Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

giovedì 9 ottobre 2025

Colligite Fragmenta: XVII Domenica dopo Pentecoste

Nella nostra traduzione da OnePeterFive la meditazione settimanale di p. John Zuhlsdorf, sempre nutriente e illuminante, che ci consente di approfondire, durante l'ottava, i doni spirituali della Domenica precedente qui

Colligite Fragmenta:
XVII Domenica dopo Pentecoste


Nella XVII Domenica dopo Pentecoste, il Vetus Ordo ci propone l’Epistola di Paolo agli Efesini, una lettera scritta in prigionia, probabilmente da Roma — forse non lontano da dove io stesso scrivo queste righe — nella quale egli esorta: -
“Fratelli, io dunque, prigioniero nel Signore, vi esorto a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, preoccupandovi di conservare l’unità dello Spirito nel vincolo della pace. Un solo corpo e un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.”
La Chiesa accosta a questa esortazione il Vangelo di Matteo 22, dove Gesù, messo alla prova nel Tempio da farisei e sadducei, risponde con il Grande Comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo, e poi pone loro la domanda sul figlio di Davide e il Signore di Davide.

Questo accostamento non è casuale. Per Paolo, l’unità del Corpo nasce dalla carità. La carità è il contenuto stesso del Grande Comandamento. Entrambe le letture convergono su una verità: l’unità nella Chiesa è possibile solo attraverso quella carità che abbraccia Dio e il prossimo, una carità che riconosce nel Messia non soltanto un discendente di Davide, ma il Signore divino che unisce tutto in sé.

Paolo, incatenato per il Vangelo, parla di una vocazione (klēsis) radicata nel battesimo:
Sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestrae.”
La stessa parola ekklēsía deriva da kaleō — “chiamare, convocare, nominare”. Il battesimo ci chiama fuori dal mondo per entrare nell’unità: una sola fede, un solo Signore, una sola speranza. Ma questa unità è fragile, costantemente minacciata da divisioni interne.

Paolo conosceva bene il dolore della divisione. Soffrì persecuzioni esterne, ma ancor più le ferite dello scisma, dei fratelli che tradivano i fratelli. Il Corpo Mistico lacerato dall’eresia è una ferita più dolorosa dei colpi dei tiranni. Per questo egli supplica con insistenza: umiltà, mansuetudine, pazienza, ἀνεχόμενοι ἀλλήλων ἐν ἀγάπῃ — “sopportandovi gli uni gli altri nell’amore”. Quell’agápē è la stessa caritas che Cristo nomina nel Vangelo come primo e secondo comandamento.

Lo Shema — “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente” — era ben noto: Israele lo recitava ogni giorno come difesa contro l’idolatria. Cristo lo unisce indissolubilmente a Levitico 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso.” In questo duplice comandamento Egli rivela che l’unità per la quale Paolo implora non è uniformità burocratica, né semplice condivisione di riti o formule di fede, ma l’unità prodotta dalla carità divina che lega i figli di Dio a Lui e tra di loro. “Duo sunt praecepta, et una est caritas”, spiega Agostino. Un solo amore, due comandamenti. Amare Dio significa amare il prossimo; amare il prossimo apre la via all’amore di Dio. E l’ordine è essenziale: si ascende a Dio praticando la carità verso il prossimo visibile, perché l’amore verso un Dio invisibile non resti illusione. “Se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?” (Sermo 265). Così Epistola e Vangelo si incontrano. Gli “uno” di Paolo — un solo corpo, un solo Spirito, un solo battesimo — si tengono insieme solo grazie al duplice amore che Cristo nomina come cuore della Legge e dei Profeti. Essere “degni della vocazione” significa incarnare il Grande Comandamento. Infrangerlo con superbia, rivalità, eresia o odio equivale a lacerare l’unità dello Spirito. L’esortazione di Paolo è la concretizzazione pratica dell’insegnamento di Cristo nel Tempio.

Il beato Ildefonso Schuster, riflettendo su questa Epistola, ricorda come i Romani resistettero al tentativo di Costanzo di imporre un antipapa. Il loro tumulto mostra quanto l’unità fosse vitale — e quanto la divisione fosse dolorosa. Ma la loro violenta passione mostra anche come l’idea di unità possa degenerare in faziosità.

A metà del IV secolo, l’imperatore ariano Costanzo esiliò papa Liberio per aver rifiutato compromessi sulla fede nicena. In sua assenza, il clero romano, sotto pressione imperiale, installò Felice come vescovo: divenne il futuro antipapa Felice II. Quando Costanzo visitò Roma, il popolo gridava: “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo vescovo.” Liberio tornò, ma le divisioni restarono. Dopo la sua morte, elezioni rivali produssero Ursino e Damaso: i loro sostenitori si scontrarono violentemente. Secondo la Collectio Avellana, gladiatori e bande armate combatterono nel Laterano, lasciando cadaveri nella basilica. Figure venerate come san Girolamo e Rufino difesero Damaso; altri denunciarono il massacro. Questo episodio tragico rivela come la devozione all’“unità” possa essere strumentalizzata per guadagni di parte.

Il desiderio di avere un solo vero vescovo era giusto in principio, ma senza caritas degenerò in ambizione — ricordandoci che l’unità non può sopravvivere senza amore.

Non basta avere gli slogan giusti. Senza amore, l’unità è solo una maschera dell’ambizione. Paolo lo sapeva. Agostino e Girolamo lo sapevano. Cristo lo sapeva.

Il dialogo di Cristo con i farisei illumina ulteriormente. Egli chiede: “Che ne pensate del Cristo? Di chi è figlio?” Rispondono: “Di Davide.” Gesù cita il Salmo 110(109):
“Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi.”
Se Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?

Il punto cruciale è la parola “Signore”: in ebraico Ne’um YHWH la-’doni — “Oracolo di YHWH al mio Signore.” Ne’um significa “oracolo, dichiarazione, pronuncia profetica”. È un termine tecnico che introduce un annuncio divino. Non è semplicemente “ha detto”, ma “oracolo di”. Qui si gioca il rapporto tra YHWH (Dio) e ’Adonai (il Messia, il Signore di Davide). Il Messia non è solo figlio di Davide, ma anche Signore di Davide: Dio fatto carne. Il riconoscimento della Sua divinità è il fondamento dell’unità. Se fosse solo un uomo, un re discendente, sarebbe un capo fazioso fra altri. Ma in quanto Dio, Egli è il principio stesso dell’unità: l’unico Signore cui è dovuta ogni fede, che lega tutti i battezzati in un solo corpo. L’unità di Efesini 4 poggia sulla confessione di Matteo 22: il Messia è il Signore.

Paolo sapeva quanto l’unità fosse fragile. Gli antichi si ribellarono per un iota fra homoousios e homoiousios. I donatisti frantumarono l’Africa. Girolamo e Agostino litigarono sulle traduzioni. La divisione è endemica. Perciò Paolo insiste su mansuetudine e pazienza; perciò Cristo insiste sull’amore del prossimo. Senza carità, la chiarezza teologica diventa solo combustibile per nuove divisioni.

L’unità della Chiesa non è assenza di controversia, ma vincolo di pace forgiato dall’amore nella verità della divinità di Cristo.

Il cardinale Robert Sarah, riflettendo su Ratzinger, riconosce la stessa crisi. Nel 1966 Ratzinger aveva invocato una “misura molto generosa di tolleranza” nella Chiesa, citando Efesini 4 e “il sopportarsi a vicenda”. Sapeva che solo la carità può offrire il terreno per un rinnovamento autentico. Decenni dopo, Sarah ha lamentato che misure impulsive come Traditionis custodes abbiano minato la pace, riaccendendo le “guerre liturgiche”. Avvertì che Benedetto aveva ragione: i riti antichi non possono essere semplicemente proibiti come dannosi, quando hanno prodotto frutti buoni.

La lezione è perenne, come hanno imparato — amaramente — i fedeli di Charlotte, Monterey e Detroit, per citarne solo alcuni: senza carità, le “riforme” fatte in nome dell’unità diventano semi di discordia.

La liturgia di questa domenica avvolge questi temi. L’Introito canta la via irreprensibile. La Colletta prega di evitare la contagione diabolica e di aderire a Dio con cuore puro. L’Offertorio, tratto da Daniele, è una supplica di riconciliazione. La Segreta chiede che i peccati siano spogliati — exuo — immagine dolorosa ma purificatrice. L’Antifona di Comunione proclama che Dio abbatte la superbia dei principi (forse anche dei “vescovi”?).

Alla soglia della Comunione, il sacerdote ripete tre volte: Domine, non sum dignus.

Nella sua Enarratio in Psalmum 144, Agostino osserva la familiarità del suo popolo con la parola confessio, che significa “lode, riconoscimento, e ammissione del peccato”:
Usque adeo enim hoc putatur, ut quando sonuerit de divinis eloquiis, continuo sit consuetudo pectora tundere… “Si ritiene talmente familiare che, ogni volta che questa parola risuona nelle letture divine, subito è abitudine battere il petto.”
Il suono dell’assemblea che si batte il petto era come un tuono nella chiesa.

Confessione e umiltà.

Riconoscere che l’unità e la carità non vengono da noi, ma dalla misericordia del Signore.

Nel Vangelo, Gesù mette a tacere i suoi nemici non evitandoli, ma manifestando la Sua divinità attraverso la Scrittura. Non adulò, non “dialogò” nel senso moderno di trattativa infinita. Li amò con la severità della verità, svelando i loro cuori per convertirli.

La carità talvolta ferisce per guarire.

Anche Paolo consegnò i bestemmiatori a Satana, non per vendetta, ma per salvezza.

Così anche oggi: l’unità richiede chiarezza, e la chiarezza richiede il coraggio di dire cose dure.

Amare il prossimo non significa indulgere nel peccato, ma volerne il bene, anche quando costa.

Qui ancora una volta Epistola e Vangelo si incontrano. Paolo esorta ad avere umiltà e mansuetudine, ma mai a scapito della verità.

Gesù incarna mitezza e umiltà, ma affronta con coraggio la menzogna. La vera unità tiene insieme entrambe: umiltà verso i fratelli, fermezza nella confessione della Signoria di Cristo. L’unico Signore, l’unica fede, l’unico battesimo, l’unico Dio sopra tutti, è lo stesso Signore che chiede: “Come il Cristo può essere insieme figlio di Davide e Signore di Davide?” Risposta: Egli è Dio e uomo. È il centro che unisce cielo e terra, ebreo e gentile, sacerdote e laico, prossimo e prossimo, in un solo Corpo Mistico.

Il cosmo ruota, le stagioni si avvicendano. L’autunno scende, la mietitura si compie. Il ciclo liturgico sussurra di giudizio, di Parusia. I fedeli sono esortati a camminare irreprensibili, ad amare Dio e il prossimo, a custodire l’unità. La confessione spoglia dal peccato; la comunione ci unisce a Cristo. “Adorémus in aetérnum Sanctíssimum Sacramentum.” L’Epistola ci ricorda la nostra vocazione; il Vangelo, il Signore divino che chiama.

Entrambe le letture convergono in una conclusione: l’unità nel vincolo della pace è possibile solo quando la Chiesa confessa Cristo come Signore e vive il duplice amore.

Nel 1959, nell’enciclica Ad Petri cathedram, papa Giovanni XXIII scrisse una frase sull’unità e la carità spesso (erroneamente) attribuita a sant’Agostino. È opportuno concludere con questa citazione, nella quale egli menziona anche san John Henry Newman — che papa Leone XIV proclamerà 38º Dottore della Chiesa il 1º novembre:
“La Chiesa cattolica, naturalmente, lascia aperte molte questioni alla discussione dei teologi, nella misura in cui tali questioni non sono assolutamente certe. Lungi dal minacciare l’unità della Chiesa, le controversie — come ha osservato un noto autore inglese, il cardinale John Henry Newman — possono anzi preparare la via al suo compimento. Il confronto può condurre a una comprensione più piena e profonda delle verità religiose: quando un’idea urta contro un’altra, può scoccare una scintilla. Ma occorre ricordare con approvazione il detto comune, espresso in varie forme e attribuito a vari autori: nelle cose necessarie, unità; nelle dubbie, libertà; in tutte, carità.” (cfr. J.H. Newman, Difficulties of Anglicans, vol. 1, p. 261 ss.)
In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas.

In realtà, la frase appare per la prima volta nel 1617 in Marco Antonio de Dominis, arcivescovo di Spalato, nel suo anti-papale De republica ecclesiastica (il grassetto è mio):
Quod si in ipsa radice, hoc est sede, vel potius solio Romani pontificis haec abominationis lues purgaretur et ex communi ecclesiae consilio consensuque auferretur hic metus, depressa scilicet hac petra scandali ac ad normae canonicae iustitiam complanata, haberemus ecclesiae atrium aequabile levigatum ac pulcherrimis sanctuarii gemmis splendidissimum. Omnesque mutuam amplecteremur unitatem in necessariis, in non necessariis libertatem, in omnibus caritatem. Ita sentio, ita opto, ita plane spero, in eo qui est spes nostra et non confundemur. “Se alla radice stessa, cioè nella sede — o meglio, nel trono — del pontefice romano, questa peste dell’abominazione fosse purgata, e con il consiglio e il consenso comune della Chiesa fosse rimosso questo timore, allora avremmo un atrio della Chiesa levigato, splendente delle più belle gemme del santuario. E tutti ci abbracceremmo a vicenda nella mutua unità: nelle cose necessarie unità, nelle non necessarie libertà, in tutte carità. Così penso, così desidero, così spero apertamente, in Colui che è la nostra speranza e non ci deluderà.”
Se mi si permette un’ultima digressione, l’arcivescovo Marco Antonio de Dominis (1560–1624) cominciò come gesuita. Pur continuando a credere nella Chiesa cattolica, si convinse che il papato stesse sviando i fedeli. Disilluso dalla politica curiale e dalla lotta tra Venezia e gli Asburgo, nel 1616 ruppe con Roma e si recò in Inghilterra, dove fu accolto da Giacomo I. Rinunciò all’obbedienza papale e fu nominato decano di Windsor. A Londra pubblicò il De republica ecclesiastica (1617–1619), una critica di tipo conciliarista al primato papale. Come naturalista offrì anche una delle prime spiegazioni scientifiche dell’arcobaleno nel trattato De radiis visus et lucis. (Mmm… arcobaleno… gesuita…) Alla fine cercò la riconciliazione con il Papa nel 1622, e Gregorio XV gli concesse una pensione. Ma Gregorio morì, la pensione cessò, e l’irritato prelato ricadde nei suoi errori. Fu imprigionato dall’Inquisizione e morì a Castel Sant’Angelo nel 1624. Si tenne persino un processo postumo al suo cadavere nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra Minerva. L’Inquisizione ordinò che il corpo fosse estratto dalla bara, trascinato per le strade di Roma e bruciato pubblicamente insieme ai suoi libri in Campo de’ Fiori, a circa cinque minuti da dove sto scrivendo. È lo stesso luogo dove si trovano il mio fruttivendolo, il macellaio e il panificio — e anche il mio locale preferito per l’aperitivo, proprio di fronte alla statua di un altro eretico finito al rogo: il singolare Giordano Bruno. Un breve promemoria, dunque, sull’insegnamento perenne della Chiesa riguardo alla pena capitale.

Paolo invoca l’unità. Cristo comanda la carità. Entrambi si incontrano nella vocazione della Chiesa: essere un solo corpo in un solo Signore, figli del Figlio e Signore di Davide, raccolti in un’unica messe alla fine dei tempi.

Le foglie cadono, i campi sono mietuti, le porte del cielo si chiudono al tramonto. Non lasciamo che il sole tramonti sulla nostra ira. Riconciliamoci in fretta. Siamo degni della vocazione con cui siamo stati chiamati, camminando nell’amore di Dio e del prossimo, confessando con Davide che il Messia è Signore, e con Paolo che vi è
“un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti.”
Padre John Zuhlsdorf 
Convertito dal luteranesimo, ordinato sacerdote nel 1991 da san Giovanni Paolo II a Roma per la diocesi suburbicaria di Velletri-Segni. Ha svolto studi classici all’Università del Minnesota e conseguito la licenza e il dottorato in teologia patristica presso l’Augustinianum a Roma. È stato collaboratore della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, moderatore del Catholic Online Forum, editorialista per The Wanderer e per il britannico Catholic Herald, e commentatore per Fox News. Conferenziere. Blogger. fatherzonline.com — @fatherz

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