Per iniziare, bisogna dire che il rito ambrosiano non l’ha inventato sant’Ambrogio: frase a effetto, questa, per dire che il complesso cerimoniale che appartiene alla comunità cristiana di Mediolanum precede l’elezione di Ambrogio sulla cattedra milanese nel 374. Del resto, se consideriamo i cataloghi episcopali, possiamo collocare attorno alla prima metà del III secolo il costituirsi di una stabile gerarchia ecclesiastica che la tradizione locale fa scaturire dal vescovo Anatalo (o Anatalone). «La Chiesa […] che viene affidata ad Ambrogio è dunque una comunità già dotata dei suoi spazi cultuali, con aspetti di disciplina rituale pienamente consolidati e alcuni testi che ai tempi di Ambrogio appaiono ormai stabilmente legati a specifici giorni dell’anno. L’Ambrosianum mysterium non nasce pertanto con Ambrogio e affonda le proprie radici nella vicenda ecclesiale che precedette Ambrogio stesso». Se svariate sono state – e sono ancor oggi – le ipotesi circa le origini storiche del rito ambrosiano, in questa sede, fatte le dovute valutazioni di sintesi, esporremo quella che a nostro parere (e non solo nostro) appare essere la congettura più esaustiva. Se tralasciamo teorie ormai sorpassate per l’avanzare degli studi come quella che riteneva la liturgia ambrosiana derivata da quella efesina; o che la identificava con la liturgia romana prima di papa Damaso (366-384); o ancora, quella che ebbe maggior credito, che le usanze cultuali milanesi del sec. IV andavano ricondotte all’uso gallicano tout court; tutto ciò premesso, oggi due sembrano essere le direttrici fondamentali:
- esso ha un’origine prettamente orientale (Duchesne, Alzati, Cattaneo);
- esso affonda le proprie radici nel rito romano (Ceriani, Battifol, Jungmann, Triacca).
Circa quest’ultima valutazione, appare assai interessante, se non addirittura dirimente nei termini, quanto Ambrogio stesso afferma, in un’opera ormai riconosciuta come ambrosiana – il De sacramentis - in sacr. 3, 5 a proposito di alcuni riti post-battesimali (si riferisce alla lavanda dei piedi che il vescovo milanese compiva nei confronti dei battezzati una volta risaliti dal fonte):
Non ignoramus quod ecclesia Romana hanc consuetudinem non habeat, cuius typum in omnibus sequimur et formam. […] In omnibus cupio sequi ecclesiam Romanam, sed tamen et nos hominis sensum habemus. Ideo quod alibi rectius servatur et nos rectius custodimus.
Questa testimonianza di prima mano afferma due cose fondamentali: la prima è che Ambrogio recepisce con ossequio la tradizione romana, entro la quale implicitamente intende collocare la ritualità della sua chiesa locale; l’altra è che egli non elimina stolidamente tutto ciò che romano non è, ma viene incontro a quella che è una tradizione locale (precedente e/o a lui contemporanea) che – egli afferma - ha tuttavia buone ragioni spirituali per mantenersi, “inculturando” in qualche modo il rito romano, pur nella preservazione dei suoi elementi costitutivi. Certamente non mancano tratti orientali in ambito cerimoniale, come p. es. i melismi del canto, il canto dei salmi con antiphonae che servivano da responsorio per i fedeli, oltre che gallicani, come p. es. alcuni elementi eucologici o il complesso sistema delle antifone nella Messa.
Dunque se non è Ambrogio a “creare” il rito che si chiama “ambrosiano”, egli certamente lo promuove massimamente, sempre più obbediente cum grano salis, a quella che egli indica come regola da osservarsi, cioè la liturgia romana. Se molto apportò Ambrogio al rito, tuttavia a noi restano pochissime testimonianze dirette della sua mano nella liturgia se si escludono gli inni certamente ambrosiani e poco altro. Comunque sia, l’impulso e l’opera liturgico-pastorale di Ambrogio fu tale che, almeno a partire dall’età di Gregorio Magno la chiesa di Milano è detta “ambrosiana” e, quantomeno dall’età carolingia, con questa qualifica viene identificata la sua liturgia. È infatti a far data da una lettera del febbraio 881 scritta da papa Giovanni VIII (872-882), che la chiesa milanese è chiamata col termine di Ambrosiana ecclesia, benché il riferimento a sant’Ambrogio comparisse già in un’epistola vergata dalla cancelleria papale di Gregorio I attorno al settembre dell’anno 600, quando dopo la morte del vescovo Costanzo, viene acclamato pastore il diacono Adeodato. In essa compaiono due locuzioni significative, che ormai senza dubbio identificano i presuli milanesi non come successori del protovescovo Anatalone, bensì di sant’Ambrogio. In un locus Gregorio squalifica il preteso successore di Costanzo, indicato dal re longobardo Agilulfo, come vicarius sancti Ambrosii indignus, mentre chiama i chierici milanesi sancto Ambrosio servientibus clericis.
Spenderò ancora alcune parole, seppur in sintesi estrema, circa l’opera di Ambrogio, a partire dalle fonti di prima mano – cioè le opere ambrosiane – anche perché tutto quanto noi sappiamo del rito così come è giunto fino a noi è presente in testimoni che non risalgono indietro oltre l’età carolingia. Ad Ambrogio è da ascriversi l’uso di portare a Milano la celebrazione quotidiana dell’Eucarestia, innovando rispetto alla ratio communis di celebrare unicamente una Messa solo in giorno di domenica o di adunanze festive, lasciando gli altri giorni all’ufficiatura salmica e innodica. Di questo fatto assai importante riporto due testimonianze molto chiare:
Stabat ad aram Dei pudoris hostia, victima castitatis, nunc capiti dexteram sacerdotis inponens, precem poscens, nunc iustae impatiens morae ac summum altari subiecta verticem: “Num melius” – inquit – “maforte me quam altare velabit, quod sanctificat ipsa velamina? Plus talis decet flammeus, in quo caput omnium Christus cotidie consecratur”.Hunc panem dedit apostolis, ut dividerent populo credentium, et hodieque dat nobiscum, quem ipse sacerdos cotidie consecrat suis verbis.
L’usanza quotidiana della Messa rispetto a quella ebdomadaria, dopo la metà del secolo, va introducendosi anche in altre grandi Chiesa metropolitane come p. es. Roma, Gerusalemme, Costantinopoli. È per di più in Ambrogio la prima attestazione dell’uso, nella chiesa milanese, del canone romano, la regola di consacrazione più antica propria dei riti latini. Riporto per esteso il lungo, ma interessante passo del De sacramentis (4, 21-27):
21. Dicit sacerdos: Fac nobis, inquit, hanc oblationem scriptam, rationabilem, acceptabilem, quod est figura corporis et sanguinis domini nostri Iesu Christi. Qui pridie quam pateretur, in sanctis manibus suis accepit panem, respexit ad caelum, ad te, sancte pater omnipotens aeterne Deus, gratias agens benedixit, fregit, fractumque apostolis et discipulis suis tradidit dicens: accipite et edite ex hoc omnes; hoc est enim corpus meum, quod pro multis confringetur. - Adverte! –22. Similiter etiam calicem, postquam cenatum est, pridie quam pateretur, accepit, respexit ad caelum, ad te, sancte pater omnipotens aeterne Deus gratias agens benedixit, apostolis et discipulis suis tradidit dicens: accipite et bibite ex hoc omnes; hic est enim sanguis meus. Vide: illa omnia verba evangelistae sunt usque ad “accipite”, sive corpus sive sanguinem. Inde verba sunt Christi: “accipite et bibite ex hoc omnes; hic est enim sanguis meus”.23. Et vide singula: “Qui pridie”, inquit, “quam pateretur, in sanctis manibus suis accepit panem”. Antequam consecretur, panis est; ubi autem verba Christi accesserint, corpus est Christi. Denique audi dicentem: “Accipite et edite ex hoc omnes: hoc est enim corpus meum”. Et ante verba Christi calix est vini et aquae plenus; ubi verba Christi operata fuerint, ibi sanguis efficitur, qui plebem redemit. Ergo videte, quantis generibus potens est sermo Christi universa convertere. […]26. Deinde quantum sit sacramentum cognosce. Vide quid dicat: quotiescumque hoc feceritis, totiens commemorationem mei facietis donec iterum adveniam.27. Et sacerdos dicit: Ergo memores gloriosissimae eius passionis et ab inferis resurrectionis et in caelum ascensionis offerimus tibi hanc inmaculatam hostiam, rationabilem hostiam, incruentam hostiam, hunc panem sanctum et calicem vitae aeternae. Et petimus et precamur, uti hanc oblationem suscipias in sublime altare tuum per manus angelorum tuorum, sicut suscipere dignatus es munera pueri tui iusti Abel et sacrificium patriarchae nostri Abrahae et quod tibi obtulit summus sacerdos Melchisedech.
Da ultimo, solo fugacemente, cito un riferimento ambrosiano in cui si segnala un fatto importante di “teologia liturgica”, diremmo oggi:
Non enim omnes vident alta mysteriorum quia operiuntur a levitis ne videant qui videre non debent, et sumant qui servare non possunt.
Faccio notare solo tre cose:
- L’altare è chiaramente “orientato ad Deum” (verisimilmente la facciata della chiesa era orientata a est), se si ritiene che a un certo punto bisogni nascondere qualcosa al popolo, altrimenti l’atto sarebbe controproducente ovvero inutile;
- quanto di più santo accade nella Messa è velato, dai diaconi o da tendaggi che coprivano il presbiterio: questo accade per i normali fedeli così come per gli eretici o pagani verso i quali sembra essere rivolto questo provvedimento;
- d’altro canto, la partecipazione dei fedeli cattolici non appare per nulla essere pregiudicata da questo atto di “velamento” né è scambiata – come si sente dire da qualche tempo a questa parte – con un banale “vedere”, per di più ideologicamente spacciato come antico o di età patristica: talora, il non vedere con gli occhi fisici acuisce una vista spirituale ancora più efficace e ricettiva.
Da questi pochi tratti – e si potrebbe continuare p. es. circa l’ordinamento delle letture, i riti battesimali e gli altri riti della Chiesa milanese – non solo comprendiamo quanto il rito ambrosiano si inserisca pienamente nella tradizione romana, ma anche quanto esso debba ad Ambrogio stesso in ordine all’inserimento del genius loci in quel medesimo filone, senza stravolgimenti o adulterazioni, ma attraverso un rispettoso processo di integrazione e di prudente valorizzazione. Cosa che è qua e là ancora rintracciabile da parte degli studiosi nella liturgia che nel corso dei secoli è venuta codificandosi fino ai giorni nostri. Ne è un esempio il canone, di cui ho sinteticamente reso ragione: non certo di mano ambrosiana (probabilmente una traduzione dal greco di età damasiana), e pur tuttavia conservato con una certa “fedeltà all’originale” da quel rito che da Ambrogio prende il nome, di contro a ulteriori mutamenti (sebbene di lieve entità) apportati nella sua redazione romana. È insomma tra le righe che è possibile evidenziare il sottile fil rouge che caratterizza fino a oggi la Chiesa milanese: ed è l’imponente figura di Ambrogio che, a partire dal rito romano, suggellerà con la sua autorità molte parti dell’antico rito romano/milanese, sottraendole a ulteriori evoluzioni (che in molte parti il rito romano ha subito) e consegnandole così alla storia come propriamente ambrosiane! Risulta pertanto importante notare, in questa sede, l’ascendenza del rito milanese rispetto al romano e la loro progressiva diversificazione senza mai perdersi di vista. Le differenze si andranno accentuando a partire soprattutto dal pontificato di papa Gregorio Magno (590-604).
In sintesi estrema, va detto che la liturgia ambrosiana – specie il rito della Messa di cui ci occupiamo – ha delle sue caratteristiche primordiali che emergono lungo la storia e sono ancor oggi evidenti:
- La profonda matrice antiariana che accompagnerà l’eucologia contro l’eresia del IV secolo, ma anche contro i suoi epigoni longobardi fino almeno all’VIII secolo, ma anche oltre. Questo comporta una spiccata fioritura di tematiche teologiche relative all’umanità di Cristo, quali la sua Incarnazione, la sua nascita verginale, la sua Passione, oltre che la conseguente venerazione per sua Madre Maria SS.: in questo senso, non è difficile ravvisare simili tematiche nella liturgia bizantina. A questo si aggiunga uno stile delle orazioni molto diverso dalla brevitas e dalla gravitas romane: evoluzioni concettuali e stilistiche contraddistinguono le antiche orazioni ambrosiane e le avvicinano in parte a quelle gallicane e ispaniche;
- l’innegabile matrice orientale antica: del resto è possibile ipotizzare che il primo nucleo di cristianesimo a Milano sia provenuto proprio dall’Oriente, come del resto i primissimi pastori Anatalone, Calimero, Mona, Mirocle. Questo in parte giustifica i tratti di una liturgia molto ricca di antifone su modello di quelle orientali (si contano p. es. sei antifone variabili all’interno del rito della Messa, oltre ad altri canti mobili: ingressa, ant. ante Evangelium - solo in feste particolari -, ant. post Evangelium, offertorium, confractorium, transitorium), assieme ad alcuni evidenti lasciti come p. es. la posizione della professione di fede (Credo) dopo l’Offertorio, determinati moduli del canto, la distribuzione di certe pericopi evangeliche, specie nelle domeniche di Quaresima, le benedizioni ante lectionem dei ministri, ecc.;
- contaminatio rituale ed eucologica da parte di altri riti: oltre a quello orientale, di cui si è detto, anche quello gallicano, ispanico, africano, dovuto se non altro a un fatto: che Mediolanum, fin dall’età celtica e poi gallica, è luogo di passaggio, di scambio commerciale e ideologico, avamposto e centro di potere militare e/o civile, e dunque, nell’era cristiana, anche fucina di incontro e di interscambio tra differenti famiglie rituali. Cito solo, a mo’ di esempio, questo relitto della liturgia gallicana mantenutosi fino ai giorni nostri, che fa vedere la permeabilità del rito ambrosiano a influssi esogeni: e mi riferisco a due formulari di Canone o prex eucharistica assegnati per la feria V in Coena Domini e per il sabbatum Sanctum contrassegnati nei messali moderni dalla dicitura Canon huius Missae e che evidenziano una struttura assai arcaica e piuttosto differente dal Canone romano, così come lo stesso Ambrogio ce lo ha attestato nel De sacramentis.
Citando parole del noto liturgista Achille Maria Triacca, che ha dedicato notevoli capitoli della sua attività di ricerca proprio all’argomento in questione, possiamo distinguere tre fasi della formazione e codificazione del rito ambrosiano: «La prima redazione risale al sec. IV-V… La seconda redazione… ha il suo apogeo nel sec. VII… La terza redazione è quella carolingia (IX-X) che… attesta una progressiva romanizzazione coatta, ma anche un più duraturo “cristallizzarsi” della liturgia ambrosiana». Se la fioritura del VII secolo ha dato grande impulso alla riflessione sui riti e all’amplificazione innodica ed eucologica dei medesimi, la riforma carolingia, nella sua opera di romanizzazione a vari livelli, non solo liturgica, ha contribuito a dare coscienza maggiore di sé al rito, portandolo appunto a quell’ “ambrosianità” fieramente conscia di sé e dei suoi tratti specifici che ancora oggi permane. Testimone di quest’ultima fondamentale fase dell’evoluzione del rito è un’opera posteriore all’epoca carolingia, che è tuttavia il vero e proprio collettore di tutte le fasi precedenti e che, seppur con qualche necessario distinguo, consegnerà la liturgia ambrosiana alle epoche successive fino a giungere al 1962, ed è Beroldo.
Egli è vissuto a Milano nella prima metà del secolo XII e ci ha lasciato, tra le altre opere, un Ordo et caerimoniae Ecclesiae Ambrosianae Mediolanensis, scritto poco dopo la morte dell’arcivescovo Ulrico da Corte (28 maggio 1126). Esso costituisce, in certo senso, il momento conclusivo del lungo processo di assestamento disciplinare della Chiesa ambrosiana finora per sommi capi descritto, ed è fonte basilare per la conoscenza della liturgia milanese quanto alle dignità della cattedrale, alle cerimonie del mattutino, del vespro, della messa, e, generalmente, delle vigilie delle feste e delle feste minori e maggiori. Beroldo descrive sempre le celebrazioni cardinalizie, dunque nella loro forma più solenne e completa. Con l’Alzati, si può pertanto affermare iuxto iure che «la forma organica assunta da questo libro nella sistemazione carolingia, e di fatto in quel contesto affermatasi, non sarebbe più stata smentita nei suoi lineamenti fondamentali, trasmettendosi con una singolare stabilità, si può dire fino agli anni del concilio Vaticano II».
Nonostante alterne vicende e il susseguirsi in terra milanese di vari dominati, il rito ambrosiano si mantenne pertanto saldo fino ai giorni nostri, grazie anche alla mano potente e all’intelligenza di studiosi e di pastori specie del secondo millennio dell’era cristiana, quali gli arcivescovi Francesco da Parma (1296-1308), Francesco II Piccolpasso (1435-1443), Carlo Borromeo (1560-1584), Federico Borromeo (1595-1631), Giuseppe Pozzobonelli (1744-1783), la cui edizione del Messale - confluita nel cosiddetto Missale Ambrosianum Duplex – sarà l’antesignano dell’edizione tipica pubblicata dal card. Andrea Ferrari (1894-1921). L’ultimo importante avvenimento nella storia del rito ambrosiano è la pubblicazione del Messale ambrosiano duplex, nel 1913, su lavoro e studio di mons. Antonio Ceriani, per l’opera redazionale di Achille Ratti (successore del Ceriani come Prefetto dell’Ambrosiana, poi card. Arcivescovo e quindi papa Pio XI) e mons. Marco Magistretti. Le ultime edizioni iuxta typicam dei libri liturgici ambrosiani, Missale compreso, è quella che porta l’imprimatur del b. card. Alfredo Ildefonso Schuster (1929-1954), tenendo conto sempre che la semplificazione delle rubriche secondo il Motu proprio Rubricarum instructum (25 giugno 1960) del Sommo Pontefice Giovanni XXIII è stata operata sotto l’episcopato del card. Giovanni Battista Montini (1954-1963), poi Paolo VI (1963-1978).
Concludendo: la liturgia ambrosiana, nell’ambito dei riti latini, sembra trarre origine dal rito romano, pur con influssi orientali e di altri riti occidentali; si radica e si arricchisce con l’opera di Ambrogio; si stabilizza in età carolingia; giunge quindi attraverso i secoli fino a noi nella sua forma pura. Forma che – per i sopraddetti motivi storico-liturgici che ho fin’ora esposto – non deve in alcun modo essere ostacolata, impedita o vietata: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto» (P.P. Benedetto XVI, Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione della lettera motu proprio data Summorum Pontificum, 2007). E se questo si applica a tutte le varietà del rito romano, compresi i riti propri degli ordini religiosi, a fortiori può pure trovare applicazione presso tutta la famiglia rituale latina, di cui la liturgia ambrosiana è nobile e preclara espressione.
2 commenti:
ATTENZIONE!! Non l'ultimissimo dei motivi per i quali alcuni pensano che il documento Ecclesia Dei Afflicta, con il quale si "scomunicavano" i 4 vescovi della FSSPX era da riternersi invalido, era la presenza di alcuni errori di latino madornali. Tanto madornali, da far pensare che erano voluti. Ciò fece pensare ad un modo "subliminale" di comunicare il messaggio "SONO STATO OBBLIGATO, NON TENETE CONTO".
una Fides: errori di latino nella Dichiarazione di Rinuncia del Sommo Pontefice
unafides33.blogspot.it
favole. Tutto fu ed è voluto
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