Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

domenica 4 maggio 2014

Benedetto XVI e il latino

Un'occasione, l'invito di bedwere, per richiamare il l'attenzione sul Latino, lingua sacra da preservare. Per chi dovesse affacciarsi solo ora al blog aggiungo il link a questo testo e, se hanno interesse ad approfondire altro, li invito a consultare il motore di ricerca interno per trovare ulteriori riferimenti utili.

Intervista a Ivano Dionigi, magnifico rettore dell'Università di Bologna

Nello scrigno dei tesori che il pontificato di Benedetto XVI lascia in eredità alla Chiesa c’è anche una rinnovata attenzione al latino. Un amore, quello per la classicità, coltivato a lungo dal teologo Joseph Ratzinger e culminato nell’istituzione della Pontificia Accademia di latinità. Secondo il presidente del nuovo organo, Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, quella auspicata dal Pontefice tedesco non è un’attività da archeologi ma un’opera «di cultura» in grado di dare solide fondamenta a tutta la Chiesa e di rispondere alle domande del tempo attuale.

Professore, da dove nasce questa premura per il latino da parte di Ratzinger?
Da uomo colto quale è, nasce di certo dalla sua sensibilità, dal suo gusto estetico letterario. Ma a questo si aggiunge la consapevolezza che il latino nella storia è stato la lingua dell’«imperium», dello «studium» e dell’«ecclesia». Inoltre questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. Innanzitutto, infatti, essa è stata la lingua dei Padri della Chiesa, la lingua dei teologi, la lingua del diritto canonico, la lingua dei Concili, la lingua della liturgia. Poi è la lingua con cui la Chiesa si è rivolta a tutti i popoli. Infine, nella fissità di quella che tutti considerano una lingua morta si rispecchia l’immutabilità del nucleo della fede. È chiaro quindi che alcune letture della scelta di Ratzinger di rilanciare il latino sono limitate e banali. A spingere Benedetto XVI in questa direzione non è stata, come qualcuno ha detto, la volontà di ricomporre la frattura con i lefebvriani o un semplice ritorno al passato, ma qualcosa di più grande e complesso, qualcosa che viene da lontano. D’altra parte l’attenzione alla lingua e alla cultura latine – che andrebbero accompagnate anche con quelle greche classiche – è un’eredità che Benedetto XVI ha raccolto dai Pontefici suoi predecessori. E forse l’allarme è partito anche dal fatto che oggi pure tra il clero il latino è poco conosciuto.

Ma a cosa può servire il latino oggi alla Chiesa?
Negli ultimi tre lustri a forza di chiederci cosa serve e cosa non serve, in realtà, ci siamo tutti impoveriti. A forza di ragionare in questo modo ci siamo creati un deficit di pensiero e di attenzione all’anima, come ha ben compreso Benedetto XVI. Certo si potrebbe obiettare che oggi la Chiesa ha ben altre priorità, come l’evangelizzazione. Ma con il "benaltrismo" si fa poco, anche perché io credo che oggi la riscoperta del latino non abbia solo un valore fondativo, di ritorno alle radici. In realtà questo rilancio può offrire un contraltare alla modernità, può essere sanamente e positivamente antagonistico al presente.

E in che modo questo sarebbe costruttivo?
Il latino è una lingua tutta imperniata sulla temporalità, sul verbo, è una lingua «sub specie temporis». Questo è il «di più» della riscoperta della lingua e della cultura latina oggi, in un momento in cui tutto è sincronico e c’è la dittatura del presente. In latino anche l’«ordo verborum», l’ordine delle parole, ti fa riscoprire la dimensione del tempo e la vita dell’uomo è tempo. Noi oggi abbiamo bisogno della storia. Inoltre il latino insegna la complessità.

Lei auspica, insomma, che tutti studino il latino?
No, non penso che tutti obbligatoriamente debbano sapere il latino. Ma credo che, come ha saputo ben cogliere anche Ratzinger, il latino sia una ricchezza da spendere. Per questo sono convinto della necessità che nella Chiesa e nelle università ci sia ancora chi capisce il latino, lo insegna e lo sa scrivere. È necessario per permetterci di continuare oggi a essere mediatori culturali: per tradurre i padri, gli autori classici e tutto il patrimonio della Chiesa bisogna sottoporre i testi alle sollecitazioni del tempo attuale e allora a domande nuove bisogna dare risposte nuove. È falsa, insomma, la contrapposizione tra i «progressisti» che sono per l’inglese e internet e i «conservatori» che sono per il latino.

Non c’è il rischio che il latino venga percepito come «lingua del potere» che allontana la Chiesa?
Io penso che la Chiesa debba continuare a farsi capire il più possibile e che anche in quest’opera debba guardare al latino come a uno strumento, non un fine. È vero, poi, che nel passato alcuni hanno fatto un uso ideologico dei classici, mettendoli al servizio del potere, ma il latino non è un fatto ideologico è un fatto culturale. Per usare un’espressione di Massimo Cacciari in realtà i classici non sono al servizio del potere, ma ci liberano dal potere, ci insegnano ad ascoltare senza ubbidire passivamente. D’altra parte l’attenzione ai nuovi media ha dimostrato che Ratzinger è un uomo sensibile al dialogo e l’amore per il latino rientra in questo solco. Il latino, insomma, a mio parere è un supplemento al dialogo in senso etimologico: avvicina al logos, insegna a parlare e a ragionare bene.

Cosa ha provato quando Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni in latino?
Ho pensato che non poteva darle se non in latino, in coerenza con l’annuncio dell’«habemus Papam». Un gesto in linea con il suo amore per questa lingua, che ha voluto affidare anche ai nuovi media. E poi giustamente quello era un contesto solenne, un Concistoro. Confesso, infine, di aver pensato che quell’annuncio dava un bel «vantaggio» al latino.
[Fonte: Avvenire, 2 marzo 2013]

33 commenti:

Anonimo ha detto...

dimissioni date in latino certo, ma con tanto di errore incluso; o tempora, o mores!
Paul

Latinista ha detto...

Un concentrato dei luoghi comuni più triti e infondati che conferma i miei dubbi sull'opportunità che quest'uomo rivesta quella carica.

"Il latino è una lingua imperniata sul verbo", e s'intende che questo è un gran vantaggio. Prego? Per dirne solo una: le famose declinazioni, che tanta parte hanno nella grammatica latina e che tanto risultano ostiche agli studenti, in che modo partecipano a questa concentrazione sul verbo?
Ma soprattutto: il latino è forse l'unica lingua che dia importanza alla ricchezza della morfologia verbale? Proprio noi Italiani abbiamo bisogno di guardare al latino per trovare una lingua con un sistema verbale complesso? Non ne sono sicuro, ma mi sembra un argomento nato in contesti anglosassoni - quelli in cui il verbo ha tre forme e poco più. (Poveri Inglesi, si vede che non hanno la nozione del tempo...)

Spassosa poi la pretesa che il latino insegni "a parlare e a ragionare bene" soprattutto perché illumina l'etimologia delle parole; spassosa soprattutto in bocca a chi un momento prima ha cantato le lodi dell'universalità del latino. Che ridere il pensiero di un Greco, un Libanese, un Indiano, un Cinese che parlano meglio le proprie lingue perché conoscono il latino!
Questo è un argomento preso di peso dai dibattiti degli anni della contestazione in Italia: evidentemente la domanda sessantottesca ("latino = lingua dei padroni?") ha provocato al Dionigi questa risposta come riflesso condizionato.

Ma no, l'intervistatore non c'entra, è proprio il Dionigi che è rimasto fermo agli anni formidabili: questi e simili argomenti, con tanto di riferimenti puntuali a Nenni e a Togliatti, si ritrovano pure nel suo discorso di insediamento alla Pontificia Accademia del Latino, usato anche come premessa al primo volume della nuova serie della rivista vaticana "Latinitas" (quella in cui in latino c'è solo un articolo su quindici, gli indici e alcune poesie in parte oscene).

Così come si ritrovano in quel discorso anche le gustose punzecchiature ai fautori del latino vivo, che il Dionigi vede come il fumo negli occhi.
Preciso che io guardo la disputa con divertito interesse ma con distacco, non facendo parte di nessuna delle due fazioni.

Il tutto sullo sfondo del consueto equivoco di chi sovrappone il concetto di latino a quello di cultura classica.
Quando l'intervistatore passa dalla "rinnovata attenzione al latino" all'"amore per la classicità" come se fossero sinonimi, siamo di fronte a questo equivoco. E anche il Dionigi, che di mestiere è un classicista, tira più volte in mezzo i classici, che a rigore non c'entrano niente.

mic ha detto...

Beh,
la conoscenza del latino, di certo aiuta a conoscere i classici (e i Padri della Chiesa) latini sul testo originale, ponendosi in grado di cogliere molte peculiarità che a volte sono qualcosa di più che una sfumatura.

Lo stesso vale per i classici ( e i Padri) greci.
Con ideale completamento all'orizzonte ebraico (S. Girolamo docet)

hpoirot ha detto...

lo scrigno dei tesori che il pontificato di Benedetto XVI lascia in eredità alla Chiesa

ah ah ah, ma quando mai ?????

si voleva dire lo scrigno degli errori conciliari, al massimo ...

Josh ha detto...

Latinista non ha tutti i torti, e sul signore del post già ti dissi in pvt mesi fa:-)

per il resto...meglio che mi taccio

Latinista ha detto...

la conoscenza del latino, di certo aiuta a conoscere i classici ecc.

Certo, ma il punto è: a Ratzinger, e in generale alla Chiesa di oggi, interessa che si sappiano cogliere le peculiarità della lingua dei classici latini - di Plauto, di Catullo, di Orazio - a cui è esclusivamente rivolta la nostra formazione scolastica?
Plauto è divertente, Orazio è elegantissimo e a volte commovente (Catullo invece resta un ragazzetto debosciato), ma che hanno a che fare con la Chiesa e col cristianesimo? Che cosa più del Petrarca del Canzoniere, o di Hölderlin, o di Milton, e di chissà quanti altri autori eccellenti di lingue che non conosco?
Ovvio: niente.

L'interesse della Chiesa, e probabilmente di Ratzinger, non è quindi piuttosto che si sappiano capire i testi di importanza ecclesiastica, dalle opere dei Padri della Chiesa all'agiografia altomedievale, dai trattati dei filosofi scolastici al magistero attuale?

Ebbene, la lingua di questi testi è sempre il latino, ma non è sempre lo stesso latino. Questo vale soprattutto per la fase medievale, ma credo (per quanto io non sia un esperto) che anche la lingua dei Padri abbia peculiarità di origine biblica, e quindi semitica, che sono del tutto ignote al latino cosiddetto classico, oltre a ciò che deriva loro dal fatto di essere tardoantichi. Concentrarsi sul latino classico e in particolare su autori che non rientrano negli interessi della Chiesa quindi non è l'approccio più utile, e avviene solo per inerzia - perché su quegli autori si basa tradizionalmente lo studio del latino.

Quindi anche se non mi stupisco che i classici, parlando di latino, vengano sempre tirati dentro per i capelli, e magari messi al primo posto, trovo deplorevole che questo sia l'approccio della Chiesa. Non è una novità: era così anche nella Veterum sapientia (fin dal titolo), e in ultima analisi è l'approccio degli umanisti, che ha improntato a sé la percezione del latino in tutta l'Età moderna e contemporanea. I filologi come il Dionigi ne sono gli eredi e i continuatori. Soprattutto per questo non sono le persone più adatte. Se ci mettiamo pure l'insulsaggine e il provincialismo di certi argomenti, come quelli che dicevo sopra, il quadro è completo.

P. S.: Lei chiama in causa anche il greco e l'ebraico. Ecco, appunto. Poter leggere i Padri greci e le Sacre scritture in greco e in ebraico è di sicuro interesse per la Chiesa. Invece non lo sono i classici greci. Omero, Pindaro, Aristofane, Demostene: che hanno a che fare con la Chiesa, di quale interesse sono per essa? Ebbene, anche il Dionigi parla del greco, ma guarda caso indica appunto i classici greci, e non fa una parola dell'ebraico. È la sua formazione di classicista, la sua deformazione umanistica: latino + greco, ovviamente classici (perché, ce ne sono altri?).

mic ha detto...

Amici miei, Josh e Latinista, non ho la vostra conoscenza del personaggio né quella specialistica sul latino.
Mi perdonerete quindi. se, pur di parlarne, ogni tanto mi servo di fuochi di paglia :)

Aggiungo che normalmente non uso questo criterio e non corro rischi di incorrere in supercazzole. ;)

rr ha detto...

quel che scrive Latinista e' senz' altro giusto. Tuttavia, in pratica, ai nostri tempi, cioe' quando la Messa era in latino, ed in Tv ed allla radio si sentiva il Ppapa esprimersi molto di piu' in latino, la lingua era molto piu' familiare, e quando si cominciava a studiarla ale medie, la si trovava molto meno ostica. Inoltre, pur non essendo il latino della classicita' quello del Vangelo, ce ne facevano leggere e tradurre dei brani . Due piccioni con una fava, se mi perdonate l' espressione: s' imparava il latino e si leggeva la Parola di Dio.
Ora non si fa piu' ne' l'uno, ne' l' altro, perche' la scuola e' laica.
E comunque ho avuto la soddisfazione di sentire mia figlia, che inizialmente non ci credeva, dire: ah, ma e' facile seguire la Messa in latino !
Rr

Anonimo ha detto...

Fermo restando che il latino usato dalla chiesa non ha niente a che vedere con il latino classico inteso come Cicerone and co. che il latino medievale ha varie branche specialistiche e ognuna ha un suo linguaggio, che dopo l'umanesimo è tutta un'altra storia, detto che oggi viene massacrato anche nei licei classici con insegnanti ed insegnamenti penosi e traduzioni alla supercazzolissima, resta il fatto che il latino curiale, molto semplice rispetto ad altri canoni, non è più contemplato negli studi dei nuovi seminaristi che vengono spesso da scuole tecniche e non hanno basi classiche o classiciste, poi non so se avete mai avuto sotto il naso che genere di teologi vengano propinati oggi nelle prestigiose(?)università pontificie c'è di che spararsi....stendo un pietoso velo su Dionigi succeduto a Rizzoli,Roversi Monaco et alii per pura consorteria baronale tipica delle università italiche, summa summarum, nessuno lo studia e lo considera più fondamentale, è considerato vecchiume sorpassato....ci metto anche le tante castronerie sul latino di p.Livio che vanta lauree prestigiose alla Gregoriana ed altre 3 università pontificie, ma denuncia provenienza da un istituto tecnico commerciale, quelli triennali che facevano un tempo coloro che non erano in grado di frequentare le medie, quelle pre '68, après le déluge. Lupus et Agnus

Anonimo ha detto...

rr ma i Vangeli non sono scritti in greco? che c'entra il latino con i Vangeli?
Clara

mic ha detto...

Clara,
dimentica la Vulgata. E tutte le letture pre-Vulgata nella Vetus Latina...

mic ha detto...

... dimenticando che il greco di Matteo sembra redatto su un testo ebraico-aramaico, mentre quello di Giovanni rivela il parlante semita e comprende anche dei latinismi...

rr ha detto...

sempre per stare sul pratico, noi medici siam praticoni, si sa: libretto Messe di Pasqua a Notre Dame aParigi testi in francese, inglese, italeiano, spagnolo, tedesco, latino. Un sacco di pagine, un sacco di carta, un sacco di soldi. Usassimo ancora il latino, e dicessimo le Messe anche NO in latino, no bisogno di grossi libretti, alberi e soldi risparmiati
Ed io non mi sentirei estranea nei paesi dei quali non conosco la lingua, assistendo alla S.Messa
Rr

Josh ha detto...

Comunque mi voglio in parte spiegare.

Non era una critica alla tua scelta di pubblicazione, Maria, anzi.
(l'unica critica eventuale al blog per me sarebbe solo che ...sempre troppe cose e molto dense, cui non riesco a star dietro per questioni di tempo, tutto è troppo veloce:-)

prima di tutto rimasi basito della scelta di B XVI. Dionigi è fuor di dubbio che sappia latino e greco, e bene, ma come hanno notato Lupus e Latinista c'è una differenza abissale tra latino ecclesiastico e latino classico.

Al di làè dell'intervistina che è penosa.

Ma c'è anche di più. L'Università di Bologna è un vero covo comunista e post68ino...basti pensare al DAMS collegato a Lettere e alle sue intraprese negli anni 70.

Perchè affidare a uno che fa parte di certe ideologie in modo nemmeno nascosto un incarico di custodia del latino anche ecclesiastico?

Bologna ancora è quel posto malefico in cui la realtà "sfugge" e in cui l'Università con Prodi premiò George Soros per aver affossato l'intera economia italiana, inglese e malese.... cfr qui (per le cose lì descritte è stato premiato, vedete un po'...altrove gli hanno messo una taglia sulla testa!):

http://www.imolaoggi.it/2012/06/21/ecco-chi-e-in-realta-lo-speculatore-georges-soros-arruolato-dai-radicali-come-filantropo/

l'Università di Bologna è la stessa descritta con acume da Colafemmina anche in questo episodio, che rende palese quanto la massoneria diriga anche il pensiero e l'analisi dei testi:
qui l'episodido dei Magi è letto in chiave esoterica e antibiblica!

http://fidesetforma.blogspot.it/2012/12/le-edizioni-san-paolo-e-il-saggio-sui.html

Mi domando anche perchè Dionigi, un non credente, possa esser scelto come custode di una lingua sacra.

Per la Traduzione, per l'Interpretazione anche anticamente lo Scriba si rivolgeva a Dio chiedendone l'ispirazione: i doni di sapienza, intelletto e di conseguenza traduzione, interpretazione sono nello scriba già volti a Lode di Dio e a servizio degli altri, a maggior ragione in ambito di lingua sacra.

Perchè allora è stato scelto un "tecnico" della lingua, per di più non credente, esperto di classici e non di testi sacri, nè del loro linguaggio nè di patristica ?
ha dell'incredibile....

Anonimo ha detto...

Egregio "latinista", perchè lei si fa chiamare tale se poi disprezza così il latino e per sua stessa mano scrive di non essere un esperto? Forse per dare autorevolezza al suo sproloquio? Lo studio del latino serve per fare entrare in una certa forma mentis, nella quale si è formato il cristianesimo. Oltre che ad ampliare le capacità di ragionamento di chi si esercita sulla traduzione del latino. I classici latini sono essenziali per imparare a tradurre (in quanto il latino medievale e ecclesiastico è poco più di un dialetto del volgo). I classici greci invece, in particolare i filosofi, sono fondamentali per capire l'ambiente culturale in cui i vangeli si sono formati. Per quel che riguarda l'italiano, le sue forme verbali sono infinitamente più semplici di quelle latine, al contrario di quanto lei afferma. Il richiamo poi alla lingua inglese che avrebbe solo tre forme verbali secondo la sua opinione, è a dir poco puerile e denota una abissale ignoranza di tale idioma. Concludo dicendo che lo studio dell'ebraico è secondario alla comprensione del nuovo testamento, non lo è invece lo studio della cultura e delle usanze semitiche del'epoca. Lo studio del greco è invece di capitale importanza per cogliere tutti i significati del nuovo testamento. Lei, caro "latinista", mi pare sia alquanto illetterato.

mic ha detto...

Sig. Anonimo che argomenta ad personam insultando. È uno stile, anzi una mancanza di stile che aborrisco.
Lei che evidentemente non si ritiene un illetterato, si è accorto di aver fatto affermazioni apodittiche tutte opinabili?
Al momento non posso soffermarmi oltre. Ho passato il suo post solo perché sono certa che darà ad altri interlocutori, compreso il chiamato in causa, se vorrà, l'occasione di interessanti approfondimenti.
O, in mancanza, lo farò io.

Josh ha detto...

uhm....
che il latino medievale e ecclesiastico sia solo poco più di un dialetto del volgo distinguerei...
la Patrologia latina è varia

vero che inizialmente si affibbiò (non a tutto) l'etichetta di sermo piscatorius...

ma a caso, a mente, affermazioni sottili come le seguenti non mi sentirei di catalogarle come "dialetto del volgo" nè per forma nè per concetti e mirabile sintesi di forma e sostanza.

_S. Agostino (e in questo avrebbe trovato d'accordo tutti gli intellettuali del medioevo) riteneva potersi le "creaturae" considerare "ut res vel ut signa"
[S. Agostino, De Doctrina Christiana, I, 2, Quid res, quid signa (PL 34, 19-20) "Hae namque ita res sunt, ut aliarum etiam signa sint rerum"]
e la dice lunga sulla connotazione simbolica e carica del linguaggio adoperato. Se le res contavano a livello esistenziale, solo i signa comunicano conoscenza, ed esistono a livello conoscitivo e culturale. E' in realtà un processo di semiosi assolutamente consapevole: dal reale-concreto verso lo spirituale, e nell'altra direzione, dal modello astratto alla realtà e alle strutture simboliche delle cose.

Mi pare il tutto denoti un uso del linguaggio, della parola, del concetto e del segno assolutamente consapevole e in fondo raffinato.

_Ugo da S. Vittore "Symbolum est collatio formarum visibilium ad invisibilium demonstrationem"
intendendo che ai visibilia fanno capo non solo le res contenute nel mondo fisico, ma quelle ricavabili da episodi della realtà Scritturale, come nello Speculum Humanae Salvationis in cui si applica la legge della prefigurazione per cui l'AT offre symbola e figurae e allegoriae in factis del Nuovo, e di cose che si realizzeranno.

I simboli dunque già nella cultura del tempo sono una categoria di signa perchè producono conoscenza e non solo indicano qualcosa, anzi aiutano ad afferrare il mondo invisibile (e questo è concetto pienamente filosofico, teologico e cattolico)

cfr Ugo da San Vittore "Commentariorum in Hierarchiam Coelestem S. Dionisii Areopagitae secundum interpretationem Joannis Scoti...Libri X, in II, I (PL 175, 941) "Aliquando per signa sensibilibus similia invisibilia demonstrata sunt (...) Cum itaque formis, et signis, et similitudinibus manifestatur, quod occultum est, vel quod manifestum est, describitur, symbolica demonstratio est" (941-42)

Josh ha detto...

sui "settori" multipli del latino medievale, una prova a quanto sostenuto da Lupus et Agnus.

per es. poco sopra ho appena accennato alla consapevolezza linguistica e semiotica del linguaggio d'allora.
beh Rabano Mauro in questa direzione fa un esempio calzante.

per es. il vocabolo "turris", come noto a contenuto fortemente simbolico, a volte era usato come robur predicationis, o come virtus humilitatis, o addirittura come superbia mundi. (PL 112, 1070)

O Petrus Comestor nella "Scolastica Historia", nel libro I, al cap. De signis perfectionis, osserva che simboli e allegorie vanno interpretati diversamente a seconda che il destinatario sia membro dei prelati, o dei coniugati, o dei clerici.

Esiste quindi anche una notevole specializzazione linguistica settoriale in questo latino medievale, che cambia significato e significante a seconda dei destinatari del discorso.

Josh ha detto...

in chiusura, sulla pretesa povertà di quel linguaggio, concedetemi una battutaccia finchè me l'avete fatto venire in mente e l'ho sottomano...

il citato Ugo da S. Vittore in PL 175,946 commenta la nozione di humana hierarchia, e poco dopo (962) tiene a precisare sottilmente che

"non omnis ordo hierarchia est"

cioè non ogni tipo di ordo ha le carte in regola; di più,
non ogni tipo di ordo è ordinato a un principio sacro...

e qui l'icasticità della frase (hierarchia non va tradotto semplicemente "gerarchia" è fuorviante, perchè il composto greco originario va reso) ha inquietanti legami con la modernità e il presente.

mic ha detto...

Davvero interessante, Josh :)

rocco ha detto...

e' vero che Gesu' parlava aramaico ebraico greco e latino?
poi ho letto che le citazione dell'antico testamento che fa Gesu' nei vangeli, sono riprese dalla traduzione dei 70?

mic ha detto...

l'aramaico e l'ebraico è certo. Il latino, pure, dato che era la lingua degli occupanti. Era colto, e dunque doveva conoscere anche il greco, lingua della koiné.
Abbiamo l'esempio di Paolo, Luca e di Giovanni che parlano un greco perfetto, di Marco, che stende in greco la predicazione di Pietro...
Le citazioni della Scrittura o dei detti rabbinici di Gesù sono tutte riconoscibili nell'esistente, compresa la traduzione dei 70.
Non a caso il Rabbino Neusner si sente a casa nel "discorso della montagna". Solo che non riesce ad oltrepassare le espressioni che oltrepassano la legge mosaica, seguendolo (aderendo a Lui) nell' "ma io vi dico... "
e dimostra come è proprio Cristo Signore la pietra di 'scandalo'.

Latinista ha detto...

Egregio "latinista", perchè lei si fa chiamare tale ecc.

Mi faccio chiamare "Latinista" perché la prima volta che intervenni su questo sito fu a proposito di latino, e volli qualificarmi. Una volta datomi il nome l'ho mantenuto anche in seguito. Nel mio piccolo sono davvero un latinista, insegno in un'università. Non sono un esperto del latino dei Padri della Chiesa, e a quello in particolare mi riferivo.

Non disprezzo il latino, che è il mio lavoro e che ho scelto per convinzione pagando anche a caro prezzo questa scelta. Però ho chiaro che i suoi pretesi superpoteri formativi sono una leggenda, per lo meno se li si ritiene esclusivi del latino. Non è tradurre dal latino che aiuta a ragionare, ma tradurre da qualsiasi lingua straniera, tanto più quanto più è distante dalla nostra. Ciò che stimola il ragionamento è la trasposizione di un concetto da un sistema linguistico in uno diverso.
Poi, nel momento in cui si sceglie quale lingua inserire nei programmi scolastici anche a questo scopo, può avere senso preferire il latino al basco, ma per ragioni di radici culturali, non per un maggior valore formativo intrinseco del latino.

Lo studio del latino serve per fare entrare in una certa forma mentis, nella quale si è formato il cristianesimo.

Sarei curioso di sapere qual è questa forma mentis. Posso solo dire che il cristianesimo nacque in ambiente semitico e si sviluppò per alcuni secoli in ambiente greco. Anche le comunità cristiane nell'occidente romano erano ampiamente grecofone, e infatti il latino cristiano si distingue soprattutto per i suoi peculiari grecismi (e semitismi). Insomma, né il latino come lingua, né l'ambiente culturale prettamente romano antico ebbero alcuna parte nella formazione del cristianesimo, o ne ebbero una relativamente marginale.
Solo dopo i primi secoli il latino prese importanza; ma ancora non la cultura classica. I Padri latini erano spesso in polemica contro la cultura classica, e soprattutto contro gli autori pagani. La riabilitazione si ebbe ancora più tardi.

I classici latini sono essenziali per imparare a tradurre (in quanto il latino medievale e ecclesiastico è poco più di un dialetto del volgo).

Si offende se Le dico che il Suo giudizio sul latino medievale ed ecclesiastico è fuori dal mondo? Non so da dove cominciare. Magari provi a confrontare la Vita nuova e il De vulgari eloquentia di Dante e veda se Le sembrano scritti in varianti diastratiche della stessa lingua, posto che la prima è scritta appunto nel dialetto "volgare" di Firenze.
Ma soprattutto: "i classici latini sono essenziali per imparare a tradurre" quale lingua? Il latino classico, che ha caratteristiche diverse dalle forme di latino usate dalla Chiesa nel corso della sua storia. Per imparare a tradurre, cioè a capire, il latino ecclesiastico, medievale ecc., sono invece essenziali gli autori ecclesiastici, medievali ecc., e non quelli classici, la cui lingua occasionalmente può rivelarsi addirittura fuorviante. Il discorso centrale è appunto sull'inopportunità che un istituto ecclesiastico si concentri sul latino classico e non su quello ecclesiastico.

[Continua]

Latinista ha detto...

I classici greci invece, in particolare i filosofi, sono fondamentali per capire l'ambiente culturale in cui i vangeli si sono formati.

Che la filosofia greca sia di grande interesse per gli studi cristiani è vero. Ma i classici greci non sono solo i filosofi, e può star certo che non è solo a quelli che si riferisce il Dionigi.
Detto questo, voglio precisare che ho colto lo spunto di mic sul greco e l'ebraico per mostrare come il Dionigi non ragioni in funzione degli studi cristiani, ma seguendo pari pari la sua formazione umanistica. Non dimentichiamoci però che si sta parlando dell'Accademia del Latino. Dato il ruolo storico di questa lingua, questo istituto si dovrebbe concentrare soprattutto sullo sviluppo storico della civiltà cristiana occidentale, mentre le origini delle Scritture, greche ed anche ebraiche (c'è anche il Vecchio Testamento), sono di competenza dell'Istituto Biblico.

Per quel che riguarda l'italiano, le sue forme verbali sono infinitamente più semplici di quelle latine

Il sistema verbale latino ha otto modi, contro i sette dell'italiano; d'altra parte il più importante, l'indicativo, in italiano ha otto tempi, in latino solo sei (alla faccia della "temporalità" del latino). Così l'italiano può distinguere tra "sono stato" e "fui" mentre il latino può dire solo "fui". Dov'è l'infinita semplicità del verbo italiano rispetto a quello latino?

Il richiamo poi alla lingua inglese che avrebbe solo tre forme verbali secondo la sua opinione, è a dir poco puerile e denota una abissale ignoranza di tale idioma

Il mio accenno all'inglese voleva essere un po' caricaturale, ma naturalmente caricava un dato reale, e cioè la maggior semplicità del verbo inglese - questo sì - rispetto a quello latino. Non solo per la quasi totale scomparsa in inglese moderno delle desinenze personali, che l'inglese antico e in parte anche quello medio ancora avevano; ma proprio per una maggior povertà del sistema di modi e tempi. Ad esempio, l'inglese - come anche il tedesco - elimina l'opposizione aspettuale tra passato imperfettivo e perfettivo: così "I was" può corrispondere tanto a "eram" quanto a "fui".

Josh ha detto...

a ulteriore dimostrazione di questo passaggio di Latinista, che riporto

"...il cristianesimo nacque in ambiente semitico e si sviluppò per alcuni secoli in ambiente greco. Anche le comunità cristiane nell'occidente romano erano ampiamente grecofone, e infatti il latino cristiano si distingue soprattutto per i suoi peculiari grecismi (e semitismi). Insomma, né il latino come lingua, né l'ambiente culturale prettamente romano antico ebbero alcuna parte nella formazione del cristianesimo, o ne ebbero una relativamente marginale.
Solo dopo i primi secoli il latino prese importanza; ma ancora non la cultura classica. I Padri latini erano spesso in polemica contro la cultura classica, e soprattutto contro gli autori pagani. La riabilitazione si ebbe ancora più tardi."

infatti l'ultimo passaggio è storicamente lento e non univoco, avviene lentamente una sorta di compenetrazione ma anche una netta differenziazione.

per intendere il ruolo del latino nel lungo evo cristiano (fermo restando aramaico, ebraico e il greco e la loro eredità e le origini) nelle diverse fasi, si può provare ad intenderne alcuni modi di funzionamento a riguardo dei concetti e dei campi simbolici, per me questo è importante anche se rapportato ad oggi e per capirne di più.

La cultura medievale è pervasa da una dimensione fortemente >allegorica< , e questo in maniera diffusissima.
Tutta l'epoca presenta un fortissimo senso dell'esegesi (non solo IN Chiesa).
L'attitudine esegetica (che si diffonde anche nel solo desiderio di ri-spiegare e ordinare il mondo alla luce del Vangelo, e risistemarne lo scibile) funziona naturalmente meglio se le storie cui si applica il messaggio allegorico sono già note ai lettori e agli uditori:
_sia i testi biblici
_sia i miti dell'antichità
per motivi diversi sono fruibili in un processo allegorico, perchè costituiscono una serie culturale nota alle masse (molto più di oggi, epoca della scolarizzazione fittizia) e possono esser vivificate dallo spirito allegorico.
Per rendere questi passaggi il latino ha un suo potere di ricchezza figurativa e di definizione, diciamo, e di potere conservativo ma alla lunga nei secoli.

Sia Predicatori-Pensatori-Santi sia...scrittori ed artisti, tramite il latino anche tardo alimentano e arricchiscono tramite il mezzo allegorico i messaggi biblici quanto quelli mitologici, ovvio con altri fini e solo talvolta con un trait d'union.

Beda il Venerabile (VIII sec.) è storicamente il primo a compiere netta distinzione tra allegoria in factis e allegoria in dictis/verbis, in "De Schematibus et tropis Sacrae Scripturae Liber" (PL 90, 175-86) ma la riflessione sui processi allegorici applicati al testo sacro risale sì a S. Agostino, ma in realtà a S.Paolo stesso nella Scrittura.

"Notandum sane quod allegoria aliquando factis, aliquando verbis tantummodo fit" (Beda, PL 90, 184-185)
"Factis quidem, ut scriptum est "Quoniam Abraham duos filios habuit, unum de ancilla, et unum de libera, quae sunt duo Testamenta" ut Apostolus exponit. Verbis autem solummodo, ut, Isai, XI, "Egredietur virga de radice Jesse, et flos de radice eius ascendet" quo significatur de stirpe David per virginem Mariam Dominum Salvatorem fuisse nasciturum"

la distinzione è ovvio meglio formulata da S.Tommaso, che illustra la funzione teorico-pragmatica del fenomeno. L'allegoria in factis è prima del testo, e collega tra loro persone e fatti veri dell'Antico Testamento come praefigurationes di successive persone o fatti del Nuovo Testamento o della storia.
Ma qui il rapporto tra prefigurante e prefigurato non è di origine retorica, ma verità divina.
Nelle Scritture (e nella vita) è Dio stesso a creare la relazione tra i fatti, appunto allegoria in factis.
Il reale è preordinato da Dio ed è segno del futuro: Davide è di fatto signum del Cristo.
(continua)

Josh ha detto...

(riprendo)
Invece l'allegoria in dictis/in verbis è struttura retorica, metafora continuata.
Quest'ultimo concetto è già in Quintiliano (Inst.Or.) che dice della translatio che "usus...continuus vero in allegoriam et aenigmata exit", e di lì in Isidoro, etc
L'esempio precedente di Beda mostra che i termini virga, radice, flos de radice provengono da un campo ben preciso.
Beda afferma anche che nella S. Scrittura lo stesso fatto (di segg. vendita di Giuseppe agli Ismaeliti) è narrato col contributo di entrambe le allegorie, in factis e in verbis:

"Aliquando factis simul et verbis una eademque res allegorice significatur: factis quidem, ut Genes. XXXVII "Vendiderunt Joseph Ismaelitis triginta argenteis"; verbis vero ut Zachar. XI "Appenderunt mercedem meam triginta argenteis" (c. 185)

quindi nel testo sacro vediamo allegoria in factis (v. sopra) e anche in dictis; d'altro canto sappiamo invece dalla cultura in genere dell'opposizione tra allegoria dei teologi e allegoria dei poeti.
L'allegoria dei teologi, in quanto applicata alla Scrittura-Verità è sempre in factis, ma si integra in un sistema esegetico costruito sui 4 sensi della Scrittura (letterale, allegorico, etico o tropologico, anagogico), giustificato dal segno divino della polisemia della Bibbia.

cfr. S. Tommaso, al principio della Summa (I, Qu, I art.10)..l'esistenza di 4 sensi della Scrittura non produce aequivocatio: la multiplicitas è dovuta al fatto che "ipsae res significatae per voces aliarum rerum possunt esse signa", e insegna che bisogna sempre partire dal senso letterale e non dall'allegorico. L'allegorico è costruito sui signa.

Lo stesso Dante nel Convivio nota la questione dei 4 sensi. Il senso allegorico per Dante è preso da componimenti poetici classici, mentre il senso morale e anagogico è riferito solo a passi scritturali.
Dante aveva chiara la differenza tra la prefigurazion divina nel testo sacro e il proprio uso allegorico tra meri testi poetici nel Coniviuo.

cfr. Convivio II, 1 4 "Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato"

Sul rapporto tra parole fittizie dei poeti e allegoria (pur presa come...tecnica, dalla Bibbia) anche nel Didascalicon (libro VI) di Ugo da San Vittore; e nel "Trattatello in laude di Dante" di Boccaccio in cui annota che i poeti imitano quello che lo SS. fa nella Scrittura, pur sapendo bene di non essere lo SS. E che "sotto coperta di alcune finzioni....ciò che desideravano o che presumevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono".

In breve si è visto uno scambio di tecniche del discorso, dalla S. Scrittura al mondo di fuori, ma esiste anche un movimento inverso, dal mondo pagano al mondo cattolico, per es. nell'omiletica, con i dovuti distinguo, sempre all'insegna del latino e dell'uso consapevole di lingua e simboli. (segue)

Josh ha detto...

(riprendo)
Fu invece Origene per primo ad adoperare l'insolito connubio di "teologia mitica" (che non sembrerebbe troppo osservante), per indicare l'incontro tra allegoria pagana (a partire da Omero) e allegoria cristiana.
Svolgerlo sarebbe infinito, per la sovrimpressione di punti di vista cristiani e secoli di allegorie pagane, dagli allievi di Anassagora (V a.C.) (allora l'allegoria si chiamava Hyponoia, ὑπόνοια) in poi.
(cfr. Hugo Rahner -non Karl!:-) "Griechisce Mythen in christlicher Deutung", Rhein Verlag, Zurich 1957 poi in "Miti greci nella interpretazione cristiana", Il Mulino, Bologna 1990).

Nel mondo cattolico ha un ruolo (graduale) la lettura dei classici.

Giustino (II sec.) e il Logos Spermatikos (trattato anche da Mic) come parziale epifania divina anteriore alla venuta di Cristo: nella I Apologia commenta anche alcuni miti "Se noi diciamo che è stato generato da una Vergine, poniamo che questo sa in comune con il vostro Perseo. Dicendo che ha guarito storpi e paralitici, ha risanato persone malate dalla nascita e ha risuscitato i morti, SEMBRA che anche in ciò diciamo cose simili alle azioni di Asclepio" (I, 20, 3-23) ma ribadisce che esistono forse somiglianze, ma la Verità è solo Cristo.

Nei secoli III e IV si alternano posizioni di attrazione e sospetto riguardo alla cultura classica e pagana. Clemente di Alessandria nel Protrectico ai Greci (IX, 9, 86, 2)"Noi abbiamo sperato nel Dio vivente...gli altri aggrappati al mondo come alghe a rocce marine, dell'immortalità fanno poco conto, come il vecchio Itacese _n.d.r. Ulisse- desiderando non la verità e la patria celeste, e quella che è la vera luce, ma il fumo".

Clemente negli Stromata (VI, 10, 80, 5) invece cita Ulisse come esempio di resistenza alle Sirene, personificazione mitica della conoscenza pagana.

Nel IV sec. Basilio di Cesarea "Discorso ai giovani sul modo di trar profitto dalla letteratura greca" (tradotto in fase umanistica da Leonardo Bruni) afferma che la lettura dei classici è compatibile con le Scritture: i classici presentano modelli di virtù (certo sono altre virtù) ma al par. 4 si insiste sul comportamento da tenere: trarre il miele dai classici grecolatini, ma tapparsi le orecchie in altri casi....
Balziano nel secolo XII e Onorio di Autun nello "Speculum Ecclesiae" (PL 172,855) nel Sermo per Domenica di Settuagesima si sofferma su Ulisse che incontra le Sirene ma dicitur sapiens.
Onorio narra l'episodio omerico (come parlando a chi già lo conosce) ma aggiunge "haec sunt, carissimi, mystica, quamvis per inimicos scripta".
Le sirene della falsa sapienza, del peccato e del mondo, non ci distolgano dall'unica Via Verità Vita, Gesù.

Una chiave d'accesso del concettualismo medievale (ma prometto di fermarmi) è la "figura", ovvero tutto quanto è stato meditato a partire da questa concezione:

Romani 5,14

la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

Ebrei 9,9

Essa infatti è una figura per il tempo attuale, offrendosi sotto di essa doni e sacrifici che non possono rendere perfetto, nella sua coscienza, l'offerente,

Ebrei 9,24

Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore,

il greco per la Patrologia Greca, il latino per la Patrologia Latina -pur con le differenze, le sfumature, etc chiavi del pensiero d'Occidente- sono il modo di aprirne lo scrigno.

E' piuttosto impensabile che i clerici odierni ne siano in gran parte digiuni: sarebbe come non aver accesso alla propria Memoria, alla propria stessa "fondazione" e Identità.

Josh ha detto...

cfr veloce:

sulla "figura", di importanza capitale il
"figuris terminum" in S. Tommaso d'Aquino

http://it.wikipedia.org/wiki/Panis_Angelicus

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se non accediamo più al sopracitato patrimonio, in lingua,
si verifica questa scissione:

_S. Agostino postulava in «Fede e Credo» : "L’uomo comprende tre parti: spirito, anima e corpo" (Fede e Credo, XX: 23).

cfr veloce
http://salvatorecomisi.unblog.fr/2011/07/17/luomo-creatura-bipartita-o-tripartita/

_ma la modernità ha sdoganato un'altra tripartizione, carnale, pulsionale, quella...freudiana: Io, Super Io, Es (!)

e non è un caso che il vdr pochi giorni fa abbia preferito il Freudismo alla Tradizione cattolica:

"dietro ad ogni idealizzazione c'è un aggressione"

e c'era bisogno di Freud per affermarlo?

http://www.adsfullpress.com/joomla/eventi-religiosi/19-dietro-ogni-idealizzazione-c-e-un-aggressione-papa-francesco-si-affida-a-sigmund-freud.html

mi sembra di sognare...




rr ha detto...

GRAZIE, JOSh, per la tua lectio !!!
RR

Anonimo ha detto...

Stimato "latinista", innanzitutto mi scuso per alcune espressioni forti usate nel mio precedente intervento. Vorrei però approfondire alcuni concetti. Non mi trovo d'accordo che tradurre da una lingua valga tanto come tradurre da un'altra. Ogni lingua ha sue caratteristiche, tanto che sovente alcune espressioni o concetti sono intraducibili. Tradurre dal latino aiuta a ragionare non solo per la trasposizione di un conceto da una lingua ad un'altra, ma perchè il latino è una lingua precisa (molto più dell'italiano) in cui per capire ciò he si legge bisogna collegare tra loro i vari "casi" delle declinazioni, quasi impossibile se non si parte dal verbo nell'analizzare la frase. Pertanto il procedimento di analisi di una frase latina è completamente diverso da quello per una frase in inglese, per tradurre dal quale non bisogna essere dei geni di analisi logica. Questo discorso è ancora più vero per il greco, dove con il verbo si trovano difficoltà ancora maggiori.
Che il Cristianesimo sia nato in ambiente semitico è vero sino ad un certo punto. In realtà è nato in un ambiente di incontro tra ellenismo ed ebraismo. Non a caso tutte le citazioni dell'Antico Testamento che troviamo nel Nuovo sono prese dalla versione della Bibbia dei Settanta e non dalla versione ebraica diffusa tra gli ebrei "ortodossi" del tempo di Gesù.
Per quel che riguarda il mio commento del latino medievale ed ecclesiastico come poco più di un dialetto del volgo, è stata una esagerazione volta a sottolineare gli anni luce di distanza tra come si scriveva nel Mille o giù di lì e come scriveva ad esempio Cicerone, in cui per rendere due parole bisogna scrivere una frase. La struttura del periodo nel medioevo è già molto vicina all'italiano ed è pertanto più semplice da un certo punto di vista. Sul discorso della complessità dei verbi italiani, mi permetta di farle notare ad esempio la differenza ne modi indefiniti tra latino e italiano e il fatto che in italiano ad esempio il congiuntivo sia ormai merce rara. All'acciandomi infine all'inglese c'è da notare come in quest'ultima ad esempio abbia più modi dell'italiano per esprimere il futuro, con sfumature a noi sconosciute. In italiano il futuro è ormai quasi totalmente assorbito dal presente (in alcuni casi il presente è usato anche al posto del passato), segno di una civiltà morente che sa solo guardarsi indietro e non avanti.

Anto.

rocco ha detto...

grazie mic , come sempre puntuale!.
sarebbe interessante sapere quale era la lingua piu diffusa al tempo di Gesu'. mi spiego:
ho sentito spesso dire che Dio scelse Roma perche' capitale del mondo e perche il cristianesimo si sarebbe diffuso piu facilmente. tale spiegazione pero' mi ha sempre lasciato perplesso perche' mi sembra che consideri solo l'aspetto materiale della questione. sono convinto , ma non riesco a identificarne con chiarezza le ragioni, che la scelta di roma sia avvenuta anche per altri motivi, non ultimo quello della lingua, che in un certo senso rispecchia il modo di pensare e agire di una popolazione.
che ne pensi?

rocco ha detto...

mic, trovato... mi avevi gia risposto, ma avevo dimenticato questa tua pubblicazione...

http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2014/02/cattolicita-e-romanita-della-chiesa.html

Josh ha detto...

nel frattempo, se intra moenia la situazione non è rosea,
extra moenia approvato e già operativo, per chi non lo sapesse, un "liceo sportivo",
ovvero la diminutio del "liceo",
senza Latino e senza Storia dell'Arte.

cfr. Gazzetta Ufficiale (scorrendo vedete anche le materie, le ore...si sa mai, che non vengano su troppo tradizionali 'sti studenti eh)

http://2.flcgil.stgy.it/files/pdf/20130520/decreto-presidente-della-repubblica-52-del-7-marzo-2013-regolamento-liceo-sportivo.pdf