A pochi giorni dalla Prima Domenica di Avvento su cui abbiamo meditato [qui], anche questa settimana giova riprendere, nella nostra traduzione da OnePeterFive, la meditazione di Padre John Zuhlsdorf del 2 dicembre.
Seconda domenica d’Avvento: vivere nell’unità della fede
Padre John Zuhlsdorf, 2 dicembre 2022
Per questa 2ª domenica di Avvento la chiesa stazionale romana è la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme dove furono deposte e sono ancora oggi venerate le travi lignee della Croce e le reliquie della Passione portate a Roma dall’Imperatrice Elena. La scorsa settimana abbiamo fatto stazione a Santa Maria Maggiore, dove si venerano le asticelle di legno della mangiatoia del Signore a Betlemme. Questa domenica noi, come Cristo stesso, camminiamo dalla culla alla croce. Nella scelta delle Stazioni romane, la Santa Chiesa ci ricorda quanto predicò San Tommaso Becket di Canterbury nel suo ultimo sermone prima della sua morte imminente, avvenuta il 29 dicembre 1162:
In questo periodo dell’anno celebriamo allo stesso tempo la nascita di Nostro Signore e la sua Passione e morte sulla Croce. Miei cari, dal punto di vista del mondo ciò è comportarsi in modo strano, giacché chi mai piange e si rallegra allo stesso tempo e per la stessa ragione? Poiché o la gioia sarà vinta dal lutto, o il lutto sarà scacciato dalla gioia. Quindi è solo in questi nostri Misteri di Natale che possiamo rallegrarci e piangere insieme per lo stesso motivo. Il presepe e la Croce sono due dei grandi misteri della nostra salvezza, ma non possiamo comprendere veramente l’uno senza l’altro.
La lettura evangelica della messa domenicale è tratta da Matteo 11, in cui due discepoli di Giovanni Battista domandano a Gesù se è Lui il Messia che stanno aspettando. Mi sono già concentrato su quel brano del Vangelo nella rubrica dell’anno scorso per questa domenica. Mi sembra meglio, quindi, dare un’occhiata più da vicino all’Epistola, che è tratta dalla Lettera di San Paolo ai Romani.
Il contesto è sempre utile. Come evidenziò il grande scrittore — appartenente al Movimento Liturgico del XX secolo — Padre Pius Parsch, l’Avvento può essere diviso in due fasi, la prima delle quali comprende queste prime due domeniche. La prima domenica ascoltato sentito l’annuncio del fatto che “il Re sta arrivando”. Ricordiamo come, nel mondo antico, i grandi governanti effettuavano visite ai loro possedimenti per fare il punto, per far quadrare il bilancio, per così dire, e per formulare giudizi. Una tale apparizione era una parusia, termine che applichiamo alla Seconda Venuta del Signore, il Giusto Giudice e Re di spaventosa Maestà.
Il contesto è sempre utile. Come evidenziò il grande scrittore — appartenente al Movimento Liturgico del XX secolo — Padre Pius Parsch, l’Avvento può essere diviso in due fasi, la prima delle quali comprende queste prime due domeniche. La prima domenica ascoltato sentito l’annuncio del fatto che “il Re sta arrivando”. Ricordiamo come, nel mondo antico, i grandi governanti effettuavano visite ai loro possedimenti per fare il punto, per far quadrare il bilancio, per così dire, e per formulare giudizi. Una tale apparizione era una parusia, termine che applichiamo alla Seconda Venuta del Signore, il Giusto Giudice e Re di spaventosa Maestà.
In questa seconda domenica, ascoltiamo la notizia che non solo il Re verrà, ma verrà a Gerusalemme. Non a caso la chiesa stazionale Romana si trova dove si trova oggi.
Tornando a Parsch, possiamo pensare a “Gerusalemme” in termini di scavi archeologici: in base agli strati scoperti. In questa prospettiva, “Gerusalemme” potrebbe avere quattro strati: il primo sarebbe la città storica dei giudei, del Tempio ormai superato e distrutto, nelle cui strade il Signore ha agito e parlato e dove ha sofferto, è morto ed è risorto. Il secondo sarebbe l’odierna Gerusalemme della Santa Chiesa Cattolica, dei cristiani che vivono in un solo Corpo di Cristo, nella quale Cristo parla e agisce ancora, soprattutto nel Suo sacro culto liturgico, con cui si rinnova il Suo sacrificio. In terzo luogo c’è una Gerusalemme futura, la Gerusalemme celeste che scenderà dal cielo alla fine dei tempi. Infine, le nostre anime devote in stato di grazia sono una Gerusalemme adorna e preparata per l’avvento del Re, per la sua visitazione. Nella colletta di oggi, il sacerdote prega per noi:
Ravviva, o Signore, i nostri cuori per preparare le vie del Tuo Figlio unigenito, affinché, mediante la Sua venuta, possiamo servirti con cuore puro.
Ecco alcune informazioni utili per la lettura dell’Epistola ai Romani 15.
Alla fine del 57 o all’inizio del 58 d.C., dopo il suo terzo viaggio missionario, Paolo si stava preparando a tornare a Gerusalemme per “portare aiuto ai santi” (Rm 15, 25).
Paolo non era ancora mai stato a Roma:, come si suol fare, la voleva visitare e poi andare in Spagna (Rm 15, 23). Il gesuita francese studioso della teologia di San Paolo, Ferdinand Prat, commenta:
Da molto tempo lo sguardo dell’Apostolo era fisso su Roma. Un veemente desiderio di visitare la piccola chiesa lì in crescita tormentava il suo cuore. Continuava a ripetersi: “Devo vedere Roma”. Non si trattava del fascino che la capitale del mondo esercitava su provinciali e stranieri. Una voce dentro di lui lo spingeva lì irresistibilmente. La sua tattica era sempre stata quella di sferrare il suo assalto alle grandi città, per colpire così al cuore il paganesimo, convinto che per il potere di attrazione che sempre attira le contrade verso una metropoli, prima o poi esse le avrebbero seguite. Forse aveva anche un soprannaturale presentimento che il centro del mondo fosse predestinato ad essere anche il centro della Chiesa. Inoltre, gli sembrava che la sua opera in Oriente fosse terminata: avendo piantato saldamente il Vangelo ad Antiochia, Corinto ed Efeso, e nelle principali città della Galazia e della Macedonia, il resto era solo questione di tempo. Il seme era stato seminato; scaturirebbe da sé sotto il soffio della grazia divina. Altri avrebbero potuto mietere il raccolto.
Quindi, Paolo scrisse ai Romani per presentarsi e perché aveva incontrato altrove parecchi ebrei cristiani romani durante il loro esilio. Nel 49 d.C. l’imperatore Claudio aveva espulso gli ebrei da Roma, anche se alcuni tornarono nel 54. Pertanto, la comunità cristiana a Roma sarebbe stata in maggioranza gentile. Probabilmente Paolo scrisse ai Romani mentre si trovava a Corinto, dove erano stati i cristiani ebrei romani Priscilla e Aquila durante il loro esilio (At 18, 1-4): Paolo li saluta, sapendo che erano tornati a Roma (Romani 16,3).
La pericope della nostra Messa (un taglio della Scrittura per uso liturgico) è vicina alla fine dell’Epistola — Romani: 15, 4-13. Paolo ha già trattato molte questioni serie in questa Lettera. A partire da Romani 14, 1 - 15, 13 (che include la nostra lettura) ha scritto sui “deboli nella fede”, sul calendario ebraico, sulle leggi relative al cibo e sul cibo sacrificato agli idoli. Ha esortato i cristiani romani a non giudicarsi a vicenda (14, 13) e a non essere una pietra d’inciampo per gli altri (v. 14). La sua intenzione era quella di colmare il divario tra le pratiche ebraiche e quelle gentili nel contesto della Nuova Alleanza in Cristo.
Durante la Messa il sacerdote legge e il suddiacono canta (RSV [Revised Standard Version — N.d.T.]):
Tutto ciò che è stato scritto in passato è stato scritto per nostra istruzione, affinché con la costanza e con l’incoraggiamento delle Scritture potessimo avere speranza. Vi conceda il Dio della costanza e dell’incoraggiamento di vivere in tale armonia gli uni con gli altri, in conformità con Cristo Gesù, affinché possiate insieme con una sola voce glorificare il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo.
Si noti la ripetizione del vocabolario e l’enfasi sul vivere in armonia.
Quest’ultima è comprensibile. Paolo era a Corinto dove si erano verificati problemi all’interno della comunità — anzi, si erano presentati in tutte le comunità a cui Paolo ha scritto. A Roma c’era una mescolanza di cristiani ebrei e gentili, ebrei che tornavano dopo l’esilio. Sicuramente ciò avrebbe causato tensioni per quanto riguardava la leadership, su quali usanze seguire, ebraiche o meno, etc. Paolo voleva aiutare i cristiani romani a vivere in armonia.
I termini ripetuti captano la nostra attenzione. Costituiscono un espediente retorico che sottolinea qualcosa di importante. Paolo ha scritto in modo formale: “Tutto ciò che è stato scritto in passato (greco prográphe) è stato scritto (prográphe) per” … cosa? Per dare istruzioni. Perché? Affinché si potesse avere speranza e armonia, letteralmente “essere tutti concordi”. Paolo sta anche insegnando che le Scritture, che a suo tempo erano ciò che chiamiamo Antico Testamento, sono una luce guida.
Nella versione Douay-Reims dei messali tascabili si legge:
Tutto ciò che è stato scritto, è stato scritto per nostra istruzione, affinché attraverso la pazienza e la consolazione offerta dalle Scritture possiamo avere la speranza. Vi conceda dunque il Dio della pazienza e della consolazione di essere concordi gli uni verso gli altri in conformità con Gesù Cristo.
“Costanza” (RSV) e “pazienza” (DRV [Douay-Reims Version — N.d.T.) traducono il greco hypomonē: sostanzialmente, costanza e perseveranza. Nella koinè greca del Nuovo Testamento questa è “la caratteristica di un uomo che non è deviato dal suo scopo deliberato e dalla sua lealtà alla fede e alla pietà, nemmeno dalle più grandi prove e sofferenze”.
Nel Nuovo Testamento, troviamo parole diverse per ciò che viene tradotto in italiano come “pazienza, longanimità, resistenza, perseveranza”, e così via. Makrothumía è sinonimo dell’ebraico arek appayim (“dal naso lungo”, l’immagine delle narici che divampano per la rabbia affannosa, “ribollente”). Entrambe le parole significano essenzialmente la stessa cosa: “lento all’ira”. Nel Nuovo Testamento troviamo anche hypomonē. Generalmente entrambe le parole greche significano la stessa cosa. Tuttavia, gli studiosi hanno notato che ciascuna delle due ha caratteristiche che la distinguono. Il greco makrothumía (sopportare a lungo) è la pazienza delle persone lente all’ira che noi chiamiamo “longanimità”. Il greco hypomonē (cercare di stare saldi) si riferisce a chi sta sopportando cose o circostanze. La makrothumía, nella lista di Paolo dei Frutti dello Spirito Santo (Galati 5, 22-23), sembra più legata all’amore. Il suo opposto sono l’ira e il desiderio di vendetta. L’hypomonē è legata alla speranza, poiché la nostra fiducia è nel “Dio della fermezza e dell'incoraggiamento”. Il suo opposto sono la codardia e lo sconforto. La parola tradotta con “incoraggiamento” è paráklesis, che ci dà Paraclito come nome dello Spirito Santo, il “consigliere, avvocato, incoraggiatore”.
Certamente, c’è una certa misura di interconnessione nei termini, dato che entrambi descrivono il complesso di pensieri ed emozioni che si manifestano quando siamo sotto pressione, sia da parte di persone che da parte di circostanze (che per lo più derivano da persone). Di conseguenza, possiamo constatare che tanto la longanimità (makrothumía) che la perseveranza (hypomoné) dovrebbero essere riflessi e anzi acceleratori delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità.
Quando siamo provati nella nostra hypomonē, cresciamo nella speranza e nella fede nel Signore attraverso la perseveranza nelle vicissitudini della vita. Quando siamo sfidati nella nostra makrothumía, i frutti dello Spirito aumentano, segni esteriori che siamo nello stato di grazia.
Paolo desiderava che i cristiani ebrei e gentili a Roma fossero “in armonia... tutti concordi… tò auto phroneín en allélois”. A tal fine, ha descritto come Cristo sia venuto prima dagli ebrei in modo che la Buona Novella potesse poi essere estesa ai gentili. Ricorderete come all’inizio il Signore sembrò esitare quando una donna gentile, cananea, chiese un miracolo, dicendo che Egli era venuto prima per gli ebrei (Matteo 15, 21-28). Ricorderete che fu nel periodo in cui stava per iniziare la Passione che i gentili di lingua greca vennero a cercarlo a Gerusalemme (Giovanni 13, 20-23). Paolo scrive ai Romani (vv. 8-9):
Vi dico infatti che Cristo si è fatto servo dei circoncisi per mostrare la verità di Dio, per confermare le promesse fatte ai patriarchi e affinché i gentili glorificassero Dio per la Sua misericordia.
“Essere concordi... essere in armonia” non significa essere a un passo dall’abdicare dalla ragione. Ci sono questioni passibili di domande e domande. Tuttavia, quando si tratta di questioni di fede e di morale che sono solennemente o infallibilmente definite, dobbiamo essere in armonia, sia esteriormente che interiormente.
È un imperativo cristiano vivere nell'unità della fede. Si opporrebbe alla Chiesa chi rifiutasse un dogma della fede formalmente definito o un certo perenne insegnamento sulla morale. Le conseguenze di ciò sarebbero nefaste.
Se dobbiamo essere “concordi” riguardo agli insegnamenti formalmente definiti sulla fede e sulla morale, dobbiamo anche essere in armonia nel nostro adempimento della virtù della religione, del dare a Dio ciò che Gli è dovuto, specialmente mediante il culto devoto.
Su questo punto, possiamo essere concordi nella devozione a Dio, come individui, come famiglie, come comunità ecclesiali e, infine, in un modo che ci unisca nella carità reciproca, nell’amore sacrificale per gli altri. Come individui possiamo essere devoti e offrire devozioni a Dio in vari modi. Alcuni potrebbero preferire la Via Crucis, altri la recita del Rosario. Come famiglie, le devozioni potrebbero assumere la forma di preghiere serali recitate tutti insieme tanto prima come dopo i pasti, quando ci si alza e ci si ritira. Come comunità, o come parrocchie, si potrebbero avere novene e altre esposizioni o pratiche fondate sul costume locale. Possono esistere legittime differenze nella partecipazione al culto nella Divina Liturgia della Chiesa d’Oriente o alla Santa Messa nella Chiesa d’Occidente. La chiave è quella di partecipare a ogni attività, da soli o in gruppo, con attenzione reale e scelta voluta.
Una disciplina devozionale intrapresa con vera e diligente devozione è meglio di una dozzina di diverse devozioni strascicate nella distrazione.
Nell’Epistola di domenica ascoltiamo le parole di Paolo: “Accoglietevi dunque gli uni gli altri, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio”. (v. 7). “Come Cristo ha…”.
Il Signore ha detto:
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come Io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete Miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 34-35).
Pratichiamo opere di misericordia per devozione e vera carità. Si consideri l’impatto che questo avrebbe sulle nostre comunità se lo facessimo su larga scala. In ogni caso, se si intraprende questa strada, ci sarà armonia insieme al tipo di pazienza e di incoraggiamento di cui abbiamo bisogno in questa valle di lacrime, in modo che
il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, affinché per la potenza dello Spirito Santo possiamo abbondare nella speranza.
4 commenti:
Maurizio Blondet, 7 dicembre 2022
Agamben:morto Dio, non c'è che Impostura. (di Giorgio Agamben, 5 dicembre 2022)
L'anno scorso c'era la bolla Ineffabilis Deus con cui Pio IX proclamava il dogma dell'Immacolata Concezione, quest'anno c'è quel che dice sant'Alfonso. Noi siamo per metà frutto di nostra madre e per metà di nostro padre ; Gesù Cristo, Dio fatto uomo, è totalmente frutto di sua Madre. Ora, Gesù avrebbe forse permesso che la carne di sua Madre, e quindi anche la sua, fosse stata per un solo istante schiava del demonio col peccato originale ? Avrebbe forse permesso che la sua carne fosse stata contaminata anche allo 0,0, si aggiungano quanti 0 si vogliano, 01 % dal peccato ?
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Basterebbero solo queste riflessioni per concludere all'Immacolata Concezione della Vergine Maria, ma ci sono altre prove come leggeremo negli scritti di Sant'Alfonso dopo aver letto, e perché no, recitato la preghiera di San Pio X a Maria Santissima Immacolata.
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Vergine Santissima, che piaceste al Signore e diveniste sua Madre, immacolata nel corpo, nello spirito, nella fede e nell'amore.
Deh ! riguardate benigna ai miseri che implorano il vostro potente patrocinio: il maligno serpente, contro cui fu scagliata la prima maledizione, continua purtroppo a combattere e insidiare i miseri figli di Eva.
Deh ! Voi o benedetta Madre nostra Regina e Avvocata, che fin dal primo istante del vostro concepimento, del nemico schiacciaste il capo, accogliete le preghiere, che uniti con Voi in un cuor solo vi scongiuriamo di presentare al trono di Dio, perché non cediamo giammai alle insidie che ci vengono tese, così che tutti arriviamo al porto della salute, e fra tanti pericoli la Chiesa e la società cristiana cantino ancora una volta l’inno della liberazione, della vittoria e della pace. Cosi sia
“L’età di sant’Ambrogio e Teodosio rappresenta l’acme del nuovo Impero cristiano, prima dell’urto fatale delle invasioni barbariche, e l’archetipo della società cristiana, quella che sant’Agostino costruì teoricamente nel 𝘋𝘦 𝘤𝘪𝘷𝘪𝘵𝘢𝘵𝘦 𝘋𝘦𝘪 e il Medioevo vagheggiò e tentò a più riprese di attuare. Pur non eccellendo per qualità originali di scrittore, pur adoperando uno stile un po’ impersonale, gravato dal ciceronianismo tipico dell’età sua, sant’Ambrogio esercitò con la sua parola infiammata un fascino irresistibile: basti pensare che a Milano sant’Agostino, ancor prima di convertirsi, subì la suggestione delle sue omelie, e nel 387 ricevette il battesimo per mano sua. Una simile conquista alla fede cristiana, anche se agevolata da molte altre circostanze concomitanti, basterebbe ad assicurare la gloria di sant’Ambrogio!”
(E. Paratore)
Il Rorate cœli desuper è il titolo dell'Introito della messa della quarta domenica di Avvento e del comune della beata vergine Maria. È presente nel repertorio del canto gregoriano. Il ritornello è tratto dal libro di Isaia (45,8): "Stillate, cieli, dall'alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia."
Testo latino
Rorate Cœli desúper,
Et nubes plúant justum.
Ne irascáris Dómine, ne ultra memíneris iniquitátis:
Ecce cívitas Sancti facta est desérta:
Sion desérta facta est: Jerúsalem desoláta est:
Domus sanctificatiónis tuae et gloriae tuae,
Ubi laudavérunt Te patres nostri.
Rorate Cœli desúper,
Et nubes plúant justum.
Peccávimus et facti sumus quam immúndus nos,
Et cecídimus quasi fólium univérsi:
Et iniquitátes nostrae quasi ventus abstulérunt nos:
Abscondísti fáciem tuam a nobis,
Et allisísti nos in mánu iniquitátis nostrae.
Rorate Cœli desúper,
Et nubes plúant justum.
Víde, Dómine, afflictiónem pópuli tui,
Et mitte quem missúrus es:
Emítte Agnum dominatórem terrae,
De pétra desérti ad montem fíliae Sion:
Ut áuferat ipse jugum captivitátis nostrae.
Rorate Cœli desúper,
Et nubes plúant justum.
Consolámini, consolámini, pópule meus:
Cito véniet salus tua:
Quare moeróre consúmeris, quia innovávit te dolor?
Salvábo te, noli timére,
Ego énim sum Dóminus Deus túus Sánctus Israël, Redémptor túus.
Rorate Cœli desúper,
Et nubes plúant justum
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