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venerdì 25 gennaio 2019

La Regola di San Benedetto e la rinascita della civiltà umana e cristiana – Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa n. 4/2018 - Silvio Brachetta

Del saggio che riprendiamo di seguito, l'Autore ha recentemente parlato a Radio Maria:


La Regola di San Benedetto e la rinascita della civiltà umana e cristiana – Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa n. 4/2018 
di Silvio Brachetta

Tra i vari concetti chiave e luoghi comuni del monachesimo benedettino – ora et labora, stabilitas loci, habitus non facit monachum – ve n’è uno meno noto, seminascosto tra le righe della Regola di san Benedetto da Norcia [1]. È anzi una parola di sei lettere, che compare una sola volta nel testo, ma che ne sostiene l’intera tessitura: «schola» [2]. Benedetto, in particolare, sostiene che «bisogna dunque istituire una scuola per il servizio del Signore» [3]. Il monachesimo occidentale, quindi, nella volontà del suo fondatore avrebbe dovuto essere una scuola, certamente non con il significato che si dà oggi al vocabolo: la schola dei romani trae il nome dal greco σχολάζειν (scholàzein), che significa «stare in ozio, riposarsi, avere tempo» [4]. Scuola pertanto significa, nel suo senso originario, «riposo da fatica corporea, il quale dà opportunità di ricreazione mentale o di studio» [5]. E Benedetto, il romano [6], non poteva dare un senso alla parola troppo diverso da questo, almeno a parere di don Lorenzo Sena OSB, secondo cui il termine antico di schola contiene tre significati: essa è il «luogo» dove «si apprende e si imita», dove «si serve il padrone» e dove «si milita sotto il sovrano», secondo le usanze dei corpi militari o dei funzionari dell’alto Medioevo [7]. Allo stesso modo, Benedetto cercava d’istituire una qualche realtà che permettesse di «avere sempre presente la persona di Cristo sotto tre aspetti complementari: il Maestro che insegna, il Sovrano che comanda, il Redentore sulla croce» [8]. Nel dettaglio, Benedetto si aspettava di ottenere dai monaci «la docilità dell’allievo, l’obbedienza del soldato e l’attività dell’operaio o del funzionario» [9].



Il movimento benedettino come sintesi di latinitas e germanitas

Benedetto recuperò una santa tradizione monastica, sorta in seno alla Chiesa dopo la svolta costantiniana: specialmente quella dei monaci anacoreti e cenobiti che, tra il IV e il V secolo, si spostavano verso i deserti egiziani, alla ricerca dell’ascesi e di una modalità opportuna per vivere la radicalità del Vangelo. Fu un esteso movimento di popolo, che coinvolse persone di ogni classe sociale. In seguito, il monachesimo approdò in Oriente, specialmente su iniziativa di san Basilio il Grande, che redasse una sua Regola. Quanto all’Occidente, il movimento monastico fu sdoganato da sant’Atanasio di Alessandria, durante il suo esilio a Treviri (nella Gallia, 335), soprattutto dopo la pubblicazione della sua opera Vita di Sant’Antonio, scritta per far conoscere il pensiero e le gesta del primo fondatore del monachesimo egiziano. Qui incontrò il favore dei santi vescovi Agostino, Ambrogio, Martino (di Tours) e Girolamo. Sant’Agostino redasse persino una sua Regola monastica, la quale divenne la prima in Occidente.
Di grande importanza è anche la collocazione storica del fenomeno monastico benedettino, inserito all’inizio del Medioevo, all’epoca in cui finiva un mondo e ne nasceva un altro. Sullo sfondo vi era la grande crisi del tramonto e della spaccatura dell’Impero Romano, tra Oriente e Occidente, tra il mondo della latinitas e il mondo greco bizantino. Il fattore, invece, di novità e, a lungo termine, di rinascita fu paradossalmente incarnato dalla crescente importanza della germanitas – impostasi in un primo momento con la discesa bellicosa delle popolazioni nomadi del nord e dell’est in Italia (Visigoti, Vandali, Ostrogoti e altri), ma sedotti in seguito dalle suggestioni della precedente civiltà romana e del cristianesimo, specialmente dopo la conversione del re dei Franchi Clodoveo e le successive ondate missionarie nel nord Europa.
In particolare, proprio la «‘svolta costantiniana’ aveva liberato immense energie, le quali in gran parte contribuirono a dar vita a un vigoroso slancio missionario, che cercò di conquistare il mondo a Cristo e di permearlo di spirito cristiano» [10]. I missionari si spinsero fino in Irlanda e in Scozia, dove fondarono i propri monasteri. Tra i nomi più noti c’è san Patrizio e l’iro-scozzese Colombano il giovane (VI-VII sec.), che influenzò grandemente anche la vita ecclesiastica dei Franchi. Per l’area germanica è rilevante la figura di Vinfrido Bonifacio (VII sec.), che ebbe un certo ruolo nella fondazione dell’Occidente cristiano [11]. Dalla fusione sintetica, quindi, della latinitas – che promanava da Roma e dal sud Europa – con la germanitas – costituita dai ricettivi popoli barbari del nord – nasceva una nuova realtà storica, culturale e spirituale, che avrebbe poi fondato la civiltà cristiana dei secoli successivi.

Epoca carolingia e istruzione

San Benedetto, morto nel VI secolo, non giunse mai né ad immaginare né a intravvedere la portata storica e spirituale dell’affermarsi del monachesimo da lui coordinato. Tanto l’Europa continentale, quanto quella insulare (gli anglosassoni) fu conquistata nei secoli successivi dal monachesimo romano: i monasteri francesi e inglesi assunsero la Regola benedettina con entusiasmo, dopo che i sinodi locali decisero in tal senso [12]. La svolta vera e propria si ebbe, tuttavia, dopo il 751, con l’«affermarsi dell’egemonia franca» e con l’incoronazione di Carlo Magno alla dignità imperiale: l’Impero Carolingio «individuò nei monasteri benedettini, oltre che nei centri episcopali, i luoghi più efficaci per un controllo capillare del territorio europeo, sia a livello politico sia culturale, favorendo la formazione di complessi stabili che fungevano da centri religiosi e amministrativi» [13].
Con Carlo Magno, dopo l’anno 800, s’inaugurò «una fase del tutto nuova che conferì all’Occidente europeo caratteri specifici e di lunga durata”» e, di questa fase, il monachesimo ebbe un ruolo decisivo. Dall’epoca carolingia, in particolare, «il reclutamento monastico venne caratterizzandosi sempre più spesso quale accoglimento di giovani in età scolare, presentati al monastero dai genitori». Nacque così una consuetudine che porterà, dopo il Mille, alla costituzione di scholae e universitas, soprattutto in seno alla Chiesa. E, di questa prassi, il monastero benedettino costituiva il centro: «In forza di tali presenze e delle preoccupazioni formative e culturali da esse comportate, i cenobi dovettero dotarsi di nuove strutture, assumendo un sempre più marcato ruolo culturale».
Da qui sorse tutto il secolare e notissimo fenomeno degli amanuensi che, attraverso i codici, trasmisero alle generazioni future la quasi totalità della produzione classica e patristica. Non si trattò solo di un ricopiare i testi del passato o di organizzare le biblioteche, ma del fiorire di novità linguistiche e concettuali, sotto la glossa dei Padri della Chiesa, che restituirono alla sapienza pagana la capacità di rinfocolare un dibattito sempre più vivo [14].

Nasce una nuova civiltà

Come, però, si consolidò – nella pratica quotidiana – l’affermarsi del monachesimo? In che modo monastero e villaggio, monaci e secolari, interagirono? Tra i molti autori, che hanno trattato l’argomento, uno dei più acuti potrebbe essere Léo Moulin con la sua riflessione sul fenomeno benedettino [15]. Il monaco di Moulin non si limita a pregare in modo massiccio, ma anche a lavorare a lungo e con fatica: essere monaco, fin dall’inizio, significa «dissodare, liberare dagli sterpi, drenare, prosciugare, irrigare, arare, mietere». E poi ancora, con l’ausilio dei civili, «dirigere, coordinare e sorvegliare il lavoro dei campi e dei vigneti, l’allevamento del bestiame, il saggio sfruttamento delle foreste, la buona conduzione dei vivai di pesci e degli alveari». Lentamente, attorno al monastero, inizia così ad operare una manovalanza di laici e monaci, vengono edificati casolari per ospitare le famiglie dei contadini e degli allevatori, sono divelti gli altari dedicati alle divinità pagane e sostituiti con edifici cultuali cristiani. Si mette in moto qualcosa di molto simile ad un’azienda agricola sui generis che, però, non si limita al puro fatto tecnico, ma i cui membri accedono anche al culto, alla lettura e alla scrittura. Conversione e crescita materiale iniziano a svilupparsi parallelamente.
In breve, i monaci, più istruiti e meno sedentari dei contadini, «sono l’assistenza tecnica, efficace e gratuita, al terzo mondo dell’epoca, cioè all’Europa dopo l’invasione dei Barbari». I benedettini sono insomma, «per forza di cose, dei fattori di conoscenza, dei portatori di sapere e di applicazioni pratiche, in breve, dei vettori di progresso»: pur smettendo ben presto di occuparsi manualmente della terra, i monaci medievali sono latifondisti, «educatori economici», «istruttori illuminati della massa rurale». Moulin si prodiga in lunghi elenchi di attività sorte all’ombra delle abbazie. Si diffondono ovunque le tecniche di vinicoltura, agronomia, produzione della birra, della lana. Nasce una farmacologia a base di erbe, impulso alla moderna medicina.
La Regola promuove tutta questa attività di libera iniziativa. Vi si legge che «il monastero deve, nei limiti del possibile, essere organizzato in modo tale che vi si trovi tutto il necessario, cioè dell’acqua, un mulino, un orto e delle botteghe in cui sia possibile praticare i diversi mestieri all’interno della cinta del monastero [...]»[16]. Si creano, in tal modo, «nuclei di artigianato sempre più importanti», che «saranno molto spesso il punto di partenza di grossi borghi o addirittura di città». Moulin prospetta un’impresa di enorme proporzioni: «non esiste attività – sfruttamento di saline, miniere di piombo, di ferro, d’allume o di gesso, metallurgia, cave di marmo, coltelleria, vetrerie, fabbriche ecc. – in cui i monaci non abbiano dispiegato un’attività creativa e un fecondo spirito di ricerca».
Non è difficile comprendere come un tale spirito abbia costituito un forte propulsore di civilizzazione e come la civiltà sia sorta dalla pratica di un cristianesimo che ha saputo incardinarsi in ogni ambito della società del tempo.

Monachesimo e corpo sociale

Non va tuttavia equivocata la vocazione benedettina: l’«Opus Dei» – l’«Opera di Dio» – per eccellenza è la preghiera liturgica comunitaria [17]. Il monaco è chiamato a diventare un uomo di preghiera e ad essa non deve anteporre nulla. «Nihil Operi Dei praeponatur» – «Nulla si anteponga all’Opera di Dio» – scrive san Benedetto [18]. La santificazione per mezzo della preghiera è, dunque, l’occupazione principale del cenobio: è un’attività che si estende per molte ore nell’arco del giorno. Non vi è nulla, nella vita proposta dal santo di Norcia, di rilassato o di mondano. Il compimento dell’Opus Dei richiede un grande impegno e la decisa volontà di perseguire una conversione a Dio, che possa portare alla penitenza e all’abbandono dei vizi e dei peccati.
Solo in questa luce è possibile interpretare al meglio la scelta successiva di dedicarsi alle attività tecniche, manuali e culturali. Il monaco, in fondo, è la prova vivente di quanto la vita di preghiera e la vita activa siano collegate, nonché di quanto di civile e di sociale possa scaturire dall’intimità di un cuore che prega in privato e comunitariamente. La fondazione della città terrena non può prescindere dalla fondazione della città di Dio. C’è un movimento spirituale che dalla comunità entra nella singola persona e, nel medesimo tempo, dal cuore dell’uomo s’irradia nella moltitudine: se questi due respiri dell’anima e delle anime sono in Dio, l’uomo si salva e costruisce la propria dimora, nel tempo prima e poi nell’eternità.
Nell’abbazia e in tutto ciò che ruota attorno ad essa si realizza una duplice coltivazione: quella terrena e quella spirituale, che porta al germoglio delle virtù. È del tutto conseguente, in un secondo momento, che la virtù individuale fondi le virtù sociali. Per questo motivo il monachesimo occidentale è stato una fucina per la comprensione e l’applicazione della Dottrina sociale della Chiesa. Nella comunità benedettina, tra l’altro, si sviluppa il principio del «bene comune», poiché si creano le condizioni necessarie al raggiungimento della «perfezione» [19], tanto individuale quanto comunitaria. Il bene materiale (che salva il corpo) e spirituale (che salva l’anima) è a disposizioni di tutti ed è, in questo senso, comune.
Per quanto riguarda i singoli beni, anche solo dal punto di vista materiale, è pacifica, agli occhi del monaco, la loro «destinazione universale» [20], soprattutto in relazione alla cura speciale verso il povero e il pellegrino [21]. Ma pure, allo stesso tempo, è salvaguardata la proprietà privata delle terre, dei manufatti, degli immobili e dell’agronomia, per cui quello che è dei monaci resta dei monaci e quanto è dei civili resta ai civili.
Di grande importanza è, come si è visto, lo spirito d’iniziativa personale e comunitario, che prelude al «principio di sussidiarietà»: «In base a tale principio, tutte le società di ordine superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto («subsidium») – quindi di sostegno, promozione, sviluppo – rispetto alle minori», poiché «è impossibile promuovere la dignità della persona se non prendendosi cura della famiglia, dei gruppi, delle associazioni, delle realtà territoriali locali, in breve, di quelle espressioni aggregative di tipo economico, sociale, culturale, sportivo, ricreativo, professionale, politico, alle quali le persone danno spontaneamente vita e che rendono loro possibile una effettiva crescita sociale» [22]. Eppure, nonostante il sostegno dovuto ai più deboli, che rappresenta la «sussidiarietà intesa in senso positivo», vi sono delle «implicazioni in negativo, che impongono» alle società di ordine superiore «di astenersi da quanto restringerebbe, di fatto, lo spazio vitale delle cellule minori ed essenziali della società»: l’«iniziativa, libertà e responsabilità» di tali cellule «non devono essere soppiantate» [23]. In questo senso la sussidiarietà è strettamente legata allo spirito d’iniziativa personale.
Non va neppure dimenticato, tra gli aspetti sociali, che l’abbazia diventa lentamente un centro di aggregazione delle famiglie e di educazione dei giovani, nonché un riferimento per le arti e i mestieri: da qui la formazione di tutta una galassia di corpi intermedi tra il sovrano e il singolo individuo, che costituisce – fino ai giorni nostri – la garanzia del funzionamento ordinato di uno stato o di un qualsiasi corpo sociale.

Una casa per sempre

È Vittorio Messori che ricorda l’importanza – per il monaco o per chiunque voglia costruire qualcosa di duraturo – della «stabilitas loci»: San Benedetto «impone ai suoi monaci» il voto della «stabilità» del luogo, cosicché «il monastero diventa» un punto fisso di riferimento; il «perno saldo attorno al quale la società si organizza» e la «fortezza contro le forze disgregatrici sempre in agguato» [24]. Non a caso – scrive – «l’organizzazione monastica prende il nome dal contrario stesso del caos: Ordo, ordine, contro il disordine, che è di coloro che sono senza fissa dimora, i vagantes, contro i quali san Benedetto ha parole severe» [25]. E, infatti, la città dell’uomo o la città di Dio è tale per la presenza di dimore, composte da vestiboli, corridoi, cucine e stanze. La stanza, in particolare, è dove l’uomo sta, vive, pensa, studia, lavora. La Sacra Scrittura medesima dà molta importanza al tempio, alla dimora, alla tenda nel deserto, al cenacolo. Il focolare domestico o comunitario è così posto non soltanto nell’ambito secolare, ma in quello divino e salvifico. Il «nomadismo» veterotestamentario, di contro, è «una condanna che Dio infligge al suo popolo» – osserva Messori: persino Gesù è costretto a dire che «le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8, 20) [26].
Quando san Benedetto salì a Cassino, insomma, andò per rimanerci. Dice san Gregorio Magno che «il paese di Cassino è situato sul fianco di un alto monte», e «c’era in cima un antichissimo tempio, dove la gente dei campi, secondo gli usi degli antichi pagani, compiva superstiziosi riti in onore di Apollo. Intorno vi crescevano boschetti, sacri ai demoni, dove ancora in quel tempo, una fanatica folla di infedeli vi apprestava sacrileghi sacrifici» [27]. Dopo avere distrutto gl’idoli e aver edificato una chiesa, Benedetto «si rivolse alla gente che abitava lì intorno e con assidua predicazione la andava invitando alla fede» [28].
Nella stabilitas loci si edificano, nel corso della vita, le virtù del sacrificio e della perseveranza, perché si è costretti a vivere assieme ad altre persone, a sopportarne limiti e difetti. Si riceve molto dalla comunità monastica – supporto, edificazione, cura – ma è richiesta anche la rinuncia alla propria volontà, al proprio desiderio di autosufficienza. Viene temprato il carattere e si forma l’umiltà, se non altro perché è richiesta obbedienza all’abate. La stabilità è talmente importante per il monaco, che non è bene accettare nel monastero quei postulanti che non «darà sicure prove di voler perseverare» in tal senso [29]. La stabilità difatti è una delle tre promesse del postulante, assieme alla conversione continua e all’obbedienza.

La “tripla gloria” dell’Ordine

La vicenda storica del monachesimo occidentale è un alternarsi di momenti di decadenza e momenti di riforma e rinascita dell’Ordine. Al dissolvimento dell’Impero Carolingio, seguì un periodo di crisi economica e morale, per cui fino al X secolo i monasteri caddero in disuso e le ricchezze depredate. Provvidenzialmente tra il X e l’XI secolo s’impone la Riforma cluniacense che, per emanazione dal monastero francese di Cluny, restituì alla Regola benedettina la rigida osservanza delle origini. In questo senso, va ricordato che la riforma autentica (come concetto) non consiste mai in un rilassamento spirituale e morale, ma in un ritorno alla “forma originaria”, in tutta la sua purezza e dedizione.
Sulla spinta di Cluny sorsero monasteri in Francia, Italia e Germania. Notevole fu l’esperienza al monastero di Cîteaux, da cui nacque l’Ordine dei Cistercensi. E, in Italia, san Romualdo si ritirò in eremitaggio e fondò il monastero di Camaldoli, futuro grande centro culturale. Con l’imporsi, infine, degli Ordini mendicanti (domenicani e francescani) e con l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento, per il monachesimo cominciò l’ennesimo periodo di decadenza, senza mai estinguersi del tutto ma, anzi, restando vivo in molte località o trasformandosi in nuove congregazioni. E, in ogni caso, è un’utopia che abbia potuto estinguersi la «tripla gloria» dell’Ordine di san Benedetto, come l’intese Chateaubriand: «convertire l’Europa, dissodare i suoi deserti, e riaccendere nel suo seno la fiaccola delle scienze» [30]. Difatti l’Ordine non morì. È più corretto dire che si mutò in altre forme e tutto ciò che fu seminato germinò. L’epoca moderna è stata largamente nutrita dai frutti di tanto impegno e sacrificio.
Paolo VI ricorda [31] che il santo di Norcia, «con costante e assiduo impegno», fece nascere «in questo nostro continente l’aurora di una nuova era», nel momento in cui la civiltà antica crollava. Egli, assieme ai suoi figli, portò «con la croce, con il libro e con l’aratro il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia». In particolare – scrive paolo VI – «con la croce, cioè con la legge di Cristo, diede consistenza e sviluppo agli ordinamenti della vita pubblica e privata». Per mezzo dell’Opus Dei «egli cementò quell’unità spirituale in Europa in forza della quale popoli divisi sul piano linguistico, etnico e culturale avvertirono di costituire l’unico popolo di Dio». Quest’unità fu la caratteristica distintiva del Medio Evo cristiano.
Del resto, come scrive san Gregorio Magno, Benedetto ebbe una visione: «fu posto davanti ai suoi occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole» [32]. E specifica: «Tutto il mondo si dice raccolto davanti a lui [a Benedetto, ndr], non perché il cielo e la terra si fossero impiccoliti, ma perché lo spirito del veggente si era dilatato, sicché, rapito in Dio, poté senza difficoltà contemplare quel che si trova al di sotto di Dio». Al di sotto di Dio ci sono le città dell’uomo, ma Benedetto ormai abitava già nella città di Dio.
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Note
[1] La Regula monachorum (o Sancta Regula) fu redatta da san Benedetto (480-547) intorno all’anno 534, sul modello di alcune Regole già esistenti. È composta da un Prologo e da 73 capitoli.
[2] Scuola.
[3]«Constituenda est ergo nobis dominici schola servitii». SAN BENEDETTO DA NORCIA, Regola, Prologo, n. 45.
[4] OTTORINO PIANIGIANI, Dizionario etimologico, Albrighi & Segati, 1907, voce: “scuola”.
[5] Ibidem.
[6] San Benedetto (480-547) nacque a Norcia e morì a Montecassino, ma soggiornò e si formò a Roma, tra i 12 e i 17 anni d’età.
[7] Lorenzo SENA, Appunti sulla Regola di San Benedetto, Monastero San Silvestro Abate (Ed.), 2002.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] AUGUST FRANZEN, Breve storia della Chiesa, Queriniana, 1991, p. 102.
[11] Cf. ibidem.
[12] Sinodo di Whitby nel 664 (Inghilterra) e due sinodi francesi, nel 743 e 744.
[13] CESARE ALZATI (con la collaborazione di MARCO BRAGHIN, RUGGERO LONGO, MARCO ROSSI), “Storia del Monachesimo Benedettino. Storia e inquadramento del fenomeno”, Treccani.it. I virgolettati successivi sono tratti dal breve saggio.
[14] Cf. ibidem.
[15] LÉO MOULIN, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaka Book, 20083. I virgolettati successivi sono tratti dal libro.
[16] Regola, LXVI, 15-18, in LÉO MOULIN, La vita quotidiana secondo San Benedetto, op. cit.
[17] San Benedetto, nella Regola, considerava intangibili tre principi, collegati alla preghiera liturgica comunitaria, conosciuta anche come Liturgia delle Ore: 1) recita dell’intero Salterio entro la settimana; 2) sette ore canoniche relative all’Ufficio diurno; 3) recita di dodici Salmi nell’Ufficio notturno. A questo Breviarium Monasticum si aggiunge anche la S. Messa.
[18] Regola, XLIII, 3.
[19] Il «bene comune» è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente». Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 26.
[20] «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno. È qui la radice dell’universale destinazione dei beni della terra». Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 31.
[21] Da qui il principio della «solidarietà».
[22] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, nn. 185, 186.
[23] Ibidem.
[24] VITTORIO MESSORI, Pensare la Storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana, Sugarco, 2006, p. 169.
[25] Ibidem, p. 170.
[26] Ibidem, p. 169.
[27] GREGORIO MAGNO, La vita di San Benedetto, estratto da I Dialoghi, l. II, Citta Nuova, tr. PP. Benedettini di Subiaco.
[28] Ibidem.
[29] Regola, LVIII, 9.
[30] FRANÇOIS-RENÉ DE CHATEAUBRIAND, Genio del Cristianesimo, Bompiani, 2008, p. 1131.
[31] PAOLO VI, lett. Apost. Pacis Nuntius per la proclamazione di san Benedetto Patrono principale dell’intera Europa. 24/10/1964.
[32] GREGORIO MAGNO, La vita di San Benedetto, op. cit.

11 commenti:

Silvio Brachetta ha detto...

Grazie Maria.

Don Massimo Lapponi, che ringrazio, mi ha fatto notare che nel nel mio articolo ci sono due errori.

Ecco quanto mi ha scritto:

"Se si parla di San Colombano morto a Bobbio, irlandese di nascita - come sembra - va collocato tra il VI e il VII secolo. Invece San Colomba, scozzese, è del VI secolo. San Bonifacio nace nel VII secolo, ma opera soprattutto nell'VIII secolo (muore nel 754).
Segnalo anche una svista: da Cîteaux nacque l'ordine dei Cistercensi, non dei certosini!"

Anonimo ha detto...

Gerarchi e intellettuali hanno, si sa, trucchi che gli permettono di passare indenni in mezzo a ogni bufera. Ma quella base - quella base marxista generosa e credente - non suscita pena sincera? Quale enorme capitale di speranza, di fede, di sacrificio è stato sprecato per una causa che gli stessi capi hanno detto prima perduta e poi anche da dimenticare? Non si è rivelata questa - non quella religiosa - la vera alienazione, lo sprecare la propria vita per miti bugiardi e sanguinari? Sin troppo facile, per un cristiano, sentire tra queste rovine suoni biblici («sventurato l'uomo che confida nell'uomo», o il dolente salmo, «nisi Dominus aedificaverit domum», con quel che segue). Quando, ancora assai di recente, un documento a firma del cardinal Joseph Ratzinger definì il marxismo «vergogna del nostro secolo», si levò lo sdegno anche di cattolici che lo scoprivano, entusiasti, proprio allora.

Ma, forse, di quella "vergogna" fa parte non solo il gulag, ma pure il dirottamento, per fini rivelatisi illusori, di tutta la tensione "religiosa" degli innumerevoli vecchi militanti che dicevamo. Dei quali va capita la tragedia, traendone almeno una conferma: guai a chi si fida degli idoli che hanno preteso di sostituire il Dio vero. (Vittorio Messori)

mic ha detto...

Caro Silvio, grazie a te per i tuoi contributi così preziosi in questi tempi di magra o addirittura di distorsione!
Di quel che segnali avevo già tenuto conto nel testo pubblicato ;)

Silvio Brachetta ha detto...

Sei acutissima Maria!
Come sempre.
Grazie ancora.

irina ha detto...

Grazie, il Monachesimo è sempre fonte di continuo insegnamento, per chi vuole ascoltare. Una sola sottolineatura, molti barbari, tra cui Burgundi e Goti, furono ariani. E lo divennero, sembra, 'dopo aver conosciuto il cattolicesimo'(Pierre Richhé, Armando, 1966). Oggi leggo questo fatto come la spina innestata nel fianco dell'Europa che stava diventando, che cercava di diventare, cattolica. Spina nel fianco mai realmente estratta che, di tempo in tempo, ha contribuito a far da base a tante seguenti infezioni proprio nelle zone dove la primitiva missione è, forse, rimasta incerta davanti a questi barbari diventati comunque cristiani ma, un po' diversi. Tutto questo porta ad un altro tema, la missione, oggi negletto. E forse è proprio oggi, dove tanto si parla della rinascita che il Monachesimo portò con sé, che è bene coniugarlo con la evangelizzazione dei popoli che inevitabilmente comportò, cioè mostrare con i fatti storici che l'Opus Dei è, deve essere, inevitabilmente missionario, per essere reale e non rinnegare se stesso. L'intreccio stretto cioè tra Missione e Civilizzazione che avviene con il Monachesimo, il quale si chiude, per poter essere se stesso, dietro le mura del convento.

Valeria Fusetti ha detto...

Caro anonimo1 delle 10,38 lei chiede se quella base marxista generosa e credente non suscita pena sincera ? Le rispondo "no". Le rispondo da ex marxista, nata in una famiglia di comunisti emiliani, nipote di anarchici da cui sono discesi i comunisti. Una robusta ed antica schiatta ! Per cui so cosa le dico. Potrei continuare e nascondermi dietro al fatto che lì sono nata e cresciuta, e lì sono stata educata. E sono stata educata nel culto della solidarietà. È dell' antifascismo, ovviamente. Ma continuerei a mentire, a me e agli altri... che menzogna inutile, visto che non si può mentire a Dio! Sono anche stata battezzata, ed ho fatto cresima e comunione. Per cui le basi sufficienti su cui costruire la mia fede le avevo. A 21 anni, per cui nell' età della ragione, ho scelto.Ho scelto il marxismo femminista, e sono stata una militante molto impegnata. Posso illudermi di aver fatto una scelta "generosa" perché era " la scelta per i poveri e gli sfruttati" ? No perché è una gigantesca favola. Consolatoria e gratificante, dove si rappresenta sé stessi come moderni eroi tesi a salvare il mondo e a raddrizzare tutti i torti. Un delirio di autocompiacimento e onnipotenza. In cui si pensa di fare bene quello che Dio non vuole o non può fare! Se c' è ... Non è generosità, è apostasia, è eresia, è considerare con sufficienza e incredulità la Croce di Nostro Signore. Come donna è anche il profondo orrore ed il rifiuto più viscerale del fiat di Sua Madre santissima. Non si può essere cristiani e marxisti, È molto semplice, e l' evidenza è davanti agli occhi di tutti, nella realtà della Chiesa, in chi non ha voluto, né vuole, accettare che non vi può essere comunione tra Dio e Belial.Come affermava mons. Fulton Sheen la tolleranza può essere il peggiore degli errori ed essere, alla fine, la vera mancanza di carità.

Anonimo ha detto...

Non c'è altra contemporaneità della Sua presenza.
Compiuta e sempre da compiersi.
Un'unità invocata, una convocazione attuale.
Solo qui il germoglio di sempre nuovi inizi.
Mescolata al tempo e alla confusa speranza degli uomini.
E alla loro sempre incipiente disperazione.
Una vita adesso. Che porta il limite, il peccato, la confusione che è nostra.
Nella Sua singolare volontà di aver bisogno della nostra carne per restare tra noi.
Del nostro pane, del nostro dolore, della nostra controversa amicizia.
Una trascendenza immanente.
Così dovunque essere a casa, in ogni tempo.
Fraternità di destino e di compito.
Prediletti a portare un "peso leggero", senza che alcuno sia escluso.
Il tutto nel nostro frammento.
Franca Negri

Pietro C. ha detto...

"il Monachesimo è sempre fonte di continuo insegnamento, per chi vuole ascoltare."

No, è molto più che fonte di insegnamento: è un paradigma ecclesiologico. Comprendo che questo a noi, oggi, può parere di difficile comprensione ma nell'Alto medioevo il monachesimo non solo conservava una civiltà ma anche un "modo di essere" Chiesa. Il monastero è una piccola Chiesa fondata sulla spiritualità, non su un potere che imita quello imperiale come poi il papato basso medioevale è stato costretto a fare a causa dei nefasti eventi di quell'epoca. Il paradigma imperiale, infatti, è puro potere e non si fonda su un rapporto spirituale con Cristo, come avviene nella civiltà monastica che, a giusto titolo e ragione, era il riferimento per tutto il primo millennio cristiano. Oggi con un papato di fatto deviato i cristiani sono chiamati a riflettere fortemente su quale può essere un corretto paradigma ecclesiologico, che poi è quello che ci fornisce l'antichità cristiana e l'alto medioevo. Mi suona particolare, in questo contesto, ricordare che lo stesso Pio X invitava i sacerdoti a leggersi un libro spirituale di un abate trappista, se non ricordo male, e questa è una sana cosa. Oggi siamo arrivati al punto in cui tutto e dimenticato e la Chiesa, con il permesso divino, è stata invasa da demoni. Ma la soluzione esiste, basta saperla vedere.

irina ha detto...

Non conoscevo Monsignor Antonio Livi se non attraverso i rimandi a lui che ho trovato nelle opere di Radaelli. Oggi ottanta anni e più non sono impossibili da raggiungere; sempre più mi convinco che per molti sacerdoti questi anni, difficilissimi per la Chiesa e per la loro stessa vita, hanno portato una rivisitazione attenta del passato che per molti di loro è risultata essere micidiale. Micidiale per come molti di loro, sappiamo, sono stati trattati dalla massima autorità per la quale avrebbero dovuto essere figli; micidiale perchè hanno scoperto e il male e le radici del male proprio dentro la chiesa. Per alcuni ho anche pensato che avessero ricevuto una spintarella verso l'incontro ultimo, qui no, penso piuttosto ad una consunzione nel dolore. Difficile capire la tragedia che ogni cuore sacerdotale onesto attraversa, ha attraversato, in questi anni: è stato il tradimento massimo che si è abbattuto su chi ha compreso e non si è tirato indietro. Terribili battaglie nei loro cuori. Non credo che Monsignor Livi abbia disperato, no; che sia stato ferito mortalmente dal dolore, che poi si è manifestato, non so come, anche nel fisico, questo sì lo credo. La fila di quelli che sono andati di là si va allungando, preghiamo per loro, a mio avviso già nella Gloria, ed imploriamoli di chiedere al Signore Nostro Gesù Cristo tutto quello che manca a noi qui per combattere con onore nel suo Santo Nome.

Anonimo ha detto...


Alla nota n. 19 c'è una definizione di "bene comune" che appare abbastanza anonima,
viene infatti dall'art. n. 26 della Gaudium et spes, costituzine pastorale sulla Chiesa e il mondo contemporaneo.

Anonimo ha detto...

Adulti?!
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