Esiste un antico paradosso: la sobria ebrietas,
la sobria ebbrezza del culto sacro.
Nel post Lettera aperta di Mons. Bux contro il Card. Cupich [vedi in calce nostra traduzione da un art di Pentin qui -ndT], un commentatore ha sollevato la questione della "sobrietà liturgica". Il Card. Cupich, nel suo intervento, ha fatto riferimento alla "sobrietà" due volte.
Il rinnovamento del nostro culto è stato perseguito in linea con il desiderio dei Padri conciliari di presentare al mondo una Chiesa definita non dalle apparenze del potere mondiale, ma caratterizzata da sobrietà e semplicità, che le consentano di parlare alle persone di questa epoca in un modo che assomiglia più da vicino al Signore e le consentano di assumere in modo nuovo la missione di proclamare la buona novella ai poveri.
[…]Con il recupero dell'antica sobrietà del Rito romano, l'Eucaristia torna ad essere il luogo di autentica pace e solidarietà con i poveri in un mondo frammentato.
È altamente improbabile che "i poveri" (chiunque essi siano) siano più attratti da ciò che la Chiesa ha da offrire attraverso paramenti sacri squallidi, un'architettura banale e una musica orribile di quanto potrebbero esserlo da una bella chiesa, da paramenti splendidi e dalle grandi opere del tesoro di musica sacra della Chiesa. E i non poveri (chiunque essi siano) sarebbero più motivati nel loro servizio ai "poveri" attraverso ciò che è squallido, banale e orribile?
Ma approfondiamo il concetto di "sobrietà" così come è stato utilizzato nel corso dei secoli. È plausibile che questa parola non significhi ciò che egli pensa significhi nel contesto liturgico visto attraverso i secoli.
Esiste un antico paradosso: la sobria ebrietas, la sobria ebbrezza del culto liturgico sacro.
Ciò fa luce sulla risposta di Mons. Bux al Cardinale Cupich.
Una riforma autentica non appiattisce mai il sacro, che è ciò che Cupich promuove. La liturgia eleva e chiarisce. Non annacqua. Il calice offerto da Dio – che riceviamo e restituiamo in adempimento della virtù di Religione – inebria della bellezza che riflette la verità.
Il piccolo ossimoro latino "sobria ebrietas" sembra uscito da Chesterton, eppure è molto più antico. Indica un'intuizione biblica e patristica secondo cui la grazia rende l'uomo "ubriaco" senza distruggerne la ragione, rapito in Dio ma ancora più lucido di prima. Questo è il risultato di una partecipazione piena, consapevole e effettiva (ovvero di una ricettività attiva) al culto sacro.
La Scrittura fornisce l'immagine centrale. Nel Salmo 35(36):9 della Vulgata preghiamo:
inebriabuntur ab ubertate domus tuae,
et torrente voluptatis tuae potabis eos
RSV: Sal 36:8 – Essi saranno inebriati dall'abbondanza della tua casa,
e tu li disseterai al torrente delle tue delizie.
La formulazione è forte. Dio non si limita a “rinfrescare” i suoi amici, ma li rende inebriati dalla sua presenza. Questo non porta confusione o incertezza, ma piuttosto: “ apud te fons vitae, et in lumine tuo videbimus lumen ” (v. 10), “presso di te è la sorgente della vita, e alla tua luce vedremo la luce”. Espande la mente con chiarezza.
Il Nuovo Testamento presenta i poli negativo e positivo in un'unica frase. San Paolo esorta gli Efesini (5,8):
Et nolite inebriari vino, in quo est luxuria, sed implemini Spiritu Sancto
“Non ubriacatevi di vino, nel quale c’è dissolutezza, ma siate ricolmi di Spirito Santo.”
Il contrasto non è tra "sentire qualcosa" ed essere piatti e sobri. È tra un tipo di ebbrezza, che dissolve l'uomo nella sensualità, e un altro, in cui egli è riempito dallo Spirito, parlando " in psalmis et hymnis et canticis spiritualibus " (Ef 5,19). Il che, naturalmente, è liturgico.
A Pentecoste la folla fraintende la gioia degli apostoli. ““ἕτεροι δὲ χλευάζοντες ἔλεγον ὅτι γλεύκους μεμεστωμένοι εἰσίν”” (Atti 2,13), «altri dicevano beffardamente: sono sazi di vino nuovo». Pietro risponde:
οὐ γὰρ ὡς ὑμεῖς ὑπολαμβάνετε οὗτοι μεθύουσιν, ἔστιν γὰρ ὥρα τρίτη τῆς ἡμέρας«Questi non sono ubriachi come voi supponete, perché è la terza ora del giorno». Sono «pieni», ma dello Spirito che è stato appena «riversato» su ogni carne (Atti 2:17).
Da questa matrice biblica i Padri hanno coniato il termine sobria ebrietas. Gli studiosi patristici fanno risalire il tema almeno a Filone e Origene, che già parlano di un'“estasi” in cui l'anima esce da se stessa verso Dio senza perdere la ragione.
Ambrogio di Milano, tuttavia, è il grande divulgatore dell'espressione nell'Occidente latino. Studi moderni sulla sua predicazione eucaristica notano che egli usa esplicitamente il termine "sobria ebrietas" nella sua esposizione dei Salmi e che ama parlare di "bona" o "spiritalis ebrietas" in relazione al calice.
Un testo chiave è la lettura eucaristica del nostro versetto salmico fatta da Ambrogio. Egli torna ripetutamente a "inebriabuntur ab ubertate domus tuae" come immagine del calice che rallegra senza far vacillare i piedi. In un sermone sui Salmi, spiega, in un passo conservato nella traduzione,
Ecco il cuore della sobria ebrietas : una divina “ubriachezza” che rende la mente più sobria, non meno.Bona ergo ebrietas, quae non dissolvit animum sed erigit; quae non solvit, sed colligit sensus. Inebriari enim te volo deliciis domus Dei. ( Esp in Sal. 35, 46–47)“Un'ebbrezza di questo tipo è buona e riempie il cuore di gioia senza far vacillare i piedi. Sì, è una buona ebbrezza. Rende i passi più stabili e rende sobria la mente.”
Ambrogio identifica esplicitamente il calice eucaristico con il calix inebrians del Salmo 22(23):5 in De sacramentis , 5,3, 17:
«Accipe quod ait Propheta: 'Calix inebrians quam praeclarus est.'Calix iste est qui inebriat non corporis ebrietate sed mentis.“Ascolta ciò che dice il profeta: 'Quanto è glorioso il calice che inebria!'Questo calice è quello che inebria non con l'ubriachezza del corpo, ma con quella della mente.”
Ambrogio usa l'espressione esatta sobria ebrietas (a volte sobria ebrietas Spiritus ) quando contrappone l'ebbrezza data dallo Spirito al vino. L'esempio più chiaro è in Exp Evangelii secundum Lucam, 7, 177:
“Sobria ebrietas est, quae mentem perducit ad modum, non ad vertiginem;
ebrietas Spiritus, non vini”.
“È un'ubriachezza sobria, che conduce la mente alla giusta misura, non alla vertigine;
un'ebbrezza dello Spirito, non del vino.”
Lo stesso Ambrogio dona alla Chiesa latina uno dei suoi classici inni di luce, Splendor paternæ gloriæ, cantato alle Lodi. Non usa l'espressione sobria ebrietas, eppure il motivo è presente ovunque. L'inno inizia così:
Splendor paternae gloriae,
de luce lucem proferens,
lux lucis et fons luminis,
diem dies illuminans.
Cristo è lo “Splendore della gloria del Padre”, la “Luce da luce”, la “sorgente di luce”, che fa risplendere ogni giorno. La seconda strofa lo chiama verus sol, il “vero sole”, e chiede:
Verusque sol, illabere
micans nitore perpeti,
iubarque Sancti Spiritus
infunde nostris sensibus.
“Sole vero, scendi, risplendendo con fulgore senza fine e riversa nei nostri sensi lo splendore dello Spirito Santo.”
È la stessa logica di Efesini 5. Non riempitevi di vino, che offusca i sensi, supplicate il “vero sole” di riversare in voi lo splendore dello Spirito, che illumina i sensi. I lettori di Ambrogio, già immersi nel Salmo 35(36), ascoltano la preghiera per un riempimento che sia ebbrezza di luce.
I mistici medievali, d'Oriente e d'Occidente, giocano con la stessa combinazione. Gli scrittori influenzati da Gregorio di Nissa e dal corpus dionisiaco chiamano questo stato estatico sobria ebrietas, collegandolo al biblico ἔκστασις o excessus mentis, l'“uscir di mente” che non distrugge, ma appaga la mente.
Tommaso non usa la frase esatta, ma in ST II-II, q. 168, descrive la gioia nello Spirito Santo come un “traboccamento” affettivo ( redundantia ) che perfeziona la mente lasciandola pienamente razionale, un chiaro fondamento scolastico per la nozione di sobria ebrietas.
Molti autori che commentano il Cantico dei Cantici seguono lo stesso percorso.
Nel suo libro Lo spirito della liturgia, Papa Benedetto XVI affronta il tema della sobrietà in una discussione sulla musica liturgica:
La Tradizione della Chiesa ha questo in mente quando parla della sobria ebbrezza provocata in noi dallo Spirito Santo. C'è sempre una sobrietà ultima, una razionalità più profonda, che resiste a qualsiasi declino nell'irrazionalità e nell'eccesso. Possiamo vedere cosa questo significhi in pratica se guardiamo alla storia della musica.Non sta parlando di Joncas e Haas. E:
È soprattutto nella musica sacra che si realizza la “sobria ebbrezza” della fede, un’ebbrezza che supera tutte le possibilità della mera razionalità. Ma questa ebbrezza rimane sobria, perché Cristo e lo Spirito Santo sono intimamente legati, perché questa parola ebbra rimane totalmente all’interno della disciplina del Logos, in una nuova razionalità che, al di là di ogni parola, serve la Parola primordiale, il fondamento di ogni ragione. È una questione su cui dobbiamo tornare.
Nella spiritualità cattolica la sobria ebrietas segna quindi un insieme concreto di esperienze.
All'altare il sacerdote prende il calice che è "calix salutaris", il "calice della salvezza", e i fedeli pregano di essere "inebriati" dall'amore che scaturisce dal costato trafitto di Cristo piuttosto che dallo spirito del tempo.
Ambrogio può dire dell'Eucaristia, in De sacramentis 5, 4, 25: « Christus mihi cibus, Christus est potus, caro Dei cibus mihi et Dei sanguis est potus », «Cristo è il mio cibo, Cristo è la mia bevanda, la carne di Dio è il mio cibo e il sangue di Dio è la mia bevanda», e che «ogni giorno mi viene servito Cristo».
Ricevere quel cibo con fede significa entrare nella “buona ebbrezza” di cui parla.
A un livello più profondo, la frase indica ciò che accade quando la grazia afferra l'intelletto e gli affetti. L'anima esce da se stessa nell'amore, assapora qualcosa della dolcezza divina, eppure le sue facoltà non vengono abolite.
Al contrario, l’uomo “ubriaco” dello Spirito comincia a vedere con nuova chiarezza che “ omnis homo mendax ” (Sal 115,11), “ogni uomo è bugiardo”, e che solo Dio è fedele.
In breve, il mondo offre un'“ebbrezza” che intorpidisce la coscienza e alla fine lascia l'uomo vuoto. La liturgia, giustamente amata, promette qualcosa di più elevato, la sobria ebrietas, la sobria ebbrezza di coloro che “ inebriabuntur ab ubertate domus Dei ”, e le cui menti sono rese chiare perché sono “ impleti Spiritu Sancto ”.
Quale tipo di "ebbrezza" deriva dall'adeguamento dei riti liturgici ai programmi sociali? Dall'immanentismo e dall'orizzontalismo?
Quale tipo di “ebbrezza” deriva dall’adeguare i riti liturgici a un incontro con il mistero che è tremendum et fascinans? Trascendente e verticale?
Quale delle due fornirebbe il motivo più profondo e duraturo basato sulla carità correttamente intesa per quanto riguarda le opere di misericordia spirituale e corporale verso i poveri di corpo e di spirito?
Con la lente della sobria ebrietas torniamo al “camminare insieme” di Bux e Cupich.
Nella sua lettera, Mons. Bux corregge l'affermazione del Card. Cupich secondo cui la riforma liturgica postconciliare mirava principalmente a creare "una nuova immagine... più semplice e sobria, che abbracciasse l'intero popolo di Dio... più somigliante al suo Signore che alle potenze mondane".
Bux insiste sul fatto che questa caratterizzazione distorce l'intento della Sacrosanctum Concilium , che richiede che "i riti siano 'distinti' da una nobile semplicità" proprio perché riflettono la maestà di Dio. Sostiene che ridurre la liturgia a un'estetica della povertà o della solidarietà con i poveri trascura la dimensione trascendente e sacrificale del culto, indebolendo così la "sobria ebbrezza" della gioia divina che la vera liturgia coltiva. In breve, Bux difende il Rito tradizionale come un'offerta scenica e maestosa che conduce i fedeli nel mistero di Dio, non in un programma sociologico di "solidarietà".
Infine, riguardo alla citazione da Sacrosanctum Concilium fornita da Cupich – “i riti dovrebbero essere 'distinti' da una nobile semplicità” – un altro commentatore sottolinea che se guardiamo all'originale latino troviamo ritus nobili simplicitate fulgeant come “I riti dovrebbero risplendere per una nobile semplicità”. Lewis e Short affermano che fulgeo è “lampeggiare, brillare, brillare, abbagliare, luccicare, brillare (sin. splendeo)” e tropologicamente come “brillare, luccicare; essere cospicuo, illustre (raro e per lo più poeta)”.
Questo non è lo stesso di "essere distinto da".
Gli argomenti sociologici mirano a estinguere piuttosto che a distinguere.
P. John Zuhlsdorf
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Esperto di liturgia ed ex consultore del Dicastero per la dottrina della fede, don Nicola Bux ha risposto a un articolo pubblicato il 22 ottobre da Vatican News in cui il card. Blase Joseph Cupich aveva criticato la Santa Messa tradizionale, sostenendo che si tratta «più uno spettacolo che una partecipazione attiva di tutti i battezzati» (vedi).
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A Sua Eminenza il card. Blase Joseph Cupich
Vostra Eminenza Reverendissima,
«ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini» (1 Cor 4,9). Questa affermazione di San Paolo Apostolo descrive l’identità del Cristianesimo, sia come proclamazione del Vangelo che come culto pubblico della Chiesa. Concentrandosi su quest’ultimo aspetto, si può giustamente affermare che la liturgia è lo spettacolo offerto al mondo da coloro che adorano Cristo, l’unico Signore del cosmo e della storia, al quale appartengono e non al mondo. Ciò è richiamato dall’espressione «servizio liturgico», che è davvero appropriata – a differenza del termine «animazione», ora in voga – come se il culto non fosse già animato da Gesù Cristo e dallo Spirito Santo.
Ciò divenne evidente dopo le persecuzioni, perché i Cristiani non bruciavano incenso all’imperatore romano, ma a Gesù, il Figlio di Dio. La liturgia cattolica ha quindi caratteristiche regali e imperiali – ce lo insegnano le liturgie orientali – perché il culto di Dio si oppone a qualsiasi culto dei governanti mondani del momento.
Non è vero che il Concilio Vaticano II desiderasse una liturgia povera, poiché chiede che «i riti splendano per nobile semplicità» (costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 34), poiché essi devono parlare della maestà di Dio, che è la nobile bellezza stessa, e non delle banalità mondane. La Chiesa lo ha capito fin dall’inizio, sia in Oriente che in Occidente. Anche San Francesco d’Assisi prescriveva che nell’adorazione fossero usati i lini e i vasi più preziosi.
Che cos’è allora la «partecipazione» dei fedeli, se non essere parte e prendere parte allo «spettacolo» di una fede che afferma Dio e quindi sfida il mondo e i suoi spettacoli profani – che sono davvero spettacolari: pensiamo alle mega-conferenze e ai concerti rock. La liturgia esprime il Sacro, cioè la Presenza di Dio; non è uno spettacolo teatrale. La partecipazione auspicata dal Concilio Vaticano II deve essere piena, consapevole, attiva e fruttuosa (ibidem, 11 e 14) – cioè una «mistagogia», un ingresso nel Mistero che avviene per preces et ritus [attraverso preghiere e riti], che, come ci ricorda San Tommaso d’Aquino, devono elevarci il più possibile alla verità e alla bellezza divine (quantum potes tantum aude); o, nelle parole dell’allora padre Robert Francis Prevost O.S.A., Priore generale dell’Ordine di Sant’Agostino: «La vera missione della Chiesa è quella di introdurre le persone alla natura del mistero come antidoto allo spettacolo. Anche la vita religiosa svolge un ruolo importante nell'evangelizzazione, indicando agli altri questo mistero, attraverso la vita fedele ai consigli evangelici. Di conseguenza, l’evangelizzazione nel mondo moderno deve trovare mezzi adeguati per riorientare l’attenzione del pubblico, spostandola dallo spettacolo al mistero» (11 maggio 2012). L’usus antiquior del rito romano svolge questa funzione; altrimenti non avrebbe potuto resistere alla secolarizzazione del Sacro che è entrata nella liturgia romana, al punto da far credere alla gente che fosse stata voluta dallo stesso Concilio Vaticano II. Questa è l’identità e la missione della Chiesa.
Infine, Eminenza, la invito a considerare che la liturgia, fin dai tempi antichi, era solenne per convertire molti alla fede, e per questo deve avere anche un valore apologetico e non imitare le mode del mondo, come ci ricorda San Cipriano (applausi, danze ecc.), fino alle «deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile» che sono entrate nel novus ordo, come ha osservato Papa Benedetto XVI. È questa l’autenticità della «sacra liturgia»; è questa l’ ars celebrandi, come dimostra l’Offertorio della Messa, che viene celebrato per le necessità del culto e per i poveri.
Pertanto, Eminenza, le chiedo di impegnarsi in un dialogo sinodale per il bene dell’unità ecclesiale!
Nel Signore Gesù.

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