Dai torchi della intrepida Casa Editrice del Verbo Incarnato, esce in questi giorni “Introduzione all’ateismo moderno” la monumentale (1292 pagine) opera di padre Cornelio Fabro, che ricostruisce l’infelice e disastroso cammino della filosofia moderna, indirizzata all’ateismo radicale dal dubbio cartesiano sulla credibilità degli enti e dalla cieca fiducia nel potere della coscienza vuota .
La radice dell’ateismo moderno, infatti, è l’erronea formulazione del problema dell’essere, “ossia il problema del cominciamento posto da Cartesio e riproposto di volta in volta da Locke, Hume, Kant, Schelling, Hegel, Heidegger. … Solo chi inizia con l’ente e fa leva sull’essere può arrivare all’Assoluto di essere che è Dio; chi parte dal fondamento della coscienza deve finire per lasciarsi risucchiare dalla finitezza intrinseca del suo orizzonte ossia per perdersi nel nulla di essere”.
Fabro stabilisce pertanto il criterio indeclinabile, che deve essere usato quando si affronta il problema dell’ateismo: “Chi accetta la posizione parmenidea che l’essere fonda il pensiero, costui s’incammina in forma positiva verso la posizione finale dell’Assoluto, purché non si arresti per via o non sbandi per qualche falso di metodo. Chi parte invece dal pensiero come fondamento dell’essere si preclude a priori ogni autentica posizione di trascendenza, qualunque sia la determinazione empiristica, razionalistica, idealistica, fenomenistica, materialistica, intuizionistica ecc., che poi si voglia dare all’essere di coscienza”.
L’ateismo moderno rappresenta una oscurante novità, ossia il risultato della separazione del pensiero umano dalla realtà: “Mentre nelle epoche precedenti le sporadiche affermazioni di ateismo provenivano da flessioni più o meno evidenti – e quindi recuperabili – del principio realistico, le quali potevano essere confutate col richiamo al principio fondamentale in quanto questo manteneva intatta l’esigenza di trascendenza, il principio dell’immanenza taglia alla radice la trascendenza”.
Di qui la debolezza e l’inefficacia dell’evangelizzazione strutturata e attuata in obbedienza alle suggestioni del sentimentalismo (che presto degenera in lepido e stucchevole buonismo) e l’obbligo tassativo di riprendere il dialogo con i moderni apostati dalla ricostruzione della filosofia dell’essere, quale fu perfezionata da San Tommaso d’Aquino, accolta ed esposta dai catechismi pre-conciliari ed eclissata dalla teologia progressista.
I cristiani non possono medicare la disperazione cosmica, “che stringe i popoli mentre celebrano i massimi progressi nel dominio delle più segrete energie della natura“, offrendo la dolce consolazione dei panni riscaldati dal buonismo, che allestisce mense e organizza incontri festosi con predicatori buonissimi, piissimi e tollerantissimi.
Il male che rode e tormenta l’umanità ha lontana origine dalla fuga del pensiero filosofico nei territori delle elucubrazioni irrealistiche. Di conseguenza è compito dei cristiani avviare la restaurazione del primato dell’essere sul pensiero ossia ripristinare l’autorità del senso comune.
Un primo, coraggioso ma non definitivo passo nella direzione del realismo filosofico è stato compiuto dall’enciclica “Fides et Ratio”, pubblicata da Giovanni Paolo II ma insufficientemente letta, apprezzata e obbedita dal clero (alto e basso) e dagli studiosi cattolici.
L’opera di Fabro, opportunamente riproposta dall’ordine del Verbo Incarnato, offre un sussidio indispensabile, forse l’ultima occasione offerta ai cattolici, che intendono raccogliere la sfida dell’ateismo e affrontarla con armi vincenti.
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