Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

giovedì 16 ottobre 2025

Cinquant’anni fa il nuovo diritto di famiglia sovvertiva la famiglia. Intervista al prof. Danilo Castellano

Grazie per la segnalazione all'Osservatorio card. Van Thuân.
Cinquant’anni fa il nuovo diritto di famiglia sovvertiva la famiglia.
Intervista al prof. Danilo Castellano

Di Don Samuele Cecotti and Danilo Castellano Ott 15, 2025

Cinquant’anni fa l’Italia vedeva promulgata la legge (n. 151 del 19 maggio 1975) sulla Riforma del diritto di famiglia, una vera e propria rivoluzione capace di sconvolgere la natura stessa della società domestica, una vera e propria manomissione della famiglia quale realtà giuridica.

La legge del 1975 andava a completare un processo di decostruzione della societas familiare iniziato da tempo e concretizzatosi normativamente in Italia a partire dal 1968: le due sentenze della Corte Costituzionale sul reato di adulterio (sent. n. 126 del 19 dicembre 1968 e sent. n. 147 del 3 dicembre 1969), la legge sul divorzio (n. 898 del 1° dicembre 1970), confermata da referendum nel 1974, e poi, appunto, la legge di Riforma del diritto di famiglia del 1975.

Ne parliamo con il professor Danilo Castellano, filosofo del diritto di chiara fama, già preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Udine, nonché Accademico di Spagna.

Professore, per comprendere appieno la ratio della Riforma del diritto di famiglia del 1975 è necessario, a mio avviso, partire almeno dalle due sentenze della Corte Costituzionale sull’adulterio. Ci aiuta a comprendere il carattere anti-nomistico e dissolutore dell’avvenuta depenalizzazione dell’adulterio?

La giurisprudenza della Corte costituzionale sull’adulterio, rectius sulla legittimità costituzionale dell’art. 559 C.P., svela innanzitutto una certa incertezza della Corte medesima: in un primo momento, infatti, essa sentenziò la piena legittimità dell’art. 559 C. P.. Pochi anni dopo la stessa Corte (composta, in parte, – la nota ha rilievo politico, non giuridico – dagli stessi giudici che avevano dichiarato la legittimità costituzionale del reato di adulterio) ne sentenziò l’illegittimità costituzionale, applicando i cosiddetti «principî» della Legge fondamentale della Repubblica italiana. Era avviata, così, l’applicazione della Costituzione italiana, come dimostrò successivamente la legislazione ordinaria e, soprattutto, la giurisprudenza della Corte chiamata a giudicare le leggi.

Con l’introduzione del divorzio nell’ordinamento italiano la guerra cultural-giuridica si alza di livello ovvero si porta al cuore stesso della famiglia, alla natura del matrimonio. Il matrimonio, in quanto istituto giuridico di diritto naturale, è per se stesso indissolubile ovvero l’indissolubilità è proprietà essenziale del matrimonio. Senza l’indissolubilità il matrimonio non c’è. Un matrimonio non indissolubile semplicemente non è un matrimonio, è qualcos’altro magari una pubblica dichiarazione di concubinato ma certamente non un matrimonio. Si può dunque affermare che con la legge n. 898 del 1° dicembre 1970 l’istituto giuridico (di diritto naturale) del matrimonio è eliminato dall’ordinamento (positivo) italiano?

Le premesse del processo distruttivo del matrimonio e della famiglia vanno cercate nella Weltanschauung sulla quale si basa (rectius, ritiene di potersi basare) la Costituzione repubblicana. È vero che essa (all’art. 29) parla della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Ciò, però, non deve trarre in inganno. Va preso nota, infatti, a questo proposito di un fatto significativo: l’aggettivo «indissolubile» che nel Progetto di Costituzione era legato a «matrimonio», cadde in sede di approvazione e cadde per un accordo fra democristiani e comunisti. Il che rende evidente che l’ordinamento giuridico costituzionale italiano non accoglie la natura del matrimonio come dato ontico; pretende, invece, di costruirla sulla base di una definizione convenzionale.

Va notato, poi, che la Costituzione considera il matrimonio ordinato alla piena eguaglianza dei coniugi. L’eguaglianza stabilita dalla Costituzione non è da intendersi come eguaglianza di dignità ma come astratta eguaglianza illuministica, vale a dire come eguaglianza «riconosciuta» ed imposta anche ai diseguali (la quale eguaglianza non è). Resta – è vero – il problema più generale, sollevato da diversi deputati all’Assemblea costituente (fra i quali va citato Piero Calamandrei) secondo i quali la «natura» delle «cose» mal si concilierebbe con il diritto assolutamente positivo. Quello che, comunque, va rilevato è il fatto che la «società naturale» (di cui all’art. 29 Cost.) è da intendersi in senso sociologico, non metafisico. Perciò, l’art. 29 Cost. va letto alla luce dell’art. 2 Cost., che comprende tutte le formazioni sociali ove si svolge la personalità umana (comprese, per esempio, le «unioni civili», le «famiglie di fatto», i «matrimoni omosessuali», e via dicendo). E ciò è già in sé una sovversione.

La «concretizzazione» normativa della decostruzione della famiglia, perciò, è anteriore al 1968. Negli anni ’60 del secolo scorso si assistette allo sviluppo coerente di un processo. Le Sentenze della Corte costituzionale da Lei citate (quelle, cioè, riferite al reato di adulterio) ne sono la dimostrazione. Soprattutto esse offrono una prova di quanto appena affermato e, cioè, che l’art. 29 Cost. va «letto» alla luce dell’art. 2 Cost. La Corte costituzionale, infatti, negli anni ’60 del secolo scorso ha adottato per l’ermeneutica della Legge fondamentale della Repubblica italiana i canoni della dottrina di Schmitt (secondo il quale, in ultima analisi, è la società regola per la Costituzione, non la Costituzione regola della società). Intendiamoci: i canoni di Schmitt sarebbero applicabili (e la Corte costituzionale li applicò) anche se la «lettura» della Costituzione fosse fatta secondo la dottrina di Kelsen; anzi, questa dottrina, favorisce in maniera «scientifica» la «decostruzione» del matrimonio e della famiglia «naturali». Quello che va messo in discussione, quindi, è il «razionalismo giuridico», il quale fa violenza all’ordine naturale delle «cose» e al senso umano comune.

Quali forze, ideologiche e non solo, promossero in Italia il divorzio e, in generale, l’attacco dissolutore alla famiglia? Quale fu la risposta dei cattolici?

Il divorzio in Italia fu promosso da coloro (la stragrande maggioranza degli Italiani) che si ispiravano più o meno consapevolmente all’ideologia liberale. Il che non significa che esso sia stato propugnato solamente da coloro che si riconoscevano nel Partito Liberale Italiano (Baslini del PLI fu, insieme con il social-radicale Fortuna, uno dei firmatari della Proposta di legge, che intendeva introdurre il divorzio nell’ordinamento giuridico repubblicano). Fu propugnato – il divorzio – trasversalmente da movimenti e da partiti diversi: dai Radicali (ovviamente), dai Socialdemocratici (che coniarono il significativo slogan: «Liberi di rimanere uniti»), dai Socialisti, dai Comunisti (anche se Marx, sia pure incoerentemente, fu, almeno in una fase del suo pensiero, contrario al divorzio), da coloro che sostenevano la sovranità (intesa come supremazia) sia dello Stato sia del popolo. Fu sostenuto anche da una parte rilevante della Democrazia cristiana in nome della dottrina del «personalismo contemporaneo», la quale è una forma di radicale liberalismo. Concorsero alla sua affermazione anche «uomini di Chiesa», i quali condivisero e insegnarono (e, quindi, contribuirono alla sua diffusione) che la libertà per essere tale deve essere quella «negativa» ovvero che la libertà per essere tale deve essere regolata solamente dalla libertà e, perciò, da nessun criterio.

I cattolici si divisero. Persino coloro che si pronunciarono «contro», lo fecero generalmente per ragioni non metafisiche, cioè per l’intrinseco ordine naturale del matrimonio (è il caso di Fanfani, allora segretario nazionale della DC). Del resto la Costituzione da loro entusiasticamente votata nel 1947, «imponeva» il suo riconoscimento come sentenziò successivamente la Corte costituzionale. La Costituzione, in altre parole, fu ed è un fattore della secolarizzazione.

In un quadro già devastato dall’introduzione del divorzio, nel 1975 viene modificato radicalmente il diritto di famiglia snaturando l’ordinamento giuridico della societas domestica sino a dissolverla (almeno potenzialmente). Professore, può sinteticamente presentare il “nocciolo rivoluzionario” della Riforma del diritto di famiglia?

L’introduzione del divorzio ha segnato l’evizione del matrimonio dall’ordinamento giuridico italiano. Carlo Francesco D’Agostino, a questo proposito, sostenne che l’introduzione del divorzio impediva di contrarre matrimonio. L’affermazione, pur evidente, non è facile da capire. Essa, però, è basata sulla considerazione da Lei fatta con la domanda: il matrimonio vero, quello cioè conforme alla sua natura, è indissolubile. Se si «annulla» legalmente la sua indissolubilità esso è cestinato.

La Legge n. 151/1975 «aggrava» la sovversione dell’ordine giuridico naturale del matrimonio; sovversione operata dall’introduzione del divorzio. Ciò è la conseguenza naturale dell’eliminazione del necessario principio formale richiesto dalla famiglia come da ogni altra società naturale. La Legge n. 151/1975 introduce, infatti, – è la conseguenza dell’eliminazione del principio formale operata – una diarchia che in realtà è anarchia, perché com’è stato osservato (cfr. F. Marino, La disgregazione della famiglia. Appunti sulla riforma e sulle sue applicazioni (Legge 19 maggio 1971 n. 151, in Aa. Vv., Questione cattolica e questione democristiana, Padova, Cedam, 1987, pp, 213-214) «in una società di due membri, qual è il matrimonio, la diarchia equivale all’anarchia».

Se, poi, ognuno dei coniugi ha il «diritto» di fissare la residenza e il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede dei propri affari ed interessi, la coabitazione dei coniugi diventa una scelta arbitraria. Ancora più grave, però, è la nuova previsione di legge in tema di separazione, non più pronunziabile solamente in base a colpe ma anche su fatti ritenuti rilevanti in quanto renderebbero intollerabile la prosecuzione della convivenza. La cosa da sottolineare è il fatto che la intollerabilità, secondo alcuni autori, sussisterebbe anche in presenza della sola volontà di uno dei due coniugi di non continuare la convivenza.

Altrettanto grave è, inoltre, il previsto intervento dello Stato nelle scelte dei coniugi in caso di dissenso fra marito e moglie circa l’affidamento e il mantenimento dei figli e la fissazione della residenza, nonché circa la gestione degli affari essenziali.

La Legge n. 151/1975 rappresenta, pertanto, un’evoluzione della Rivoluzione, intesa come rifiuto di riconoscimento e rispetto dell’ordine ontico «dato».

La legge n. 151/1975 fu approvata dal Parlamento a larghissima maggioranza con la sola astensione del Movimento Sociale Italiano e, in generale, fu accolta entusiasticamente dal “mondo cattolico” italiano. Come si può spiegare una simile complicità della DC e del “mondo cattolico” al processo di dissoluzione della famiglia? Stupidità, ingenua miopia o peggio?

La cosiddetta Riforma del diritto di famiglia del 1975 fu favorita (rectius, fu accelerata) dall’esito del referendum sul divorzio del 1974. Gli estensori furono professori universitari di diritto di stretta fede ed osservanza democristiana. Il «nuovo diritto di famiglia» è ipotecato (e, quindi, caratterizzato) da un forte individualismo, caratteristica dell’Occidente contemporaneo e premessa per la sovversione dell’ordine naturale delle «cose» e, quindi, come si è accennato, anche del matrimonio.

L’esito della votazione della Proposta di legge (che diventerà la Legge n. 151/1975) conferma quanto si è detto: la stragrande maggioranza degli Italiani (e, quindi, del Parlamento della Repubblica italiana) era impregnata da una cultura lato sensu protestante, non contrastata nemmeno dai cattolici. La «liberazione» giuridica operata, dapprima, con l’introduzione del divorzio e, poi, con l’approvazione del «nuovo diritto di famiglia» registrò un diffuso entusiasmo. Non si previdero (talvolta dolosamente si ignorarono) le inevitabili conseguenze negative, cui avrebbe portato successivamente questa riforma come non si erano comprese, ancor prima, le conseguenze del «personalismo contemporaneo», fatto proprio dai democristiani (a partire soprattutto dal tempo dell’Assemblea costituente).

Per quel che riguarda il Movimento Sociale Italiano debbo dire che esso fu «ufficialmente» contrario al divorzio. Esso, però, a tal fine (soprattutto per «aiutare» Fanfani) si pronunciò «contro» nel nome di un plebiscito anticomunista. Non interessavano altre ragioni e, soprattutto, non si comprese che prima ancora del comunismo era necessario combattere il liberalismo sia per evitare l’introduzione del divorzio sia per sottolineare l’inaccettabilità (sul piano razionale) del «nuovo diritto di famiglia». L‘opposizione del MSI, quindi, era (anche al di là delle intenzioni) puramente di facciata anche se pensata in funzione operativa.

Leggendo il testo della Riforma si ha la chiara impressione di trovarsi innanzi ad un documento ideologicamente riconducibile al «personalismo contemporaneo» che Lei ha studiato soprattutto sotto il profilo politico e giuridico. Ciò spiegherebbe il ruolo svolto in Parlamento dalla DC, l’approvazione entusiastica del “mondo cattolico” e la larghissima convergenza parlamentare in nome della necessità di rivedere i Codici per conformarli alla Costituzione (personalista). Mi corregga se sbaglio …

Non si sbaglia affatto. Quanto affermato precedentemente è la prova della necessaria condivisione delle Sue affermazioni. Mi permetto, però aggiungere una considerazione. L’Italia laicista e anticlericale dell’Ottocento e del primo Novecento, la cosiddetta «Terza Italia», non aveva legiferato «contro» la famiglia. I Codici del Regno d’Italia, pur con molti limiti, erano orientati a sostegno dell’ordine naturale a proposito di matrimonio e famiglia. Riaffermo e sottolineo: la sovversione «giuridica» avviene, a questo proposito, con la Costituzione repubblicana, cui venne data coerente attuazione con la legislazione ordinaria della seconda metà del Novecento e (ovviamente) con la conseguente giurisprudenza della Corte costituzionale. Pietro Giuseppe Grasso, decano dei giuspubblicisti italiani, lo ha dimostrato con un’analisi scientifica molto interessante, raccolta nel suo volume Costituzione e secolarizzazione (Padova, Cedam, 2002).

Il personalismo, dunque, è l’opzione ideologica alla base della depenalizzazione dell’adulterio, dell’introduzione del divorzio e della Riforma del ’75. Il personalismo giuridico è, quindi, a suo avviso la matrice ideologica anti-giuridica della dissoluzione di matrimonio e famiglia in Italia. Chi comprese il pericolo? Chi vi si oppose? Chi invece ne fu complice?

Il pericolo fu compreso da pochi, pochissimi. Con lungimiranza (nel 1938) esso venne denunciato da Reginaldo Garrigou Lagrange, un padre domenicano lucidissimo nelle sue analisi. Negli anni precedenti l’Assemblea costituente (nel 1943) esso (ma solo indirettamente) venne indicato persino da Giorgio La Pira che successivamente (nel 1947) cambiò inaspettatamente, improvvisamente e immotivatamente parere. Nell’immediato secondo dopoguerra l’opposizione venne da Carlo Francesco D’Agostino e, sia pure in maniera «oscillante» e rimanendo sul piano teorico, da alcuni Gesuiti de «La Civiltà Cattolica» (penso, per esempio, a padre Antonio Messineo che denunciò il «naturalismo» di Maritain). «La Civiltà Cattolica» di quegli anni, però, dovette barcamenarsi: si oppose all’applicazione della Costituzione pur sostenendo il partito dei cattolici che l’avevano approvata. Era questa – com’è noto – la strategia di Pio XII, cui Papa Pacelli ritenne di ricorrere (e, quindi, adottò), non avendo ottenuto per l’Italia una Costituzione cristiana. Sulla questione rinvio alla Introduzione al mio volume De Christiana Republica (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004).

Nel quadro di un impegno politico cattolico per la “re-instaurazione” dell’ordine naturale-cristiano, è possibile tracciare un percorso di restaurazione giuridica del matrimonio e della famiglia nell’ordinamento italiano? Cosa sarebbe necessario attuare per operare una simile ricostruzione?

Impegnarsi per un ordinamento conforme al diritto naturale classico è un dovere. Come perseguire questo fine è questione complessa. Essa richiede l’elaborazione di una strategia che tenga conto di diversi fattori.

In questo momento storico, considerando la situazione della società italiana, i legami internazionali, le culture egemoni soprattutto nel campo politico, l’impresa non è facile. Anzi, essa potrebbe apparire utopistica. Utopistica, però, non è.

Innanzitutto è necessario un forte impegno culturale e un programma di azione formativa. Ne hanno bisogno tutti, in particolare i cattolici. Anche quelli che a parole sono a favore dell’ordine naturale, ma di fatto e con diverse motivazioni appoggiano il «male minore», ove per «male minore» intendono le dottrine e le prassi conservatrici. A parole, cioè, sono anti-rivoluzionari; di fatto sostengono le premesse della Rivoluzione, cioè della sovversione. Com’essa si è effettivamente affermata. Penso a coloro che difendono l’Occidente contemporaneo fino al punto di abbracciare esplicitamente ed entusiasticamente l’«americanismo» (sia pure declinato secondo una versione non progressista) oppure ai semplici nostalgici dei tempi andati.

È necessario, poi, evitare l’errore di molti che ritengono sufficiente la restaurazione politica del microsociale «ordinato»: per esempio la difesa della vita e di ciò che rimane della famiglia. Questo impegno è buono ma assolutamente insufficiente. L’ordine naturale richiede una restaurazione integrale. La famiglia, per esempio, non regge a lungo in un contesto giuridico relativistico o assolutamente positivistico. Perciò è necessario un impegno a 360°: dalla famiglia alla comunità politica (quella che con imprecisione linguistica e concettuale chiamiamo Stato). La schizofrenia è (almeno) virtualmente dissolutrice anche dei residui dell’ordine politico-giuridico naturale.

Per la restaurazione giuridica del matrimonio e della famiglia è attualmente necessario un impegno che secondo il giudizio di Luigi Taparelli d’Azeglio richiede il «pianto di generazioni», ovvero sacrifici enormi, costante impegno e consapevolezza di un doveroso lavoro per il futuro.

La restaurazione giuridica del matrimonio e della famiglia postula riforme sociali radicali: dall’organizzazione del lavoro all’insegnamento, dallo stile di vita (attualmente essenzialmente consumistico) alla revisione della programmazione edilizia e alla politica economico-finanziaria. Il cambiamento richiesto, quindi, investe molti settori.

Per questo è necessario un impegno concreto, chiaro nelle premesse e determinato nel perseguimento delle finalità.

Restaurare la famiglia in tutta la sua naturale consistenza giuridica implica anche notevoli ricadute politiche. Il già da Lei citato Carlo Francesco D’Agostino, rifacendosi a esempi molteplici nella Cristianità, pensò l’elettorato attivo come familiare e non individuale. Per la Dottrina sociale della Chiesa l’educazione e l’istruzione della prole è competenza dei genitori (non dello Stato) così come è competenza familiare gran parte di ciò che oggi si dice Welfare. L’economia è, persino etimologicamente, affare di famiglia. Il diritto romano ci parla di una vera e propria giurisdizione penale in capo al pater familias (tribunale maritale), etc. La famiglia è vera e propria societas giuridicamente ordinata, con una propria natura e dunque un proprio fine, con una propria gerarchia interna, con ruoli e doveri definiti, è soggetto politico attivo nella res publica. Ci aiuta a capire cos’è veramente la famiglia?

Mi fa una domanda che fa tremar le vene e i polsi. La domanda denuncia già come attualmente viviamo nell’eone della Rivoluzione francese. È necessario uscire da questo eone anche se ciò ha un costo. L’uscita impone aperture intellettuali, scelte morali conformi all’etica, non pochi sacrifici. Il sacrificio, del resto, è richiesto da ogni serio cambiamento. È necessaria una società «organica» (che è il contrario sia dell’individualismo sia del totalitarismo), la quale rivaluti la responsabilità, che consideri che i diritti sono esercizio di doveri, che si convinca che l’uomo (lo insegnò Leone XIII) deve essere provvidenza a a se stesso.

Delicato è il discorso riguardante le questioni penali. Anche il pater familias dev’essere sottoposto al diritto; innanzitutto a quello naturale. La comunità politica è chiamata a controllare l’uso corretto delle diverse potestates sociali. Va osservato, poi, che lo ius corrigendi è un potere penale esercitato sui minori e sugli incapaci da parte di chi nella famiglia è titolare del dovere di educare (e, perciò, chiamato ad esercitarlo): educare significa far crescere le persone secondo il loro intrinseco fine. Perciò esse vanno «indirizzate» con la parola e con l’esempio. Talvolta anche con prescrizioni. La conservazione dello ius corrigendi è una contraddizione (radicale e inevitabile) del liberalismo, a partire da quello di Locke. Il che dimostra l’assurdità di questa dottrina, che in mille modi permea la società contemporanea.

Attraverso l’opzione personalista si è dissolta la famiglia per “adeguarla” al sistema liberal-democratico (alla Costituzione). Restaurare la famiglia in tutta la sua naturale consistenza giuridica richiede, pertanto, come condizione previa la negazione del sistema liberal-democratico (della Costituzione). Vede all’orizzonte forze culturali (cattoliche?) consapevoli della posta in gioco e intenzionate a lottare per restaurare la famiglia anche “contro il sistema”? Che fare per favorire una simile presa di coscienza e un movimento culturale e politico adeguato al fine?

Non vedo all’orizzonte forze culturali, tanto meno forze cattoliche, consapevoli del problema. Sia perché alcuni si limitano all’impegno entro orizzonti ristretti (per esempio, a lottare contro la pornografia, il gender, etc.), sia perché ci sono associazioni – anche rilevanti socialmente – che rivendicano esclusivamente «spazi sociali» (per esempio «Comunione e Liberazione») ma entro il sistema liberal-democratico, sia e soprattutto perché i «cattolici» sono generalmente preoccupati di inserirsi nel sistema, per contenere – dicono – lo sviluppo integrale degli errori: non combattono, quindi, gli errori. Combattono solamente alcune loro conseguenze. Sono conservatori, in ultima analisi, di un sistema sbagliato. Talune istituzioni e talune associazioni dichiarano apertamente di aver adottato un metodo «clericale» (intendendo il «clericalismo» secondo la definizione datane da Augusto Del Noce e, cioè, come costante ricerca di salire sul presunto treno della storia). L’adozione di questo metodo non porta ad alcun rinnovamento. Esso segna, anzi, la sconfitta certa, poiché sin dall’inizio si offre il consenso a chi sta nell’errore per conservare l’errore.

Aggiungo che, a mio avviso, la restaurazione della famiglia, naturalmente ordinata, comporta sì la negazione del sistema liberal-democratico, non necessariamente della democrazia in sé. Mi spiego: il sistema liberal-democratico postula il consenso come adesione meramente volontaristica a un progetto qualsiasi. In altre parole, esso rivendica la sovranità del popolo come condizione di legittimazione dell’esercizio del potere politico. Così, per esempio, sarebbe legittimo solo l’ordinamento giuridico positivo, in quanto esso troverebbe fondamento nelle opinioni e nelle scelte delle contingenti maggioranze (in taluni casi, nell’opzione unanime). Ogni imposizione è considerata razionale in quanto voluta (lo sentenziò apertis verbis Rousseau, il padre della democrazia moderna). L’istituto della famiglia (e non solo la famiglia, in verità), in questo caso, è regolamentato dal diritto «creato» e «voluto» da coloro che vi si sono, poi, sottomessi. Quindi non sarebbero legittime critiche all’ordinamento giuridico positivo dello Stato. Nemmeno alla Legge n. 151/1975, cioè alla Riforma del diritto di famiglia di cui stiamo parlando.

La democrazia liberal-democratica è quella «moderna», che è considerata – lo ripeto – fondamento del potere e legittimazione del suo esercizio. Esiste, però, anche la democrazia come metodo. È, questa, la democrazia «classica», quella individuata, per esempio, da Aristotele e «difesa» secoli dopo da Sinibaldo de’ Fieschi, secondo il quale «per plures melius veritas inquiritur». Condizione per la legittimità dell’esercizio del potere è la verità, non il numero. E la verità riguarda anche il matrimonio e la famiglia.
Don Samuele Cecotti - Fonte

4 commenti:

Anonimo ha detto...

La gioventù trumpiana. I “cristiani” che “difendono Dio”.

https://www.politico.com/news/2025/10/14/private-chat-among-young-gop-club-members-00592146

Laurentius ha detto...

16 ottobre 1793 ✝️ 16 ottobre 2025

Ricordando il martirio di S. M. la Regina Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena

Deus, indulgentiárum Dómine : da ánimæ fámulæ Tuæ
Mariæ-Antoniæ Reginæ,
cuius anniversárium depositiónis diem commemorámus,
refrigérii sedem, quiétis beatitúdinem et lúminis claritátem.

"La Couronne de France, en son incarnation, quittant, après treize siècles d’éclat, la scène de ce monde, avec toute la majesté crépusculaire du soleil, lors de ses couchers du début de l’automne."

"La Corona di Francia, nella sua incarnazione, lascia, dopo tredici secoli di splendore, il
palcoscenico di questo mondo, con tutta la maestosità crepuscolare del sole, durante i suoi primi tramonti autunnali."

Révérend Père Jean Charles-Roux
in « Louis XVII – La Mère et l’Enfant martyrs », ed. du Cerf, 2007

⚜️ ⚜️ ⚜️

Anonimo ha detto...

Scrivere in modo più semplice, non é possibile? In che cosa Maritain ed il personalismo di Monnier sbagliano?

LA "NON PACE": ha detto...

La cosiddetta "pace di Sharm" non appartiene all’orizzonte del diritto delle genti, poiché non ristabilisce l’ordine violato, dal momento che lo cristallizza nella forma della subordinazione. Essa rappresenta la trasformazione della forza in regola, la metamorfosi della guerra in governance. Dietro il linguaggio della ricostruzione, della cooperazione e della stabilità, si cela la logica dell’amministrazione permanente del conflitto. L’ordine che essa proclama non è fondato sulla giustizia, quanto sull’efficienza; non nasce dalla verità delle cose, bensì dall’equilibrio del potere. È una pace che pacifica soltanto in apparenza, poiché mantiene il popolo della Striscia in uno stato di tutela amministrata, privo di effettiva libertà e di reale autorità.
Daniele Trabucco