io non voglio fare la fine del Libano
Sentiamo il rumore del muro quando crolla, non il rumore dell’edera mentre prende il sopravvento.
Ieri Papa Leone XIV sull’aereo che dal Libano lo riportava a Roma ha invitato i cattolici preoccupati per l’Occidente ad avere “meno paura” dell’Islam, sostenendo la “convivenza” e l’“amicizia” tra cristiani e musulmani.
Tutto bellissimo fin qui.Poi, facendo riferimento alle testimonianze raccolte durante la sua visita in Libano, il Papa ci ha invitato a trarre ispirazione da questa esperienza “anche in Europa e in Nord America”.
Ecco, a me è proprio questo che preoccupa, che stiamo facendo la fine del Libano, che nel 1989 regolarizzò mezzo milione di arabi musulmani perdendo la sua identità religiosa e culturale cristiana e francese.
Non lo voglio per l’Europa che, piaccia o no, è nata su un humus non islamico che ha prodotto Dante, Bach, Newton, Kant e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, non il Corano, la sharia e il taglione.
Scrive il Wall Street Journal di questa settimana: “Negli anni ‘30, quando il Libano effettuò l’ultimo censimento ufficiale, i cristiani costituivano la maggioranza della popolazione. Ora i sondaggi mostrano che sono a un terzo della popolazione, alla pari con i musulmani sciiti e sunniti”.
Dove sono finiti tutti i cristiani? Fuggiti.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, il Libano era un paese ricco grazie alle sue banche e al commercio, una nazione pacifica, multietnica e multireligiosa sotto una maggioranza cristiana.
Quando i francesi se ne andarono nel 1943, lasciarono un paese costruito su un delicato equilibrio confessionale: presidente maronita, primo ministro sunnita, presidente del parlamento sciita. Un sistema assurdo, ma che funzionava finché i numeri tenevano. Poi è arrivata la natalità islamica, l’immigrazione palestinese armata, il denaro saudita e iraniano, Hezbollah. Risultato? Il presidente non conta più nulla, il parlamento è una farsa, l’esercito è infiltrato e i cristiani che possono prendono il primo aereo per Montréal o Sydney.
Questo è quello che vogliamo? Lo chiamano “società multiculturale”. Io lo chiamo “suicidio culturale assistito”.
Fino agli anni Settanta, Beirut era chiamata, non a torto, la “Parigi del Medio Oriente”. Banche svizzere, università americane e francesi, bikini sulle spiagge di Jounieh e château di Ksara che competevano con i Bordeaux. Il Libano era la prova vivente che un paese arabo poteva essere pluralista, relativamente laico, economicamente prospero e culturalmente aperto.
Fino al 1967 il Libano aveva anche una grande e antichissima comunità ebraica (come tutti i paesi arabi). Erano 20.000; oggi sono 30 e tutti nascosti.
E lo stesso scenario ebraico si ripete in Europa.
Basta una scintilla: la guerra civile libanese iniziò con i colpi di arma da fuoco diretti contro una chiesa maronita che il leader delle Falangi, Pierre Gemayel, stava inaugurando la mattina del 13 aprile 1975. Da un auto in corsa partirono dei colpi contro i cristiani che entravano in chiesa per la messa. Quattro morti. Fu l’inizio della fine.
I terroristi palestinesi di Arafat, eroi dell’Europa odierna, trasformano Beirut in una roccaforte militare. I cristiani persero la guerra civile. Non militarmente – le falangi tennero duro fino all’ultimo – ma politicamente e soprattutto numericamente.
Ma la guerra civile del ’75-’90 non fu una guerra di religione: fu un referendum demografico a mano armata.
Il Libano ci ha insegnato che non serve una guerra per perdere un paese: basta la demografia.
Il Libano è stato per secoli un paese a maggioranza cristiana. Ma oggi lo è solo al 38,22 per cento, contro il 61,62 per cento musulmano. L’aumento proporzionale della comunità musulmana è stato del 785,1 per cento.
I dati demografici sono questi:
“L’ultimo censimento ufficiale del Libano risale al 1932 e indica che la popolazione ammontava a 875.252 persone, di cui circa il 53 per cento cristiani. Oggi possiamo stimare il numero degli abitanti in 3.334.691 di cui il 38,22 per cento cristiani e il 61,62 musulmani. Tra il 1975 e il 1984, 506.416 libanesi fuggirono dal paese, di cui il 78 per cento cristiani e il 22 per cento musulmani”.
E soltanto dal 2010 al 2020, i musulmani in Libano sono aumentati del 5 per cento.
Lo scrittore Richard Millet lo ha appena spiegato nella tv francese.
Il ministro libanese degli Affari sociali Hector Hajjar ha chiesto la partenza dei profughi siriani dal Libano, parlando di “una sostituzione demografica della popolazione”. Hajjar è cristiano e sa di cosa parla. La presenza di 1,5 milioni di siriani sta sconvolgendo ulteriormente l’equilibrio demografico e minacciando l’identità del paese.
Charles Malik, il grande giurista cristiano libanese che lavorò alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo con Eleanor Roosevelt, lo disse: “Se il cristianesimo scompare in Libano (e il Libano è l’ultimo santuario del cristianesimo in Oriente), scomparirà non solo in Medio Oriente, ma anche in Asia e in Africa”.
Il Libano non è un caso clinico tra tanti: è lo specimen perfetto, il campione da laboratorio che la storia ha posto sotto la lente per mostrarci cosa accade quando una civiltà millenaria, crocevia di culture e religioni, abdica progressivamente alla propria sovranità demografica e culturale in nome di un multiculturalismo malinteso e di una viltà politica che ha il sapore del suicidio assistito.
L’Europa e il Vaticano guardano a questo assurdo spettacolo con la sufficienza di chi pensa: “A noi non succederà mai”. Errore madornale. I meccanismi sono identici, sono solo rallentati da una maggiore ricchezza residua e da una burocrazia e casta mediatica più sofisticata nel negare l’evidenza.
I paralleli sono inquietanti: quartieri-ghetto, la lingua nazionale minoritaria, tribunali islamici informali, predicatori che parlano apertamente di conquista demografica, attacchi etnici e religiosi.
“Le migrazioni di massa rappresentano una minaccia esistenziale per la civiltà occidentale e compromettono la stabilità dei principali alleati americani” ha appena scritto il Dipartimento di stato americano.
La mia umile previsione è che nei prossimi 2-3 anni l’Europa vivrà una massiccia ondata di disordini popolari, mentre le popolazioni indigene sono sempre più frustrate dall’espansione incontrollata dell’Islam, che sta trasformando il loro continente in qualcosa di irriconoscibile.
Questa settimana si è deciso che il tradizionale concerto di fine anno sugli Champs-Élysées non si farà: “Motivi di sicurezza”. Beirut era nota come la Parigi del Medio Oriente; oggi Parigi è la Beirut d’Europa.
Intanto l’intelligence francese lancia l’allerta terrorismo attorno ai cristiani e ai loro luoghi di culto.
Dal 2019, soltanto in Francia, sono stati avviati 429 procedimenti per terrorismo jihadista. Nel 2025 ne sono già stati avviati 51.
Georges Bensoussan, lo storico, quattro anni fa mi descrisse “uno shock demografico le cui conseguenze politiche sono più importanti della rivoluzione francese di più di due secoli fa”.
Dovremmo allora ascoltare il cardinale libanese Bechara Rai, patriarca di Antiochia, che ha avvertito che “l’Islam conquisterà l’Europa con la fede e la natalità”.
Dovremmo leggere un discorso di Hassan Nasrallah, il defunto capo di Hezbollah:
“Il Libano era un paese cristiano, ma lo abbiamo preso e ora è nostro. Non ci fermeremo finché ogni paese sulla Terra non sarà governato dalla legge di Allah e dal popolo dell’Islam, come ha promesso il nostro Profeta”.
L’Europa è il Libano in slow motion.
Eppure, sta tutta in questo grafico: la percentuale di immigrati internazionali in Europa dal 1990 a oggi. 10, 15, 20 per cento in trent’anni... E in altri trenta, 25, 30, 35 per cento... Poi sarà davvero finita.
In assenza di una drastica correzione di rotta, la civiltà che ha costruito il mondo moderno sarà scomparsa entro il 2040.
Scrive la giornalista norvegese Rebecca Mistereggen: “In Norvegia più di 1 persona su 4 sotto i 50 anni è un immigrato. Siamo rimasti 4,4 milioni di norvegesi nel nostro paese, mentre 1,17 milioni sono immigrati. Eppure i nostri politici non mostrano alcun interesse nel proteggere la nostra gente, la nostra cultura o le nostre tradizioni”.
E sembra che neanche la Chiesa voglia proteggerli.
Già nel 1990 l’arcivescovo di Ravenna, Ersilio Tonini, denunciò la nostra “libanizzazione”. “L’islamizzazione dell’Europa è già iniziata da circa un decennio - disse Tonini - e ora c’è il rischio, anche per l’Italia, di una libanizzazione”.
Sono passati 35 anni e ora abbiamo soltanto coristi sinodali e democratici dal fiume al mare.
Questa è la Chiesa Votiva di Vienna questa settimana: bandiere palestinesi sulla vetta dei campanili.
L’Europa ha ancora qualche anno di margine che il Libano non ebbe. Ha ancora una maggioranza autoctona (per quanto vecchissima e indolente), una ricchezza accumulata, forze armate, uno stato di diritto. Ma ogni anno che passa senza invertire la disintegrazione, senza fermare l’immigrazione di massa da aree islamiche e senza esigere l’assimilazione totale (lingua, leggi, costumi, laicità) è un anno più vicina al punto di non ritorno libanese.
E allo scenario agghiacciante delineato dall’ex capo dei servizi segreti francesi, Pierre Brochand.
Ricordate il presepe senza volto di Bruxelles? Tempo 48 ore e hanno decapitato il bambin Gesù e rubato la statua.
La polizia svedese si è recata alle prime ore del mattino in un centro di accoglienza che ospita “minori profughi non accompagnati”, a Mölndal, dopo la segnalazione di una rissa con coltelli. L’addetta della struttura Alexandra Mezher giaceva a terra in un lago di sangue, dopo essere stata accoltellata da uno dei “minori” di cui si occupava. La giovane è morta in ospedale poche ore dopo. La polizia ha arrestato un somalo. La vittima era figlia di immigrati libanesi cristiani, sfuggiti alle violenze in Libano. La madre di Alexandra, Chimene Mezher, ha detto al quotidiano britannico Daily Mail:
“Abbiamo lasciato il Libano per sfuggire alla guerra civile, alla violenza e al pericolo. Siamo venuti in Svezia, dove abbiamo costruito la nostra famiglia, al sicuro. Ma adesso qui non siamo più sicuro. Voglio solo sapere perché”.
Il tempo stringe. I numeri non mentono. La storia non perdona.
Il nostro finale non è scritto. Ma il copione libanese è lì, davanti a noi, con i titoli di coda già pronti in sala montaggio. Sta a noi decidere se vogliamo recitare anche l’ultima scena.
Giulio Meotti

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