Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 25 febbraio 2013

Fabio Adernò, Profili giuridici e prospettive di applicabilità del M.P. “Summorum Pontificum” al Rito Ambrosiano.

Ringrazio gli organizzatori del Convegno La libertà Ambrosiana sull'applicabilità del Motu Proprio, che annunciavamo qui. Pubblico il primo dei tre testi integrali  - già riassunti qui - cui seguiranno gli altri due.

Premessa.

Prima di iniziare questa relazione desidero ringraziare il Circolo Culturale “Cardinale Newman” di Seregno, nella persona del suo stimatissimo presidente, il dott. Andrea Sandri, che ha voluto invitarmi a relazionare su un tema che da anni molto mi sta a cuore.
Ebbi i miei primi approcci al Rito Ambrosiano diversi anni orsono grazie all’indimenticabile mons. Angelo Amodeo, di venerata memoria.
Mons. Amodeo – Cui dedico questo mio intervento a qualche mese dalla nascita al cielo – e diversi amici ambrosiani mi mostrarono le bellezze, le peculiarità di questo rito sublime, austero, ieratico, e una volta pubblicato il Motu Proprio “Summorum Pontificum” ho sempre ritenuto che anche questo tesoro della cattolicità fosse stato restituito ai fedeli che alla sua tradizione appartengono.
Tuttavia le ben note difficoltà – aggravatesi forse dopo la promulgazione dell’istruzione “Universae Ecclesiae” – non hanno reso possibile la serena applicazione della mens che il Pontefice felicemente regnante ha voluto esprimere nel M.P. “Summorum Pontificum”, del 7 luglio 2007 ed entrato in vigore il 14 settembre successivo.
Eccoci qui, dunque, a offrire un contributo di ordine scientifico alla vexata quaestio dell’applicabilità del Motu Proprio al Rito Ambrosiano.
Il nostro vuol essere un contributo scevro da qualsivoglia partigianeria, fondato piuttosto sulla giustizia dovuta al rito e sul diritto di tutti i fedeli cattolici latini.
1. Natura giuridica del Motu Proprio “Summorum Pontificum”.

Coerentemente con un’impostazione speculativa aristotelico-tomista, per prima cosa è bene iniziare la nostra riflessione dalle considerazioni sulla natura giuridica dell’oggetto analizzato, il Motu Proprio di Benedetto XVI.

La Lettera Apostolica “Motu Proprio data” Summorum Pontificum appartiene al genere delle Leggi ecclesiastiche di cui al can. 8 CIC.
Nello specifico essa è, insieme, legge universale, poiché diretta a tutta la Chiesa, ma è parimenti una legge speciale perché individua una forma “speciale” o “straordinaria” del Rito, e disciplina, quindi, una ‘materia speciale’.

D’altro canto, tale disposizione normativa – che si fonda su un atto di autorità del Sommo Pontefice, espressione della sua plenitudo potestatis – non è un atto esortativo meramente parenetico né sentimentalistico.
Anzi - per inciso - il sottoscritto ritiene – pur non volendo qui entrare nel merito di una questione che rischierebbe di trascinarci in onerosi sofismi canonistici – che l’aver voluto sottolineare che il Messale antico non fosse mai stato abrogato – quando invece si sarebbe dovuta sottolineare una forse più storicamente coerente “nullità dell’abrogazione” (ma sarebbe stato davvero un atto che avrebbe suscitato un vespaio inverecondo) – indebolisca la vis iuridica della Legge Pontificia di cui qui discettiamo, vis che è, come dicevamo, universale et quidem speciale, emanata dal Sommo Pontefice in forza del suo Supremo Ministero, siccome sancito dal can. 838 §§ 1 e 2 CIC: «Sacrae liturgiae moderatio ab Ecclesiae auctoritate unice pendet… Apostolicae Sedis est sacram liturgiam Ecclesiae universae ordinare…».

Pubblicato il 7 di luglio del 2007, il SP fu accompagnato da una lettera all’Episcopato universale, nella quale il Santo Padre sottolineava ulteriormente le ragioni del Suo gesto, affinché i Pastori fossero ben disposti verso l’usus antiquior.

Tuttavia la forma del MP ingenerò alcune perplessità esegetiche per via di alcune espressioni in esso contenute, tanto da richiedere la produzione di un altro documento di natura esplicativa, cioè l’Istruzione “Universae Ecclesiae” emanata il 30 aprile 2011, per il cui valore giuridico si rimanda al can. 34.

I principi applicativi fondamentali, contenuti tanto nel M.P. quanto nella Istruzione – dopo aver stabilito la netta e precisa distinzione tra ciò che attiene al Rito ed è, quindi, strutturalmente connesso con la celebrazione o comunque accessorio ad essa: poiché “accessorium sequitur principale” (Messa, Sacramenti con l’eccezione prevista explicite per l’Ordine,  Sacramentali, Liturgia delle Ore), e ciò che al Rito non pertiene immediatamente, né lo segue, poiché di mera natura disciplinare (come può essere, ex.gr., il digiuno eucaristico) (cf. can. 2) – statuiscono, in forza del detto carattere di Legge speciale che il M.P. riveste (cf. Art. 1 MP; etiam art. 5, §3), insieme con la riviviscente efficacia delle Rubriche del Messale riformato dal B.to Giovanni XXIII 1962, la deroga (per speciem derogatur generi; speciale mandatum derogat generali) di tutti i provvedimenti legislativi, inerenti alla celebrazione, emanati dal 1962 in poi e pertanto incompatibili con le Rubriche di cui sopra.
Le leggi liturgiche posteriori al 1962, dunque, vengono destituite di forza obbligante.
Ciò, ben si intende, vale solo per coloro che, legittimamente, fruiscono del MP, e nella materia che costituisce l’ambito del SP ed è ad esso connessa.

Ci pare opportuno, a questo punto, aprire una breve parentesi come spunto di riflessione, a riguardo degli Ordini Minori – e soprattutto dell’Ordine maggiore del Suddiaconato – e della loro eventuale riviviscenza a seguito della promulgazione del SP.
Anche in questo caso non vogliamo entrare nel merito perché esulerebbe dall’argomento che qui ci è chiesto trattare, ma, quantunque per inciso, ci sembra doveroso notare che il carattere di specialità del MP, nonostante le sottolineature fatte anche dalla recente Istruzione, a modesto avviso di chi scrive, possa riuscire, omnibus servatis de iure servandis, a derogare persino alla norma contenuta dal can. 266 § 2 del Codice di Diritto Canonico circa l’ingresso nello stato clericale, e ci spingiamo a dire che vi possa apporre una sorta di relaxatio non certamente in modo universale – perché non potrebbe (sempre a ragione della “specialità”) – ma da un punto di vista strettamente “personal-soggettivo”, che è anche una delle ben note peculiarità dell’Ordinamento canonico.

Coloro infatti che ricevono gli Ordini minori e il Suddiaconato – secondo la normativa vigente – a ragione del diritto liturgico ne ricevono anche gli effetti di natura giuridica che in essi sono stati sempre contenuti, poiché quei gesti sacramentali non sono certamente sterili “cerimonie teatrali”, ma contengono in sé tutta la storia della Chiesa; tali Ordini minori non possono essere equiparati ai vigenti Ministeri Istituiti, coi quali intercorre solo una analogia di natura strumentale, poiché essi «non sono più riservati ai candidati al sacramento dell’Ordine»: non si può considerare come un gesto privo di valore – oltre che ontologico-sacramentale, si diceva, anche precipuamente giuridico – il conferimento degli Ordini minori e dell’Ordine maggiore del Suddiaconato a coloro i quali appartengono agli Istituti di Vita Consacrata e alle Società di Vita Apostolica dipendenti dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei.
Ad esempio non è fungibile l’Accolito istituito quale Suddiacono in sacris, anche se nel testo del Ministeria quaedam si dice che se ne possa conservare “il nome”, non è certamente riconducibile ad una mera gestualità inefficace l’ordinazione suddiaconale prevista dall’antico Pontificale che comprende anche una vera e propria emissione del voto di servare la castità.
Lì dove si configurasse, infatti, una eventuale fuoriuscita di un membro dei suddetti Istituti di Vita consacrata e Società di Vita apostolica, questo fedele si troverebbe in una condizione di palese disagio morale e di irregolarità giuridica, poiché certamente vincolato da quel voto.
Tutto ciò si lega all’uso “vincolato” del Pontificale Romanum.

Pur non volendo entrare nel giudizio – che a noi non compete – sulla norma che qui commentiamo, non si può non notare che la espressa dichiarazione che il Pontificale possa essere utilizzato fatto salvo il Rito del conferimento degli Ordini Sacri, in un certo qual modo contraddice lo spirito di grande libertà e benevolenza che invece in tutto il documento si respira.

Fatte salve le ovvie ragioni di ordine pastorale, si ritiene infatti che limitare la libertà dei fedeli candidati agli Ordini che desiderassero riceverli nella forma straordinaria non sia del tutto coerente con la mens Legislatoris, di fatto provocando il detto candidato agli Ordini ad esser “meno” di ciascun fedele laico che per ogni sacramento può chiedere – e se non ottiene può ricorrere alla Pontificia Commissione (cf. art. 10) – l’uso della forma antica.

Questa riflessione abbraccia anche una considerazione di pragmatica e di logistica: se è vero che esistono due forme del medesimo Rito, non è possibile considerare alcuni Istituti di Vita Consacrata ed alcune Società di Vita Apostolica come soggette ad una Commissione che, quantunque dotata di facoltà specialissime, resta sempre un organo interno alla Congregazione per la Dottrina della Fede, anziché renderle soggette alla Congregazione per i Religiosi.

Allo stesso modo, e per lo stesso principio generale dell’unico Rito, non risulta coerente che la Pontificia Commissione Ecclesia Dei si occupi ancora di quesiti liturgici o questioni rituali, poiché sarebbero di competenza della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, all’interno della quale magari sarebbe auspicabile si costituisse – a ragione unicamente della perizia ratione materiae – una sorta di “sectio altera”.
Il mantenere, infatti, la competenza anche sulla forma di celebrazione – e non solo sull’applicabilità della Legge, atteso il ben noto ostracismo – ad avviso del sottoscritto crea una confusione non da poco, perché si configurano sempre coloro i quali – chierici, religiosi e laici – sono attaccati all’antico Rito quasi come una sorta di “specie protetta”, quando invece siamo certi che lo spirito del SP è ben altro, cioè basato sulla restituzione di un grande tesoro alla Chiesa Universale, e non una concessione di mero e benigno paternalismo nei confronti di gruppi di nostalgici: se così fosse stato sarebbe bastato l’indulto del 1988.

2. L’applicabilità al Rito ambrosiano.

Pur scusandomi per questa lunga premessa – che tuttavia ritenevo necessaria – quest’ultimo passaggio ci permette di affrontare l’argomento centrale della riflessione di questa sera, vale a dire l’applicabilità del SP al Rito Ambrosiano, cioè per quella forma rituale propria della Archidiocesi di Milano, e di alcune parrocchie delle Diocesi di Bergamo, Novara, Como, Pavia e Lugano.

Com’è noto, la Liturgia ambrosiana si inserisce fieramente in quella fioritura, tra le origini del Cristianesimo e il VII sec., di tradizioni liturgiche come quella aquileiese, campano-beneventana e ravennate. E ne è anche l’unica superstite.
La codificazione del Rito avviene proprio tra VI e VII secolo, quando il Vescovo S. Simpliciano (+401) porta a compimento l’Ufficio Ambrosiano iniziato da S. Ambrogio.
Da allora si ritenne che fosse riferibile al Vescovo di Milano la potestà di normare i libri ligurgici, attesa la peculiare forma rituale, di cui egli è sommo custode e, come si usa dire, “Capo Rito”.
Intorno a questo titolo ruota tutta la questione dell’applicabilità del MP al Rito Ambrosiano: si ritiene infatti che essendo il Rito dipendente dall’autorità episcopale, esso sia esente dalla normativa “romana”. Ma vedremo che non è proprio così.

Al n. 34 dell’Istr. Universae Ecclesiae si sottolinea che sia permesso l’uso dei libri liturgici propri degli Ordini Religiosi in vigore nel 1962, e purtuttavia non si fa menzione alcuna del Rito Ambrosiano, né tantomeno di altri riti territoriali, quale ad esempio il Mozarabico (altrimenti noto come visigotico, ispanico, toledano o isidoriano).
Altro perno sul quale ruota la questione dell’applicazione al Rito Ambrosiano è l’uso dell’espressione “Rito romano”, utilizzata tanto nel MP quanto nell’Istruzione.

Facendo salva la reverenza per la Norma pontificia, bisognerebbe riscontrare una lacuna espressiva nella sua lettera, poiché lì dove si legge “Rito romano” andava sottolineato che la locuzione è da intendere siccome Rito latino.
Tuttavia la legge si interpreta a mente del can. 17, cioè dal testo e dal contesto.
Appare evidente l’uso sinonimico, a ragione forse del fatto che il Rito Romano sia espressione maggioritaria del Rito latino, ma non è certo l’unica, attesa appunto l’esistenza – all’interno della c.d. “famiglia dei Riti latini” – del Rito Ambrosiano, del Mozarabico, ed i Riti degli Ordini religiosi legittimamente approvati.

Ci sembra dunque una questione oziosa e di mero formalismo – se non anche di deleterio positivismo, inapplicabile all’Ordinamento canonico, ben noto per la sua peculiarissima elasticità – sostenere che il MP si riferisca unicamente al Rito romano qua talis e non anche agli altri Riti latini; inoltre appare ancora più pervicace l’ostinazione su tale linea dopo la promulgazione dell’istruzione, che quantunque abbia omesso in modo accidentale di sottolineare la vigenza del MP anche per il Rito ambrosiano, di certo non formula espressamente proibizione alcuna per tale linea esegetica, e dunque, servando il principio che «privilegia sunt amplianda, odiosa sunt restringenda» e «Odia restringi et favores convenit ampliari» (R.J. 15), non è pensabile che una legge universale come il SP possa trovare un ostacolo nella Liturgia latina ambrosiana né tantomeno nelle sue rispettabilissime e venerabili consuetudini.

L’appartenenza del Rito ambrosiano ai Riti latini appare indubbia. Anzi, un grande ambrosiano nell’animo, venerato pastore di questa gloriosa Archidiocesi, quale fu Achille Ratti, nativo di queste terre brianzole, divenuto Papa col nome di Pio XI, ebbe a dire che «Il carattere distintivo del rito ambrosiano è precisamente quello di essere il rito romano antico, cosicché esso ha il merito di attestare ai nostri giorni in modo vivo e vissuto il rito della Chiesa Romana antica». Tale allocuzione è riportata nella voce composta da F. Langoni nell’Enciclopedia Cattolica alla voce “Liturgia ambrosiana”, e così continua: «Questa definizione, data da Pio XI, è essenzialmente vera nel delineare l’origine della l.a. come liturgia romana, ma non esclude che a formare la l.a. abbiano concorso molte influenze orientali e gallicane ».

E così pure nel Dizionario pratico di Liturgia Romana – a cura dell’allora mons. Enrico Dante, maestro delle cerimonie pontificie – si legge che «Si distinguono i riti occidentali (o latini) e i riti orientali. Riti occidentali, tuttora esistenti, in senso pieno o in senso più limitato sono: il r. romano, il r. milanese o ambrosiano, il r. mozarabico…’».

Inoltre, come già ebbe a sottolineare in tempi assolutamente non sospetti – siamo infatti nel 1930 – mons. Ernesto Teodoro Moneta Caglio, in un suo brillante articolo sui principi del Diritto Liturgico ambrosiano, «i due riti romano ed ambrosiano appartengono alla stessa famiglia… pertanto in quei punti nei quali la legislazione ambrosiana è manchevole ci si deve uniformare alla legge generale (che nel nostro caso è la liturgia romana)».
Il principio interpretativo è abbastanza semplice e fondato sia sulla gerarchia delle fonti normative, sia sul principio di Autorità.

Se prima dell’entrata in vigore del primo Codice di Diritto Canonico (promulgato nel 1917 da Benedetto XV) si poteva supporre una certa autonomia normativa liturgica in capo agli Ordinari e, segnatamente, a quelli che per consuetudine ne avevano conservata la prassi, con l’avvento del Codice Piano-Benedettino ciò non è più ammissibile, poiché al can. 1257 si fermò il principio per cui «Unius Apostolicae Sedis est tum sacram ordinare liturgiam, tum liturgicos approbare libros».
«Il canone è inequivocabile – scrive Moneta Caglio – gli Ordinari non hanno quindi più il potere di pubblicare nuovi libri liturgici: le loro facoltà in proposito si limitano a poter concedere l’imprimatur alle nuove edizioni dei libri liturgici già esistenti, qualora concordino pienamente con gli originali approvati (can. 1390)».

Va inoltre sottolineato che il titolo di “Capo Rito” pertiene all’Arcivescovo di Milano come per ciascun Vescovo i titoli di «grandi sacerdoti… principali dispensatori dei misteri di Dio… moderatori..promotori..custodi di tutta la vita liturgica nella Chiesa loro affidata» (can. 835 § 1; etiam 838 §4), e che solo a ragione della peculiarità della forma rituale esso può assumere un valore diversificato ma non certo iperbolico.

L’autonomia normativa dei riti latini diversi dal Romano va tuttavia sempre ad essa riferita per quanto concerne l’applicabilità di consuetudini a disposizioni avverse: la consuetudine che riconosceva all’Ordinario milanese poteri in materia liturgica riteniamo non sia opponibile al can. 1257 CIC ’17, perché si fonderebbe solo sugli Atti di S. Carlo (1560-1584) e degli Arcivescovi Gaspare Visconti (1584-1595), Federico Borromeo (1595-1631), Giuseppe Pozzobonelli (1743-1783) e del Beato Andrea Carlo Ferrari (1894-1921), i quali atti, essendo eccessivamente distanti tra loro, non riescono a formare una linea consuetudinaria continuativa tale da opporre forza di legge.

Inoltre il principio gerarchico importa che l’autorità inferiore non possa abrogare, modificare o anche solo non tener conto di ciò che è stato disposto dall’autorità superiore. Se dunque l’Autorità Pontificia ha disposto un diritto, di cui devono fruire tutti i fedeli della Chiesa latina, non può l’Autorità inferiore rifiutarsi di obbedire, limitando di fatto la giustizia.

La normativa vigente circa la pubblicazione dei libri liturgici è contenuta nel Codice al più volte citato can. 838.
In esso, al §3, si concede alle Conferenze episcopali la competenza sulla preparazione delle edizioni in lingua volgare, che tuttavia, prima della pubblicazione – a cura delle stesse Conferenze – devono ricevere l’autorizzazione della Santa Sede; ma d’altro canto il §2 è esplicito nel dire che «è di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa Universale».
E posto che l’Archidiocesi ambrosiana è pur sempre una porzione della Chiesa Universale, è mera e superba fantasia pensare di poter essere esenti dalle disposizioni che sono universali e, per di più, speciali.

La peculiarità del Rito Ambrosiano, di cui è custode e garante l’Arcivescovo di Milano, è una peculiarità antichissima che si è sviluppata autonomamente dai progressi del Rito Romano, ma ciò non implica che se ne possa affrancare nella comunione gerarchica e normativa con la Sede Apostolica.
Sostenere, infatti, che il SP riguardi solo il Rito Romano e non anche l’Ambrosiano, significa negare un’evidenza giuridica, e forse prima ancora comunionale, poiché non si tratta di applicare una norma contraria allo spirito del Rito – unica limitazione che il diritto liturgico in tal caso potrebbe contemplare – bensì di riprendere la tradizione ambrosiana.
Non si tratta, infatti, di imporre il Rito Romano in sostituzione al Rito Ambrosiano, ma di riprendere la prassi dell’antico Rito ambrosiano.

Inoltre, per il principio per il quale Paolo VI promulgò il nuovo Messale Romano e l’Archidiocesi si affrettò ad “aggiornare” i suoi libri liturgici, appare quantomeno incoerente che nel momento in cui Benedetto XVI promulga una legge la stessa Archidiocesi sia sorda e si ritenga per di più esente dall’applicazione di quella disposizione.
Viepiù: gli oppositori all’applicazione del MP potrebbero sostenere che si parla di Messale del 1962, e il Messale Ambrosiano è precedente (l’ultima edizione recognita del Messale pubblicato nel 1913 è del 1954).
Ma anche qui vale il can. 17: non solo il testo ma anche il contesto deve guidare l’esegesi legislativa, pertanto è chiaro che se analogicamente al Messale Romano ed ai libri liturgici vigenti nel 1962 anche i libri liturgici degli Ordini religiosi possono essere utilizzati, è maggiormente chiaro che, attesa l’appartenenza allo stesso genere (famiglia dei Riti latini) si possa applicare la norma indistintamente a tutti i rappresentanti di specie.

La recentissima ricostituzione della Congregazione del Rito Ambrosiano operata dall’Em.mo Cardinale Arcivescovo lo scorso 20 dicembre 2012 (efficace dal 30 successivo) potrebbe suscitare qualche dubbio su ciò che è stato fin’ora affermato.
Ma l’intentio Episcopi non è certo quella di voler costituire un contraltare alla Congregazione per il Culto Divino, bensì quella di volersi interessare in modo scientifico, concreto e peritale alla forma rituale ambrosiana, affinché, come commissione episcopale, essa sia motore riformatore.
D’altro canto, la ben nota questione della pubblicazione del nuovo Lezionario ha suscitato non pochi sussurri e critiche. Ritengo infatti che la volontà dell’Arcivescovo sia da rintracciare in un coscienzioso e molto apprezzabile – e apprezzato – tentativo di correggere un tiro forse un po’ troppo azzardato.
Ma ciò non intacca minimante l’applicazione del MP al Rito ambrosiano, che invece a tutt’oggi viene sì celebrato, ma come fosse soggetto ancora ad indulto da parte dell’Ordinario.
Applicare la normativa d’indulto dopo la promulgazione del Summorum Pontificum appare un non-senso, poiché non ve n’è bisogno alcuno, attesa la liberalizzazione dell’antica Liturgia.

L’applicazione del MP va infatti ben oltre quelli che possono essere i suoi limiti espressivi, perché il messaggio è contenuto nella mens Legislatoris, cioè la riscoperta ed il riappropriarsi, in modo libero, di un tesoro, di un patrimonio, che in modo senz’altro frettolosamente improvvido fu strappato a tutta la Chiesa.

La riscoperta della mistagogia liturgica, del simbolo che non ha bisogno di “commentatori” perché si esprime da sé, la purezza di un rito sì stratificato perché forte e robusto e non frutto di una mera artefazione ansiosamente bramosa di fonti vetuste spesse volte slegate tra loro… tutto questo e molto altro è il valore del SP.

Il concetto di rivalutazione e tutela della Tradizione va ben oltre il Rito strictu sensu perché è un concetto di ben più ampio respiro, tanto che chi scrive, anche se pienamente conscio dei motivi pastorali che vi sottendono, ritiene che sia auspicabile una riscoperta anche di quegli elementi che furono espunti dall’edizione tipica del 1962 (mi riferisco soprattutto ai tesori liturgici della antica Settimana Santa precedente la riforma dei Riti del 1954), proprio per un arricchimento davvero armonico di tutta la Tradizione liturgica della Chiesa latina.

Il Summorum Pontificum, lo ribadiamo, non è una concessione graziosa, ma il riconoscimento di una necessità per tutta la Chiesa, in ultima analisi il riconoscimento di un diritto, perché riscoprendo quei tesori la Sposa di Cristo si arricchisca nuovamente di quei beni di cui i suoi figli sono stati affrettatamente privati, e possano con quei mezzi conseguire il fine ultimo e il compimento della suprema lex Ecclesiae, cioè la salus animarum (cf. can. 1752).

In quest’ottica va applicato il MP anche al Rito ambrosiano, perché quegli splendori non vadano perduti ma ritornino ad essere dono per la comunità, come preziosa eredità dei Padri.
Se è vero che, servatis servandis, l’Ambrosiano è la forma più antica del Rito romano, non può la Chiesa di S. Ambrogio e di S. Carlo e del Beato Schuster irrigidirsi davanti al riconoscimento che il Papa fa di un diritto del genere.
Negare l’applicazione del MP significa negare un diritto: ai fedeli, che così sono privati di ciò che spetta loro; ai sacerdoti, che vorrebbero arricchire la loro pietas con l’antica messa e l’antico breviario e non possono; ma principalmente si nega un diritto alla Chiesa universale, che risulta così mutilata nella sua unità giuridica e liturgica.

Al di là di ogni slancio apologetico in difesa dell’antico Rito ambrosiano, si è qui voluto dimostrare che ogni tipo di opposizione al MP non ha alcun fondamento al di là della ideologia.
Non ci sono presupposti storici né giuridici che possano giustificare una presa di posizione contraria al SP, anzi tutto depone a suo favore.

Il Santo Padre Benedetto XVI ha voluto offrire questo MP come instrumentum pacis, che ricolleghi nova et vetera, affinché conduca la Chiesa verso la riforma della riforma, che importi una sana rivalutazione del patrimonio liturgico antico senza archeologismi né nostalgie.
«Novum in Vetero latet; Vetum in Novo patet». La tradizione è un concetto dinamico, come ha ricordato Pio XII: l’atto di consegnare – tradere – implica un moto in avanti; ma si consegna qualcosa che si ha, che si è custodito… e lo si consegna al prossimo… e quella stessa cosa consegnata, arricchita da quanto di buono chi l’ha ricevuta ha saputo dare, verrà a sua volta consegnata ad altri, e così fino alla fine dei tempi.

La Chiesa ha un tesoro inestimabile nella sua liturgia, che è sublime epifania della Maestà di Dio; un tesoro di cui essa è depositaria e poiché esprime la sua fede – che è immutabile – non può mutare in modo arbitrario, non può essere mutilata, offesa, mortificata, snaturata, poiché prima di essere un diritto del fedele, la liturgia è un diritto di Dio, cui Solo spetta l’atto di latrìa suprema.
In quest’ottica va vissuta pienamente la “libertà ambrosiana”: la libertà di utilizzare una forma rituale tutta speciale ed unica come lex orandi, segno di un carisma specifico che non può che arricchire la Chiesa universale; la libertà di poter fruire del diritto che il Papa riconosce universalmente a tutti i fedeli latini, senza limitazione territoriale alcuna; la libertà di poter far tesoro della propria avita tradizione liturgica senza che essa diventi invece – com’è stato nel momento in cui tale liberà viene negata – un limite.

Voglia il Cielo, per intercessione dei Santi Arcivescovi di Milano, che la luce della Liturgia tradizionale ambrosiana ritorni a splendere sugli altari nella consapevolezza che ciò è principalmente un diritto della Verità che non può subire alcun arbitrio, men che meno di natura ideologica.
Fabio Adernò

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