Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 18 ottobre 2025

Dilexi Te e il pericolo del neo-fariseismo

Nella nostra traduzione da OnePeterFive, anticipiamo la seguente analisi della recente esortazione apostolica di Leone XIV, in attesa della nostra ancora in fieri.

Dilexi Te e il pericolo del neo-fariseismo

L’Esortazione Apostolica Dilexi Te, pubblicata da papa Leone XIV il 9 ottobre 2025, funge da anello di congiunzione tra i pontificati di Francesco e di Prevost.

I temi riprendono quelli ribaditi instancabilmente negli ultimi dodici anni: povertà, una Chiesa povera, il primato dell’assistenza sociale, la condanna delle disuguaglianze economiche, la giustizia sociale, la teologia del popolo, la cultura dello scarto, la crisi ecologica, la doppia povertà delle donne (dovuta alla negazione dei diritti), l’emergenza umanitaria dei migranti, la necessità politica dei movimenti popolari (le celebri comunidades de base di bergogliana memoria), l’imperativo di utilizzare scienza e tecnologia per trasformare la società, e soprattutto la fiducia incrollabile negli Stati e nelle organizzazioni internazionali — presentati come agenti privilegiati della giustizia sociale e perfino descritti come custodi di un fantomatico e inquietante “diritto di controllo”.

Ma in questo mio commento non intendo soffermarmi sull’impianto teologico e sociologico problematico dell’Esortazione, che pone la disuguaglianza economica (e non il peccato) come radice di tutti i mali sociali, e la redistribuzione delle risorse (e non la grazia) come loro rimedio.

La povertà materiale è presentata, paradossalmente, sia come grave male sociale sia come uno dei beni spirituali più alti — lasciando il lettore incerto se la sua eliminazione sia davvero auspicabile o se, piuttosto, l’obiettivo reale sia semplicemente l’eliminazione dei ricchi, così che la povertà universale significhi felicità universale.

Non è nemmeno chiaro se il linguaggio dell’Esortazione distingua davvero tra “spirituale” e “psicologico”.

Questo contrasta con la teologia classica, che considera la povertà di spirito e la povertà evangelica come due strumenti spirituali potentissimi. Esse si distinguono dalla povertà materiale in quanto non si riferiscono alla quantità di beni posseduti, ma alla disposizione del cuore — al suo distacco affettivo da tutti i beni terreni, incluse le relazioni umane — e sono contraddistinte dal loro carattere volontario. Così, un re ricco e potente può essere povero in spirito, mentre un senzatetto può essere un peccatore vizioso, orgoglioso e depravato.

La povertà evangelica, in particolare, è uno stile di vita scelto, ispirato all’esempio di Cristo e dei discepoli, che “non avevano dove posare il capo”. [1] Essa porta con sé una forte dimensione penitenziale, analoga al celibato volontario.

San Tommaso d’Aquino spiega quando la povertà è degna di lode:
La verginità comporta l’astensione da ogni piacere sessuale, e la povertà implica la rinuncia a ogni ricchezza; ma entrambe devono essere abbracciate per un fine giusto: secondo il comando di Dio e in vista della vita eterna. Se, invece, sono praticate in modo improprio — per superstizione, timore eccessivo o vanagloria — si oltrepassa la giusta misura, e ciò non è virtù. Al contrario, se non vengono osservate quando e come si deve, si cade nel vizio per difetto. [2]
La povertà materiale, invece, in quanto involontaria o addirittura imposta (come avviene in certi contesti socio-politici), non è meritoria in sé, né è sinonimo di umiltà. È infatti perfettamente possibile che persone materialmente povere siano spiritualmente superbe e persino avide. In breve, il tema della povertà sembra affrontato in modo piuttosto grossolano e semplicistico.

Preoccupa anche la confusione che l’Esortazione sembra introdurre tra la povertà materiale e la povertà di spirito a cui si riferisce il Vangelo.

San Tommaso, in armonia con la Tradizione cattolica e il patrimonio patristico, ricorda che “la prima beatitudine è: ‘Beati i poveri in spirito’, che può riferirsi sia al disprezzo delle ricchezze sia al disprezzo degli onori — qualcosa che avviene mediante l’umiltà”. [3]

Ma vi è un altro elemento che merita di essere sottolineato nella nostra analisi di Dilexi Te: la sua apparente indulgenza verso la crescente confusione — ormai diffusa anche all’interno della Chiesa cattolica — tra carità, amore e filantropia. Sebbene i tre concetti possano sovrapporsi, nel linguaggio teologico cattolico essi designano realtà profondamente diverse, che devono essere rigorosamente distinte. Confonderli significa aprire la porta a quella deriva spirituale e sociale che definisco “neo-fariseismo”.

Come il lettore sa, i Farisei erano una setta del giudaismo antico che predicava la rigorosa osservanza della Legge. Costituivano una casta religiosa — ma non sacerdotale. Al contrario, erano per lo più laici (rabbini e studiosi) che componevano il Sinedrio, un tribunale di “esperti” incaricati di educare il popolo. Secondo i Farisei, la salvezza si otteneva attraverso le opere buone.

Essi interpretavano la dottrina mosaica più come ortoprassi che come ortodossia. Solo mediante le opere buone si poteva essere considerati moralmente puri. Il termine ebraico perushim significa “puri” e “separati”, in modo analogo all’uso successivo del termine “Catari” nell’Europa medievale.

Oggi si osserva un fenomeno simile nella Chiesa: la priorità data alle opere rispetto alla dottrina; il primato della dimensione comunitaria su quella sacerdotale; e una crescente fiducia negli “esperti” incaricati di guidare non solo i laici ma anche il clero nelle loro decisioni.

Ciò porta inevitabilmente a conseguenze sociali importanti — come la tendenza a “esibire” la propria bontà ostentando atti di elemosina. Da qui la condanna di Cristo del lievito dei Farisei: il vizio dell’ipocrisia.

Ricordiamo però che, nella dottrina cattolica, il rapporto con le opere buone segue un ordine e una logica diversi. Esaminiamo più da vicino la questione.

Il primo parallelo evidente riguarda l’eccessiva preminenza delle opere sulla vita interiore. Gli antichi Farisei attribuivano potere salvifico alla mera osservanza delle leggi e alle opere esteriori. Analogamente, oggi nella Chiesa si nota un’enfasi sproporzionata sulle azioni filantropiche e sull’adesione alla legge civile. Nell’antico Israele, legge civile e legge religiosa coincidevano; oggi non più — ma la logica di fondo rimane la stessa.

La filantropia moderna è divenuta una “misura della moralità” ancor prima che uno strumento di prestigio sociale, e sostituisce il primato della carità intesa come virtù teologale — nata dall’amore per Dio ed estesa al prossimo.

Quando questi concetti vengono confusi, si rischia di sostituire il vero amore con un amore “funzionale”, misurato dai risultati visibili, senza autentico coinvolgimento del cuore e della volontà. La pratica religiosa si riduce così a una sorta di “gara morale”, come accadeva tra i Farisei nel loro orgoglio rituale. Nella Chiesa di oggi questo atteggiamento è particolarmente evidente, benché la sua esistenza sia abitualmente negata da coloro stessi che lo perpetrano.

Una traduzione dottrinale di questo neo-fariseismo si manifesta, tra l’altro, nella teologia elaborata da Karl Rahner, nota come teoria del “cristianesimo anonimo”. Secondo il gesuita neo-modernista, chi, pur non conoscendo Cristo né appartenendo alla Chiesa cattolica, vive secondo principi buoni e al servizio degli altri, partecipa della salvezza di Cristo.

Occorre prudenza: la dottrina del cristianesimo anonimo va oltre l’insegnamento classico e ortodosso, secondo cui un uomo — pur ignaro di Cristo — può salvarsi se la sua ignoranza è invincibile e aderisce alla legge naturale. Si tratta di una via possibile di salvezza, ma straordinaria, dunque rara e difficile da percorrere.

Al contrario, la dottrina rahneriana afferma che la salvezza è universale — più comune di quanto si creda — e si fonda non tanto sulla legge naturale quanto sul concetto di servizio al prossimo. Rahner parlava di “grazia inclusiva”. Ma è davvero questo ciò che insegnano la Sacra Scrittura e la dottrina cattolica?

È necessario ribadire un punto che spesso sfugge anche ai cattolici più attenti: la carità non coincide con il sentimento che chiamiamo amore. La virtù teologale della carità è una virtù soprannaturale che dispone la volontà a perseguire sopra ogni cosa ciò che Dio vuole da noi, e quindi a volere il vero bene del prossimo.

Ora, il peccato grave è detto mortale perché uccide la carità, e come chiarisce San Tommaso, “non può esserci vera giustizia, vera castità [o altra vera virtù] se manca l’orientamento al fine fornito dalla carità, anche se si agisce correttamente rispetto ad altre cose”. [4]

In altre parole, un uomo può provare compassione per i poveri pur vivendo in peccato mortale, ma tale compassione non è la virtù teologale della carità — quella disposizione soprannaturale che coinvolge la volontà, non il solo sentimento. San Paolo, nel celebre inno alla carità, scrive: “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze ai poveri, ma non avessi la carità, nulla mi gioverebbe”. [5]

Il principio è chiaro: la salvezza non viene dalle opere o dalla filantropia, ma dalla grazia di Dio, ricevuta nella fede e accresciuta attraverso i Sacramenti. La fede è condizione necessaria ma non sufficiente per la salvezza; la grazia è necessaria, ma essa stessa non può essere ricevuta senza una fede ben formata. Le opere buone sono effetti e manifestazioni della vita di grazia — non fonti autonome di salvezza.

L’ostentazione delle opere buone costituisce un ulteriore elemento del neo-fariseismo. San Tommaso osserva che il merito delle opere è nullo quando un atto virtuoso è compiuto per ottenere gloria o riconoscimento umano. [6] La pubblicità dell’atto seduce l’ego e distrae dal culto dovuto a Dio — anche nel sostenere i poveri. [7]

Ne consegue che la carità non coincide con la filantropia. Le opere compiute senza la grazia non sono meritorie agli occhi di Dio. Citiamo ancora il pensiero di San Tommaso, che su questo punto è inequivocabile: “Il peccato mortale distrugge completamente la carità, sia come causa sia come demerito, poiché chi pecca mortalmente agisce contro la carità e merita che Dio gliela tolga”. [8] Di conseguenza, a causa del peccato mortale, non solo la carità — essendo la grazia stessa di Dio — viene rimossa, ma “tutte le virtù infuse vengono parimenti eliminate”, [9] anche se possono “coesistere con le virtù acquisite [naturali [10]]”. [11] “Le opere compiute senza carità [cioè senza la grazia di Dio] non sono meritorie davanti a Dio”. [12]

Accade anche che le opere buone compiute in stato di grazia vengano “rese morte [cioè non meritorie] dal peccato successivo” e “non abbiano più il potere di condurre alla vita eterna”. [13] Tuttavia, dopo la dovuta penitenza, le opere compiute prima del peccato grave “riacquistano la capacità di condurre alla vita eterna per chi le ha compiute”. [14] Al contrario, le opere “genericamente buone” compiute quando non si è in stato di grazia sono opere che non sono mai state vive — cioè mai meritorie — e perciò è impossibile che “rivivano mediante la penitenza”. [15]

E tuttavia, è buono e desiderabile che chi si trova in stato di peccato mortale compia opere oggettivamente buone, poiché “più opere buone si compiono mentre si è nel peccato, più ci si dispone alla grazia della contrizione”. [16]

Tutta questa dottrina, che la Chiesa ha fatto propria negli insegnamenti infallibili dei Papi e dei Concili, si fonda sulle parole della Scrittura, che dichiarano: “Tutti i nostri atti di giustizia sono come un panno immondo”; [17] e ancora: “Se un uomo si allontana dalla Sua giustizia e commette iniquità, tutte le opere giuste che ha compiuto non saranno ricordate”; [18] e ancora: “Per grazia siete stati salvati mediante la fede, e ciò non viene da voi: è dono di Dio. Non dalle opere, affinché nessuno possa vantarsene”; [19] e ancora: “Coloro che sono nella carne non possono piacere a Dio”; [20] e ancora: “Senza la fede è impossibile piacere a Dio”; [21] e ancora: “Tu hai la fede e io ho le opere. Mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede”. [22]
Gaetano Masciullo – 14 ottobre 2025
__________________________
[1] Lc 9,58
[2] Summa Theologiae I-II, q. 64, a. 1, ad 3
[3] Summa Theologiae I-II, q. 69, a. 3, co.
[4] Summa Theologiae II-II, q. 23, a. 7, ad 2
[5] 1 Cor 13,3
[6] Summa Theologiae II-II, q. 23, a. 8, co.
[7] Cf. Mt 25,40
[8] Summa Theologiae II-II, q. 24, a. 10, co.
[9] Summa Theologiae I-II, q. 71, a. 4, co.
[10] Prudenza, giustizia, fortezza, temperanza.
[11] Ibid.
[12] Summa Theologiae, suppl. q. 14, a. 4, co.
[13] Summa Theologiae III, q. 89, a. 5, co.
[14] Ibid.
[15] Summa Theologiae III, q. 89, a. 6, co.
[16] Summa Theologiae, suppl. q. 14, a. 3, ad 1.
[17] Is 64,6.
[18] Ez 18,24.
[19] Ef 2,8–9.
[20] Rm 8,8.
[21] Eb 11,6.
[22] Gc 2,18.

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

10 commenti:

tralcio ha detto...

La routine del passaggio di consegne.

Lumen fidei fu la prima enciclica di Bergoglio, ma si respirava La Sapienza di Benedetto XVI che infatti scomparve negli scritti successivi.

In questa esortazione, già declassata dal rango di enciclica, c’è l’eco e l’eredità del dodicennio precedente.

Nella Chiesa si usa così ed è un modo per non troncare di netto e tenere allacciato il gregge.

Avremo modo in futuro di leggere testi veramente di Leone XIV. Adesso sarebbe un inutile esercizio, come di pensare Bergoglio in grado di credere alla miglior parte di Lumen fidei.

Anonimo ha detto...

La teologia della liberazione pone i poveri al posto di Cristo.

La gerarchia sudamericana presenta i poveri come il popolo eletto: basta essere povero per andare in paradiso. Ciò che il proletariato è per Marx, i poveri lo sono per questi prelati.

Anonimo ha detto...

...ci sono anche le nomine del pontefice che parlano... perché chiudere gli occhi a tutti i costi?

Laurentius ha detto...

Continuerà tutto come prima. Il 'come prima' - sia chiaro - data dal 9 ottobre del 1958, giorno della morte di Pio XII. La chiesa conciliare è impegnata anima e corpo nella edificaziine del nuovo ordine mondiale e, per quanto possano variare le sfumature, non intende affatto desistere. Non aspettatevi chissà che cosa e non lasciatevi menare per il naso!

Anonimo ha detto...

se fosse veramente una routine , Leone dopo aver parlato del vescovo Romero nel capitolo 89 non avrebbe sccritto che lui stesso deve molto alla Chiesa sudamericana , quella che, come asappiamo, sposato la teologia della liberazione . Ecco la citazione: " Le Conferenze dell’Episcopato Latino-americano a Medellín, a Puebla, a Santo Domingo e ad Aparecida costituiscono tappe significative anche per la Chiesa intera. Io stesso, per lunghi anni missionario in Perù, devo molto a questo cammino di discernimento ecclesiale, che Papa Francesco ha saputo sapientemente legare a quello delle altre Chiese particolari, specie del Sud globale. " In Lumen Fidei non c'era nulla di Francesco, in dilexi te c'è Francesco , ma c'è anche molto Leone., per chi conosce il suo lavoro in Perù. E' inutile mettersi le fette di salame sugli occhi. Mauro.

Anonimo ha detto...

Ma...non sta cambiando aria a livello mondiale? O sbaglio?
Tal Re.....tal papa ... Fu così, e la storia si ripete

Anonimo ha detto...

"come primaaa / più i primaaa" cantava un tempo Tony Dallara, ed è proprio così, oggi, in tema di autodemolizione della Chiesa Cattolica ad opera della sua gerarchia, dalla Prima Sede in giù. Basti vedere chi è stato nominato Arcivescovo di Vienna, per abbandonare le illusioni e l'attendismo verso questo nuovo papa : più ligio di così all'agenda suo predecessore (la luciferina Agenda 2030) non poteva essere, ma credo che chiunque fosse stato eletto al posto suo avrebbe dovuto adattarsi a svolgere questo ruolo, un ruolo notarile dello sfascio della civiltà cattolica bimillenaria. Noi teniamoci stretti a NSGC ed alla Sua SS.ma Madre e loro lasciamoli andare dove vogliono andare, ma senza di noi. LJC Catholicus

Anonimo ha detto...

Ognuno di noi ha avuto fasi diverse nella sua vita, lui è stato là, qua le cose sono andate diversamente. Siccome il Cristianesimo è partito in modo particolare da qua le fonti qua sono.Lui ora deve abbeverarsi qua, altrimenti se ne torni là. Non sarà il primo a dimettersi.

Anonimo ha detto...

I poveri vanno all'Inferno come gli altri, quando sono peccatori incalliti. Ai poveri che trafficavano con il piccolo commercio più o meno legale nel cortile del Tempio, Gesù rovesciò i banchetti prendendoli a frustate, poiché contribuivano a fare del luogo santo "una spelonca di ladri".
Gesù rivaluta la povertà, ammonisce duramente i ricchi, mostra che chi non aiuta il povero potendolo fare va all'Inferno (parabola del ricco Epulone), ma ci esorta soprattutto alla "povertà nello spirito" (categoria oggi scomparsa) ossia all'umiltà e all'obbedienza di fronte a Dio e ai suoi legittimi Apostoli.
La Chiesa dei poveri, quella dell'opzione per i poveri, è solo ideologia della liberazione, messianesimo di tipo marxista e socialista che nulla ha a che vedere con il vero cattolicesimo.
Nella sua variante "popular" tipica di Bergoglio, essa fa del "popolo", con i suoi usi, costumi, mentalità e credenze (culti pagani compresi), un soggetto unitario del quale la Gerarchia deve "mettersi in ascolto" per farsi illuminare su quello che deve fare.
La "struttura" pensata come luogo (pseudo-teologico) dell'ascolto sarebbe appunto il Sinodo, il collettivo nel quale, senza distinzione gerarchica alcuna, laici ed ecclesiastici si riuniscono periodicamente per rivelare ciò che "lo Spirito" ispirerebbe loro e comunque le loro esperienze. Concezione totalmente incompatibile con il cattolicesimo, sostituito da una "religiosità" spontanea ed informe, nella quale c'è di tutto, orientata dall'élite neomodernista al potere, che sa come indirizzare il "sentimento religioso" ai suoi scopi nefandi (per esempio, l'abolizione del celibato ecclesiastico, la donna-prete, il "superamento" del primato petrino etc).

Questa è la farsa della "Chiesa sinodale", rete di collettivi alla quale partecipano molte donne -- la loro presenza è oggi richiesta ed esaltata --, portatrici in genere delle istanze (anticristiane) tipiche dell'odierno femminismo e della rivoluzione sessuale. Partecipano non per convertirsi a Cristo ma per convertire ulteriormente la nostra religione alle loro personali istanze, sono le "donnicciole cariche di peccati agitate da passioni di ogni sorta, che sempre stanno ad imparare senza mai giungere alla conoscenza della verità", delle quali parla san Paolo indicandole come allieve predilette dei cattivi maestri ( 2 Tm, 3, 6-7).

Anonimo ha detto...

"Le Conferenze dell’Episcopato Latino-americano a Medellín, a Puebla, a Santo Domingo e ad Aparecida costituiscono tappe significative anche per la Chiesa intera."

Non bestemmiamo...