Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

mercoledì 27 gennaio 2021

Donne in cantiere nella Fabbrica di San Pietro. Tanti saluti alla parità di genere dal XIV secolo

Che certi pregiudizi sulla condizione delle donne nella Chiesa andrebbero meglio soppesati, lo avevano già dimostrato alcuni saggi del volume Quando la Fabbrica costruì San Pietro (Il Formichiere, Foligno, 2016).
Ma l’“affondo” è giunto con il libro Le donne nel cantiere di San Pietro in Vaticano. Artiste, artigiane e imprenditrici dal XVI al XIX secolo (Il Formichiere, Foligno, 2017), che a distanza di tre anni vale ancora un’analisi, perché il colpo che ha dato a un certo immaginario collettivo e storiografico è ancora ben lungi dall’essere stato assorbito. 
Ma d’altra parte i fatti sono fatti, e alla loro luce ogni altra teoria diventa sterile. Perché la storia che raccontano i saggi inseriti nel volume, scritti da esperti storici dell’arte, dell’architettura e del restauro, è basata sui documenti rinvenuti nell’Archivio della Fabbrica di San Pietro, conservato nei meandri dei sottotetti della Basilica e di cui le valenti curatrici del volume, Simona Turriziani e Assunta Di Sante, ne sono rispettivamente Responsabile e Vice-Responsabile.

Già l’ordine cronologico e tematico adottato dalla ricerca indica la continuità nel tempo del contributo femminile alla costruzione della Basilica, e la varietà delle mansioni svolte.

Ma come mai così tante donne attive in un cantiere edilizio, in secoli in cui altrove il lavoro femminile non era poi così diffuso? Il motivo sta nella lungimirante politica assistenziale adottata dalla Fabbrica di San Pietro fin dalla sua nascita nel 1506, e che oltre a porre qualche dubbio sull’originalità delle moderne lotte sindacali, superava di gran lunga per umanità e retribuzioni le condizioni lavorative contemporanee di altri paesi occidentali.Specifiche disposizioni, infatti, tutelavano la sopravvivenza del nucleo famigliare del lavoratore deceduto o ferito, facendogli subentrare nella stessa mansione i figli maschi, o la moglie e le figlie femmine. L’unica condizione richiesta era la stessa qualità di servizio e di prodotto già a suo tempo forniti da chi si andava a sostituire. Ciò significa che per la Fabbrica se il nuovo lavorante fosse un uomo o una donna era questione irrilevante, perché la differenza stava nella qualità del fare, non nel genere. E infatti le donne nel cantiere di San Pietro godevano di una sostanziale parità economica rispetto agli uomini già secoli fa. Mentre in altri paesi europei o stati italiani il loro salario era decurtato del 50%.

La prima importante conclusione è: quella parità di genere sul lavoro per cui ancora oggi si sta lottando era una prassi già attuata nel cuore della Chiesa di Roma più di cinquecento anni fa. Niente di nuovo, quindi, basta guardare al modello del passato.

E un modello di modernità sono anche le figure di donne che emergono da queste storie, esemplari per tenacia, intraprendenza, spirito imprenditoriale, coraggio e amore famigliare. A partire da chi aveva ereditato mansioni dure e faticose dai loro padri o mariti, come le “provvisioniere”, che fornivano mattoni, gesso, calce, funi e ferramenta, o le “carrettiere”, che trasportavano sui carri pietre e legni da costruzione. Fondamentale era anche il lavoro delle “capatrici” di smalti, che con le mani ferite e inaridite dalla polvere frugavano tra i calcinacci dell’antica Basilica, per recuperare le tessere di mosaico da impiegare nelle nuove commissioni. Mentre senza paura doveva essere la “vetrara” Giovanna Jafrate, capace di fornire e coordinare il montaggio delle vetrate della Basilica ad altezze vertiginose.

Altre donne invece si erano guadagnate il posto vincendo una vera e propria “gara d’appalto”, oppure battendo una feroce concorrenza, per conservare la licenza dei propri padri. Come le “ferrare” sorelle Palombi, al cui soldo lavoravano diversi mastri fabbri, tutti uomini naturalmente. O la “stampatora” Paola Blado, dalla cui tipografia uscivano tutti i documenti ufficiali della Fabbrica e della Camera Apostolica. O l’intagliatrice di legno Lucia Barbarossa, attiva sia nella Basilica che anche nei sontuosi palazzi di importanti famiglie romane, come i Borghese, e i Colonna. Mentre nella sua impresa la “cristallara, e fabricatrice de smalti” Vittoria Pericoli fondeva le “pizze” di vetro colorato per i mosaici, riconosciute come perfette da una severa commissione che ne doveva valutare la qualità.

Emblematico e quasi iconico, infine, è il caso della celeberrima intagliatrice di lapislazzuli Francesca Bresciani, collaboratrice del Bernini nella realizzazione del Tabernacolo per la cappella del Santissimo Sacramento, e che negoziò con il Cavaliere la retribuzione più appropriata per le proprie competenze.

Ci mancano solo i volti di queste donne, ma ecco l’idea di una copertina disegnata ad hoc, e l’apertura di ogni saggio con splendidi dettagli fotografici delle Virtù dei monumenti sepolcrali dei papi in Basilica. Mai soluzione più consona, per evocare la presenza di donne che virtuose lo furono davvero. (Fonte)

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Non credo che mai la donna si sia tirata indietro davanti ad una necessità personale, familiare o sociale.Oggi è discutibile il conformismo, per cui non si educa in maniera tale che la giovane donna ed il giovane uomo possano arrivare ai loro compiti, che a volte sono la loro vocazione, a volte sono i loro doveri, senza essere stati già ampiamente plagiati dalla propaganda di regime che impone fatui modelli del pensiero, del sentire, della volontà. Sono di questi giorni due infanticidi terribili di giovani madri assassine crollate davanti ai doveri che la vita aveva presentato loro e a cui loro erano impotenti, incapaci, ribelli ad accettare. Giovani donne alle quali la propaganda fatua aveva riempito la testa ed il cuore di illusioni senza confini. Illusioni che erano state veicolate loro dai media e che loro avevano fatte proprie senza neanche capire che erano state loro instillate durante tutta la loro vita da musiche, parole, immagini di cui il mondo giovanile è stato saturato. Una di queste madri era certa che i suoi figli fossero quei demoni di cui lei era stracolma, cioè ha visto fuori quello che lei aveva dentro e li ha uccisi, uccidendosi poi mi sembra. L'altra madre non aveva potuto capire che dono avrebbe potuto essere un figlio menomato, né questo evidentemente nessuno aveva cercato di spiegarlo a lei, né la famosa famiglia, né la famosa scienza, neanche il famoso prete e così ha soffocato il figlio, che a suo dire lei non era più in grado di aiutare, di curare. Unitamente all'aborto bisogna tener presenti anche gli infanticidi da parte di madre, come da parte di padre. Se questi giovani crescono illusi, manipolati, ai quali viene proposto come paradiso solo ed unicamente l'eros e a loro non si parla MAI della maternità e della paternità che inizia proprio con l'eros, quando poi la vita si mostra non come masturbazione a due, ma con i suoi DOVERI, che se adempiuti con sapienza e conoscenza rivelano la presenta di DIO, Uno e Trino qui ed ora, se questi giovani crescono e vivono poi da illusi bisogna aspettarsi questo ed altro oltre le 'amenità' delle quote rosa e via elencando con cui il mondo li bombarda...

Anonimo ha detto...

L'Ospedale di Santo Spirito, su lungotevere proprio all'uscita di Via della Conciliazione venendo da piazza San Pietro, fu costruito lì a ridosso del Tevere perché lì, nell'acqua del Tevere, andavano le donne romane ad abortire e/o a partorire. L'Ospedale nacque appunto come luogo sicuro dove partorire e convertire le madri o assegnare il/la bambino/a a qualche buona coppia senza figli. Questo fu lo scopo dal quale nacque l'Ospedale di Santo Spirito,il fu primario internista del Santo Spirito, mi raccontò di questo particolare.

Assoluta barbarie ! Manco la pietas dei romani ha detto...

Non solo , a S.Spirito e' ancora visibile e ben conservata la famosa "ruota" nella quale si poteva lasciare il prodotto del concepimento nella malaugarata ipotesi che non si potesse accudire per le ragioni piu' varie . Oggi che si puo' portare avanti la gravidanza con tutti i riguardi del caso e partorire nell'anonimato si preferisce "ammazzare "- "smembrare "- squartare ". Troppo cruda ? Questo e' !!

Ecco , appunto . ha detto...

"a cui loro erano impotenti, incapaci, ribelli ad accettare . Giovani donne alle quali la propaganda fatua aveva riempito la testa ed il cuore di illusioni senza confini."

E' proprio così carissimo/a , quando vedevo talvolta quei programmi pomeridiani con le varie stellette prezzemolo ( che non avevano un lavoro ) la prima cosa di cui si gloriavano era : " Io non so cuocere nemmeno un uovo "!

Una cronaca sempre più perversa ha detto...

RS, il cittadino polacco "prigioniero" di un ospedale inglese, è morto. Un’altra vita se ne è andata. Soppressa da un nuovo totalitarismo che non tollera la vita. È lo Stato che decide chi ha diritto di vivere e chi deve morire, ma che soprattutto non tollera l'amore gratuito di persone che si prendono cura dell’altro non per un interesse o per un tornaconto, ma solo perché l’altro esiste. È l’amore che si vuole bandire dalla società tecnocratica, la gratuità dell’amore.

Anonimo ha detto...

Non mi piace il tenore dell'articolo...

''E un modello di modernità sono anche le figure di donne che emergono da queste storie, esemplari per tenacia, intraprendenza, spirito imprenditoriale, coraggio e amore famigliare.''

Anonimo ha detto...

Anche se non sapevo della Fabbrica di San Pietro, non mi stupisco della donna "vetrara", "carrettiera", "ferrara"....
Nel convento, dove sono stata a pensione decenni fa, le suore svolgevano con grande perizia ed abnegazione lavori tipicamente maschili nel mondo. Mi è rimasta impressa una che era un'ottima calzolaia per tutta la sua comunità.

Anonimo ha detto...


"è un modello di modernità.."

In effetti, può la modernità essere un nostro (o il nostro) modello? Absit.
L'espressione è entrata nell'uso ma è infelice.
Il giusto riconoscimento del lavoro svolto da queste donne deve prescindere
da ogni riferimento alla modernità come se essa costituisse il modello.
È proprio questo "modello" (ormai degenerato) a distruggere quello che è rimasto della civiltà cristiana.