Nella nostra traduzione da OnePeterFive la meditazione settimanale di p. John Zuhlsdorf, sempre nutriente e illuminante, che ci consente di approfondire, durante l'ottava, i doni spirituali della Domenica precedente qui.
Colligite Fragmenta – XVIII Domenica dopo Pentecoste
Mentre l’emisfero nord scivola dalla pienezza dell’estate verso la ventosa malinconia dell’autunno, anche la Santa Chiesa entra in una stagione di raccolto spirituale. Nel suo antico ciclo di Domeniche — formato nelle terre dove la luce declina ogni giorno un po’ prima — essa volge gradualmente lo sguardo alle realtà ultime: al venir meno della luce del mondo e al sorgere dell’eterna luce. La nostra sacra liturgia diventa anch’essa autunnale, pervasa dal profumo del giudizio e dal fruscio di ciò che passa.
Sempre più spesso, i testi della Santa Messa parlano della fine, dell’apokálypsis, del ritorno del Giusto Giudice. Non è un caso che, nel moderno Novus Ordo, l’Epistola che un tempo si ascoltava in questa XVIII Domenica dopo Pentecoste — le parole di san Paolo ai Corinzi — risuoni ora nella prima Domenica d’Avvento, la più escatologica delle stagioni. Anche se alcuni vescovi, incredibilmente, cercano di limitare il culto ad orientem, tanto nel Novus Ordo quanto nel Vetus, la Santa Chiesa, nel suo culto liturgico — l’ordito e la trama della nostra identità cattolica — volge gli occhi verso Oriente, ad orientem, verso il sorgere del vero Sole, verso l’Avvento del Signore che viene e che è già venuto.
Mentre i campi offrono i loro ultimi frutti, la Chiesa raccoglie i propri: anime richiamate alla grazia, cuori nuovamente rivolti al Volto che giudica e salva.
Il Vangelo di questa Domenica, Matteo 9,1-8, si apre a Cafarnao, la città adottiva di Gesù. Tuttavia, la storia completa inizia, curiosamente, dall’altra parte del lago. Per comprendere pienamente il Vangelo di questa Domenica, serve un contesto più ampio. Il capitolo precedente, l’ottavo di Matteo, colloca il Signore nella terra dei Gadarei (o Geraseni), in territorio pagano, a oriente del mare di Galilea. Lì Egli compie un esorcismo e il prodigio inquietante dei porci che, urlando, si precipitano alla morte nel mare.
Matteo 8,28-34, Marco 5,1-20 e Luca 8,26-39 narrano ciascuno la vicenda, con tratti propri. Marco e Luca mostrano un solo indemoniato — nudo, urlante, che si ferisce da sé, tanto feroce da spezzare le catene — posseduto dai demoni che si chiamano “Legione”. Matteo, invece, ne presenta due: l’uomo posseduto da “Legione” e un altro da un demone senza nome. Le discrepanze tra i Vangeli turbavano i Padri della Chiesa assai meno di quanto disturbino il moderno letteralista. Sant’Ambrogio osservava:
“Non credo che si debba trascurare senza motivo, ma piuttosto cercare la ragione per cui gli Evangelisti sembrano discordare sul numero. Sebbene il numero diverga, il mistero concorda.”(Expositio in Lucam 4,44)
Per Ambrogio e i suoi pari, la Scrittura non è da decostruire ma da leggere con la mente della Chiesa. Egli vedeva nel demoniaco nudo la figura dell’umanità decaduta:
“Chiunque abbia perduto il rivestimento della sua natura e della virtù è nudo… L’uomo che ha uno spirito maligno è figura dei popoli gentili, coperti di vizi, nudi all’errore, vulnerabili al peccato.”
Quando Cristo scaccia la legione demoniaca e l’uomo appare vestito e sano di mente, non si tratta solo della guarigione di una follia, ma dell’immagine della grazia ristabilita, del manto battesimale nuovamente posato sulle spalle di un figlio decaduto d’Adamo.
L’esorcismo del pagano e il perdono del giudeo nel capitolo successivo — il Vangelo di questa Domenica — si riflettono a vicenda, mostrando l’universalità della misericordia del Salvatore. Il miracolo a oriente del lago prefigura ciò che avverrà a occidente: da entrambi i lati della frattura umana — il pagano e l’eletto — il Signore trae a sé il suo popolo nuovo, unendoli in uno solo.
Poi Gesù attraversò di nuovo il lago in barca e giunse “nella sua città”, Cafarnao. Là, una piccola casa — forse la stessa di Pietro — divenne all’improvviso il luogo della rivelazione.
La scena: una folla così densa da ostruire la porta, l’aria satura di polvere e di attesa. Come riferiscono i passi paralleli di Marco 2,1–12 e Luca 5,17–26, si udì improvvisamente un rumore sordo provenire dall’alto, mentre il tetto veniva smontato; le tegole cadevano con un tonfo, la luce penetrava a raggi nell’oscurità. Alcuni uomini, con sforzo visibile, calavano una barella su cui giaceva un paralitico. Si possono quasi immaginare le grida di sorpresa, i volti sollevati verso la fenditura da cui filtrava il giorno.
Sono presenti anche gli scribi, i grammateis, maestri della Legge, esperti delle lettere sacre. Se ne stanno un poco in disparte, con gli occhi stretti e guardinghi.
Gesù vede la fede di coloro che hanno scoperchiato il tetto e del corpo immobile sul lettuccio. Invece di limitarsi a guarire e comandare alle membra di muoversi, pronuncia parole più sconvolgenti:
“Coraggio, figlio; ti sono rimessi i peccati” (v. 2).
La paralisi non aveva a che vedere solo con muscoli e ossa: era la stasi di un’anima ripiegata su sé stessa. Il Signore guarisce prima ciò che è dentro, e solo dopo ciò che è fuori.
Egli legge i pensieri degli scribi, la loro muta accusa di bestemmia. Il Signore dice:
“Perché pensate cose malvagie nei vostri cuori? Che cosa è più facile dire: ‘Ti sono rimessi i peccati’, oppure dire: ‘Àlzati e cammina’? Ma perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati — disse allora al paralitico —: ‘Àlzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua.’ Ed egli si alzò e se ne andò a casa sua. Le folle, vedendo questo, furono prese da timore e resero gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini.”Un comando che unisce il cielo e la terra:
“Àlzati, prendi il tuo letto e va’ a casa.”All’istante l’uomo si leva, la forza scorre in lui come la grazia in canali aridi.
Questo miracolo è una piccola apocalisse: una rivelazione dell’autorità divina.
Come scrive san Paolo ai Corinzi:
“Non mancate di alcun dono spirituale, mentre aspettate la manifestazione (apokálypsis) del Signore nostro Gesù Cristo.”
Nel guarito è prefigurato l’eschaton: il peccato rimesso, il corpo restaurato, l’uomo che ritorna a casa — al paradiso, a Dio.
È un’anticipazione del giudizio finale e della risurrezione, ma anche di ogni assoluzione pronunciata nel confessionale.
Nel confessionale, infatti, anche l’anima paralizzata — portata forse dalla fede altrui, calata davanti al Signore attraverso il tetto dell’umiltà — ascolta le stesse parole e si rialza, rivestita di grazia.
Il confessionale è quella stanza della casa evangelica; il sacerdote, alter Christus, parla in nome Suo.
Il peccatore vi entra disteso su una barella e ne esce in piedi, portando il lettuccio stesso che prima lo portava.
Il beato Ildefonso Schuster, splendido arcivescovo di Milano, osservava che l’antica Chiesa romana chiamava questa Domenica “la terza dopo la nascita di san Cipriano”, poiché il dies natalis del martire — la sua vera nascita in cielo — cadeva in quei giorni. In alcuni antichi calendari liturgici era segnata come Dominica vacat, “Domenica vacante”, poiché la veglia notturna delle Tempora d’autunno sostituiva la consueta celebrazione domenicale. Tuttavia, la Chiesa, riluttante a lasciare i fedeli senza nutrimento, offrì l’attuale formulario, interrompendo le letture tratte dall’Epistola agli Efesini per donarci invece l’inizio della Prima ai Corinzi — parole di ringraziamento che diventano, esse stesse, un inno di raccolto autunnale.
“Rendo sempre grazie al mio Dio per voi, per la grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, poiché in ogni cosa siete stati arricchiti in lui, in ogni parola e in ogni conoscenza” (1 Cor 1,4).
Il tono dell’Apostolo è generoso, ma al tempo stesso fermo e orientato allo scopo: egli comincia con la gratitudine prima di passare alla correzione. Ci invita, implicitamente, a fare altrettanto: iniziare con la gratitudine — per l’esistenza stessa, per il respiro che ci anima prima della tomba, per la grazia che ci santifica. L’anima, forma del corpo, non può essere annientata; dunque, dovrà un giorno risorgere, quando corpo e anima saranno di nuovo uniti. Che motivo più grande di questo per rendere grazie?
Paolo afferma che i Corinzi — e noi, loro eredi lontani — siamo stati “arricchiti di ogni parola e di ogni conoscenza”, così da non mancare di alcun dono spirituale nell’attesa della manifestazione del Signore. Questa ricchezza non è semplice eloquenza o erudizione, ma infusione di fede che fiorisce in sapienza. L’adagio di sant’Agostino, “Crede ut intellegas” — credi, affinché tu possa comprendere — illumina questo passo come un raggio che attraversa una vetrata o un tetto spalancato. La conoscenza (scientia) da sola non può attingere il mistero; solo la sapienza (sapientia), radicata nella fede, può coglierne la forma. Le parole di Isaia, “Nisi credideritis, non permanebitis” — se non crederete, non resterete saldi — collegano fede e fermezza, credere ed essere stabili. Credere significa stare in piedi sulla roccia che nessuna tempesta può smuovere. Agostino vi aggiunge un ulteriore passaggio di luce: “Nisi credideritis, non intellegetis” — se non crederete, non comprenderete (Tractatus in Ioannem 29,6).
“Il peccato rende stupidi”, dice un antico detto, perché il peccato offusca l’intelletto. L’uomo paralizzato dal peccato non può ragionare rettamente finché la grazia non lo ristabilisce. La fede apre l’occhio della mente, il tetto dell’anima, alla vera luce.
Santa Giovanna d’Arco gridò:
“Preferirei morire piuttosto che commettere un peccato di cui so che è peccato.”E san Domenico Savio esclamò:
“La morte, piuttosto che il peccato!”Essi portavano il loro letto e camminavano.
Portare il letto significa trasformare l’emblema della nostra debolezza nello strumento della nostra testimonianza.
San Pietro Crisologo predicava (Sermo 30):
“Porta il medesimo giaciglio che ti portava. Cambia i ruoli, affinché ciò che fu prova della tua malattia divenga ora testimonianza della tua guarigione.”Il peso diventa un segno, la cicatrice un sigillo di guarigione.
Il letto, un tempo insopportabile, diventa misura della forza ritrovata.
Quando andate a confessarvi e ricevete l’assoluzione, i vostri peccati sono per sempre cancellati, lavati nel Prezioso Sangue dell’Agnello, e non vi saranno più imputati nel giudizio. Eppure, noi ricordiamo i nostri peccati passati. Che anche la nostra memoria sia purificata, affinché, persino nel ricordare, possiamo trarre fiducia e gratitudine.
La cicatrice della memoria può essere un richiamo all’amore risanante di Dio.
Immaginate le emozioni del padrone di casa di Cafarnao quando, molto tempo dopo, alzando lo sguardo al suo tetto riparato, ricordava quel giorno.
I Padri ritornano spesso su quest’immagine del “prendere il giaciglio”. Ilario di Poitiers vedeva nel gesto la liberazione del corpo dall’infermità e il ritorno dell’anima al paradiso:
“Con il ritorno a casa del paralitico, Egli mostrò che ai credenti viene restituita la via verso il paradiso, da cui Adamo era uscito.” (Commento a Matteo 8,7)Ambrogio scorgeva nella barella “il letto del dolore sul quale la nostra anima giaceva malata per il crudele tormento della coscienza” (Expositio in Lucam 5,24). E aggiungeva che, dopo il tocco del Signore, il letto stesso diventa luogo di riposo:
“Per la compassione del Signore, che muta per noi il sonno della morte nella grazia della delizia, ciò che era morte comincia a essere riposo.”
Il comando di “tornare a casa” è l’invito a rientrare nell’Eden, “nel Paradiso, la nostra vera dimora, che dapprima aveva accolto l’uomo, perduta non per diritto ma per inganno”. Agostino spinge oltre: quando l’uomo è guarito, porta il suo letto perché l’amore deve portare il peso degli altri.
“Il tuo prossimo ti portava. Sei stato guarito: porta ora tu il tuo prossimo… Prendi il tuo letto e cammina.” (Tractatus in Ioannem 17)
Il cammino è l’amore in movimento, la carità resa visibile, l’anima che avanza verso il Signore portando altri con sé.
Agostino, altrove, mette in guardia dal contrario: la paralisi dell’acedia, l’essere paralitici interiormente. Non sei tu a portare il letto: è il letto che porta te. Questa frase è troppo bella per non citarla in latino (Enarratio in Psalmum 40,5):
L’accidia è il letto che domina chi vi giace, la coscienza cullata nell’inerzia.Dominus opem ferat tibi super lectum doloris tui. Portabat te lectus, non tu portabas lectum; sed paralyticus intus eras: adest qui dicat tibi: Tolle grabatum tuum, et vade in domum tuam.“Il Signore ti porti aiuto sul tuo letto di dolore. Era il letto che portava te, non tu il letto; eri paralitico dentro. Ma ora è presente Colui che ti dice: ‘Prendi il tuo giaciglio e va’ a casa tua.’”
Quanti cattolici — e quanti sacerdoti — giacciono ancora su quella barella dell’indifferenza, soddisfatti di minimi gesti, chiedendo con infantilismo: “Devo proprio farlo?”, quando la carità li chiama?
Gli amici fedeli che scoperchiarono il tetto non si curarono del costo o delle macerie: il loro zelo spezzò ogni ostacolo. La fede apre i tetti; l’incredulità resta immobile sotto di essi.
Una sfida: conoscete sacerdoti il cui letto li porta invece di essere portato?
Siate come gli amici del tetto: pronti a sostenerli, a portarne il peso, a essere compagni del loro risveglio.
E voi? Sì, voi! Andate a confessarvi.
Nel confessionale, il Signore ripete:
“Àlzati. Prendi. Cammina.”Ogni assoluzione è una piccola apocalisse, ogni penitente un microcosmo dell’ultimo giorno.
Paolo ci ricorda che attendiamo
“la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che vi confermerà fino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo.”La fine e l’inizio si incontrano in questa frase.
Attendiamo la rivelazione, ma ogni sacramento già la anticipa. Aspettiamo l’Ultimo Giorno, ma ogni assoluzione ne è una prova generale — un’eco del giudizio e della resurrezione. La Chiesa, nel suo abito autunnale, sussurra che il tempo stesso si sta ripiegando verso il compimento. Le foglie cadono, ma le radici si fanno più profonde. L’accorciarsi della luce non è soltanto perdita, ma attesa; la voce liturgica si fa più cupa per accendere la speranza:
“Andremo a Lui, o Egli verrà a noi.”
In ogni caso, le Quattro Cose Ultime — Morte, Giudizio, Paradiso e Inferno — troveranno la loro sintesi. Ecco perché la Chiesa, nella sua sapienza millenaria, ci orienta fisicamente, come prescrivono ancora le rubriche della Messa, verso l’Oriente liturgico, la direzione del Cristo che ritorna.
Volgersi a Oriente è confessare la speranza; pregare ad orientem è essere orientati nella verità. Non è forse il canto di ringraziamento di san Paolo anche per noi un richiamo alla vigilanza? Siamo noi coloro che sono stati magnificamente arricchiti di fede e conoscenza. Pensa a ciò che possediamo oggi, tramandato con amore attraverso innumerevoli generazioni: il tesoro dei santi, la testimonianza dei martiri, lo splendore dei sacramenti. Abbiamo un insegnamento sempre più limpido, una dottrina sempre più approfondita, e l’espressione visibile di entrambe nella liturgia sacra, curata, affinata, perfezionata.
Sprecare questi doni sarebbe un peccato contro la gratitudine. Manometterli, alterarne il significato o banalizzarli sarebbe un crimine contro Dio e contro il prossimo.
Paolo esigeva molto dai Corinzi, che erano appena ai primi passi di questo cammino chiamato Chiesa. Noi, invece, possediamo secoli di riflessione, il frutto accumulato della contemplazione, del sudore, del sangue e delle lacrime dei nostri padri.
Non si aspetterebbe forse, allora, Paolo ancora di più da noi?
Padre John Zuhlsdorf
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]
1 commento:
La logica della creatura decaduta dalla perfezione originaria manca dell’intelligenza che è propria di Dio.
Le più caratteristiche differenze riguardano la frammentazione che subentra alla perdita dell’integrità.
La prima è il tempo, cioè il suo scorrere storico e cronachistico, che si contrappone all’eternità.
Il tempo viene vissuto come attesa o come sfuggente: manca, pesa, mette fretta, non passa mai…
La seconda è la logica contabile: il tutto è la somma delle parti, cui si può aggiungere o togliere qualcosa.
Nel lavorio del mettere e del togliere, a tempo, si perde la contemplazione della bellezza integra.
La creatura sconta come fatica e perdita della pace interiore la necessità di contare il tempo e le cose.
Un ricco, completamente calato in questa dinamica di mondo, difficilmente può entrare nel Regno dei cieli.
Sarà sempre circondato da “molti” (cose, persone, interessi, idoli), disperdendosi nei pensieri del suo cuore.
Un povero di spirito può mancare di tutte queste cose passeggere, da solo eppure ben accompagnato.
"Solo" è una parola che trova radice in olos che è l’intero (integro). Non è il tutto (pan), ma qualcosa di più.
Perché chi è solo a contemplare l’Intero non è affatto isolato? Perché è nella communio sanctorum.
La fede (un dono di Dio che fa ricco il povero in spirito, povero di mondo) fa partecipi della vita stessa di Dio.
Lì cambia completamente la logica: non c’è un frammento che non porti in sé l’Intero-Integro.
E’ il mistero della particola del Santissimo Sacramento: in ogni particola c’è l’Assoluto.
E in ogni sua briciola, perciò così preziosa e da custodire con cura dall’indifferenza e dalla trascuratezza.
Quando? Adesso! Sempre. In Eterno! In ogni santa Messa dove si ri-presenta il sacrificio di Cristo.
Durante la consacrazione lo Spirito Santo agisce sul pane e sul vino e lì c’è l’Intero Cristo, Dio creatore.
Non c’è la frammentazione del tempo e quella delle cose: perdono peso le cose da contare e accumulare.
Ad aver peso è la gloria di Dio e noi, come anime sante, siamo in quella gloria.
Nel tutto e nel tempo che scorre si contano le parti: nell’Intero non conto niente. C’è l’Uno. In Eterno.
La pienezza della bellezza, della Grazia, è contemplare l’Integrità che appartiene solo a Dio.
Dio solo possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile. Eppure, nella fede, ne fa partecipe chi crede.
Nella fede non si vede niente, ma si sente tutto! Si intende ciò che con la logica umana non comprendiamo.
Si entra nella solitudine divina, che non è isolata o isolamento, ma la comunione dei santi.
Si entra nel riposo di Dio, che è dei beati, che non rincorrono più i frammenti in cui siamo frammentati.
In quella comunione con il Santissimo Sacramento, dove la Parola che salva ci dice di aver fede.
Ma senza la fede non vedo niente e restano solo parole, ulteriormente motivo di divisione, di parti del tutto.
Le parole e un libro fanno della rivelazione una religione priva di mistero, ma al massimo di studio e moralismo.
Di pezzetti di tempo che scivolano via, verso una morte incombente che non sa che cosa sia, già qui, la vera vita.
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