Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 4 aprile 2015

Un sacerdote scrive: Lettera aperta ai sacerdoti

Tristis est anima mea usque ad mortem: sustinete hic, et vigilate mecum
(Mt 26, 38).

Carissimi confratelli nell’unico sacerdozio di Cristo,

questo misero scritto, pubblicato in occasione della santa Pasqua, è dettato da un profondo affetto nei confronti di tutti voi, che rendete presente nel mondo il nostro amato Salvatore parlando e agendo nella sua Persona per il bene del Popolo riscattato dal suo Sangue e per la salvezza eterna dell’intera umanità. È con molto rispetto – soprattutto nei confronti dei nostri Vescovi – che mi rivolgo a voi, mosso da un ardente amore alla Chiesa, che ci ha generati nel Battesimo e ci ha conferito il sacro ministero, e al contempo da un sentimento di profonda perplessità, se non di smarrimento, riguardo a certi orientamenti di recente assunti dalle sue guide, a livello nazionale e oltre. Le intemperanze cui mi lascio talvolta andare nel valutare situazioni correnti sono espressione di una sofferenza che mi fa spesso piangere e gridare a Dio, quando prego o celebro da solo. E se Gesù, nel Getsèmani, avesse previsto, da parte della sua stessa Sposa, un futuro tradimento che avrebbe di fatto vanificato, per molti, la sua Passione redentrice?

In riferimento al programma del prossimo convegno ecclesiale di Firenze, illustrato nell’ultima riunione del clero della mia diocesi, non posso nascondere il grave turbamento di apprendere, dopo vent’anni di ministero, di non essere stato costituito presbitero per donare Dio e la sua grazia alle anime redente dal Sangue di Cristo, ma semplicemente per fornire a quanti mi incontrano un di più di umanità. Sarebbe certamente interessante che qualcuno ci spiegasse meglio che cosa si intenda esattamente con tale locuzione; ma in ogni caso, per quanto si fosse abili, mi sembra quanto meno arduo arrivare ad evincere – e convincere gli altri – che quell’espressione possa designare la vita soprannaturale, conquistata per noi dalla Croce gloriosa, che ci abilita a godere della vita futura. La trasmissione di questo dono incommensurabile ci impone il dovere ineludibile di suscitare la fede con una predicazione integra e franca della Parola divina, in modo che chi la accoglie possa riceverlo con frutto mediante i Sacramenti da noi amministrati.

Tolta – o dimenticata – la necessità assoluta di vivere e morire in stato di grazia per poter evitare la dannazione eterna (cui molti oggi si espongono, purtroppo, a causa della propria grave ignoranza in materia di fede e di morale), diventa poi quasi inevitabile convincersi in perfetta buona fede – come suggerito in quell’occasione da un confratello più anziano di me – che chi vive in stato di peccato mortale pubblico e conclamato sia in fin dei conti una vittima dell’ottuso clericalismo di chi lo esclude dalla vita ecclesiale per una questione di stupide regole canoniche… La vera misericordia – di cui ultimamente si fa un gran parlare – vorrebbe piuttosto che lo si avvertisse dell’enorme rischio che corre permanendo in quello stato; poi sarà libero di scegliere se persistere nell’errore o, con l’aiuto della grazia, convertirsi e cambiare vita: ma, se nessuno lo riprende con carità e delicatezza, non avrà mai questa libertà di scelta.

Qualcuno invocherà qui l’ignoranza invincibile come scusante, anche del peccato grave; ma il nostro compito è appunto quello di istruire le persone nelle verità della salvezza e di rimediare, nel caso, alla loro carente conoscenza, forse dovuta talvolta anche a nostre inadempienze… In ogni caso, non vedo come si possa far progredire nella fede e nella santità il Popolo di Dio (che in buona parte, ormai, ignora finanche le verità fondamentali del Credo e, non ricevendo mai i Sacramenti, ha di principio perso lo stato di grazia) con sproloqui inconsistenti su un preteso nuovo umanesimo i cui contenuti si evita rigorosamente di definire in modo chiaro; tanto meno si vede come annunciare efficacemente il Vangelo salutare, in una “società liquida” che, privata di riferimenti certi, affoga nell’impurità e nella violenza, con fervorini melensi sulle ferite da curare o sul “buono” che si potrebbe rinvenire anche in situazioni oggettivamente cattive. Non si comprende affatto, poi, per quale mistero della fede il peccato mortale di concubinaggio possa nascondere in sé – come asserito da importanti personaggi – un’incipiente sacramentalità…

Certi discorsi mi spingono ad immaginare il caso assurdo di un medico che, di fronte a un paziente malato di cancro, gli dicesse: «Vedi, tu hai un tumore, ma per il resto stai bene. Perciò non ti prescrivo alcuna cura; al massimo, se proprio vuoi, fatti una tisana»… o quello di un medico che, per non turbare il medesimo paziente, per misericordia e tenerezza non gli dicesse nulla e lo lasciasse andare con una pacca sulla spalla e qualche parola rassicurante del tipo: «Ti voglio bene» oppure «Dio ti ama così come sei». Ovviamente, ci sarebbe di che denunciarlo. Noi non corriamo questo genere di rischi, nella vita presente; ma quando ci presenteremo al giudizio… come renderemo conto dei talenti affidatici? La prima forma di carità e misericordia – soleva ripetere un santo Papa venuto da un Paese lontano, ma ancora in Europa – è dire la verità agli uomini, specie se erranti.

Quanto all’uscire, annunciare… trasfigurare che ci è stato indicato come linea pastorale (?) da seguire nei prossimi anni, posso senz’altro concordare sul fatto che sia effettivamente urgente distogliersi, nella Chiesa attuale, dal morboso ripiegamento su se stesso di chi si bea contemplando il proprio ombelico e si meraviglia che altri non si sentano attirati a fare altrettanto. Non mi è però ben chiaro come questo fine sia perseguibile mediante una suprema tensione verso l’uomo piuttosto che – come di norma in qualsiasi religione – verso Dio… a meno che, i fianchi cinti da un grembiulino, non si sia scambiato l’uno con l’altro. Parafrasando il grande commediografo inglese, potrei così concludere: «God or man? This is the problem». Sarò forse un presuntuoso ma, dal canto mio, non ho di questi dubbi amletici e non ne ho mai avuti: per grazia di Dio, ho fatto la mia scelta e non me ne pento.

P.S.: un vecchio canto popolare della Via crucis, noto in varie regioni d’Italia, si rivolge al Redentore paziente con queste parole: «Gesù mio, con dure funi, come reo, chi ti legò? Sono stati i miei peccati: Gesù mio, perdón, pietà». I meno devoti, un tempo, si prendevano una magra rivincita sostituendo al testo della risposta la seguente parafrasi: «Sono stati i preti e i frati…». Per quanto irriverente, questa triste bravata potrebbe farci riflettere sulle nostre attuali responsabilità di pastori: vogliamo anche noi, ancora una volta, crocifiggere Gesù per rifiuto della sua vera identità di divino Salvatore universale e per connivenza con i poteri di questo mondo, come già le autorità giudaiche? Vi scongiuro: rimaniamo con Cristo e vegliamo con lui per la sua Chiesa, perfino a costo di rimetterci personalmente. Buona Pasqua.
[Fonte: La scure di Elia]

2 commenti:

mic ha detto...

Cosi ricordavamo il sacerdozio di Cristo, riprendendo dichiarazioni sconcertanti di Maradiaga:

http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2013/11/gesu-e-lunico-vero-sacerdote-in-senso.html

E, poi, dedicato ai sacerdoti:
http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2013/11/dedicato-ai-sacerdoti-per-ricordare.html

Anonimo ha detto...

Padre, il problema e che i preti ai quali lei indirizza la sua letterera non sono piu cattolici, oramai sono diventati protestanti, come quelli di Firenze dei quali lei parla.Non capiranno neanche di cosa parla. Questo e il grande drama