Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

venerdì 2 maggio 2014

La solita borghesissima rivolta antiborghese ha instaurato una sorta di eresia dell’informe che si nutre di esegesi del brutto come unica lettura del Vangelo.

Un sentito grazie ad Alessandro Gnocchi per questa condivisione.

Uno spettro si aggira laicamente per il secolo: è lo spettro della mala educazione. Ma, per quanto sia baldanzoso, avrebbe vita grama se non trovasse alimento nel confratello che si aggira religiosamente per i documenti ecclesiali col nome di ”emergenza educativa”. L’uno e l’altro, più che nei programmi di educazione civica o nei piani pastorali di nuova generazione, potrebbero trovare almeno un po’ d’argine in quei libricini di formazione del laicato cattolico finiti nei mercatini di antiquariato. Erano  pubblicati da diocesi, ordini religiosi, confraternite, pie unioni e persino da singoli sacerdoti ad uso dei loro parrocchiani. Hanno titoli come “Educazione della giovinetta cattolica”, “Manuale del giovane cristiano”, “Decoro della sposa cristiana” o “Doveri, responsabilità e precetti del capofamiglia”: roba da far ridere i pedagoghi d’oggi, ma formavano l’ambiente in cui ragazzini come Domenico Savio si santificavano preferendo la morte al peccato, oppure fanciulle come Maria Goretti e Pierina Morosini sceglievano la purezza a costo della vita, e tanti altri, senza oltrepassare la soglia di una santità conclamata, mettevano su famiglie in cui l’emergenza non riguardava il degrado dei costumi.

Il segreto della loro efficacia stava in quello che oggi viene scambiato per formalismo. Ma, per comprenderli davvero, bisogna saperli leggere con almeno un po’ di amore a ciò che trasmettevano. Allora si scoprirebbe che educavano alla buona creanza cristiana applicando un metodo condensato in sonante essenzialità al punto 252 del “Catechismo” di San Pio X: “Che cos’è la virtù morale? La virtù morale è l’abito di fare il bene, acquistato ripetendo atti buoni”. E, padre Carlo Dragone, nella sua “Spiegazione del Catechismo”, così glossava nel 1956: “Nel Battesimo vengono infuse le virtù teologali e le virtù morali, che però danno soltanto la capacità di compiere atti soprannaturali e virtuosi. La facilità si acquista ripetendo gli atti buoni, in modo che si formano le buone abitudini o abiti virtuosi acquisiti. Perciò le virtù morali, che rendono buoni i nostri costumi, sono inclinazioni  buone, abitudini di fare atti buoni, acquistate con l’esercizio”.

Come dire che la grazia è la materia prima della Grazia, un’evidenza che ha origine in pagine e pagine evangeliche dove la Buona Novella si fa per le buone maniere come lo stampo per la cera. “Praesta, quaesumus, omnipotens Deus: ut qui paschália festa perégimus; haes te largiénte, móribus et vita teneámus”, dice l’orazione della messa tradizionale della domenica in albis appena trascorsa, la prima dopo Pasqua: “Concedi, o Dio onnipotente, che, avendo celebrate le feste pasquali, ne conserviamo per grazia tua lo spirito nei costumi e nella vita”.  E, nel Vangelo di questa messa, è proprio la buona grazia di Gesù risorto a sanare la sgarbata incredulità di Tommaso. Per lui, che otto giorni prima non era presente alla sua apparizione nel cenacolo, il Signore torna a mostrare con mansuetudine cerimoniosa le piaghe sul suo corpo: “Metti qua il tuo dito, osserva le mie mani, accosta la tua mano, e mettila nel mio costato: e non essere più incredulo, ma credente”. “Dóminus meus, et Deus meus”: vinto dall’estrema grazia con cui lo ha trattato il suo Signore e suo Dio, Tommaso ne confessa la divinità come nessun altro apostolo aveva fatto fino ad allora e poi ne porterà la lieta notizia fino in Persia e in India, fino al martirio.

E’ in questo intrattenersi così intimo e cerimonioso, dove la forma purissima del sacro fa da calco alla materialità del gesto e della parola, che l’uomo ha fruttuosa relazione con Dio. Qui dimora la saldezza delle vere conversioni, a patto che la cerimonia, fosse anche per la debolezza dell’uomo, possa ripetersi orientandosi al rito. “Il ritardo dei discepoli a credere alla risurrezione del Signore” spiega San Gregorio Magno nel “Terzo Notturno dell’Ascensione” “più che a dimostrare la debolezza loro, servì a nostra maggiore garanzia. Infatti il loro dubbio fu occasione che la risurrezione venisse dimostrata con molte prove (…). La storia della Maddalena così pronta a credere, è meno utile a me che non quella di San Tommaso che dubitò per tanto tempo, poiché questo apostolo, nel suo dubbio, toccò le cicatrici del Signore e così tolse dal nostro cuore la piaga del dubbio”.

La cerimoniosità rituale risponde alla natura liturgica dell’uomo: cosicché, per esempio, un San Francesco di Sales amava insegnare che le buone maniere sono il principio della santità o un Leon Bloy diceva che “solo le persone senza profondità non si fidano delle apparenze”. Ma oggi si manifesta un cristianesimo che si sente tanto più autentico quanto più si fa nemico del minimo fremito di reverenza per la forma. La pratica religiosa ormai si gloria di attingere solo alla sostanza finendo per rimestare nella materia lasciata a se stessa. La solita borghesissima rivolta antiborghese ha instaurato una sorta di eresia dell’informe che si nutre di esegesi del brutto come unica lettura del Vangelo.

Eppure, la vita e l’insegnamento di Gesù, i gesti più veri di chi gli sta intorno sono uno spreco di bellezza, parto della devozione spirituale al mistero di tutto ciò che esiste. Negli eventi grandiosi e nelle cose minime, nei gesti regali e nelle piccole attenzioni quotidiane, i personaggi del Vangelo sono gentiluomini vocati alle buone maniere.

Tra gli esempi più luminosi vi è la cena di Betania, nella casa di Simone. Una cerimonia così densa di gesti e di significati ulteriori che necessitano di diversi racconti evangelici per essere colti tutti. Quella sera, racconta San Luca, Gesù entrò nella casa di Simone il fariseo e si mise a tavola. “Ed ecco una donna, che era peccatrice in quella città, appena seppe che egli era a mangiare nella casa del fariseo, portò un alabastro d’unguento e stando ai piedi di lui, di dietro, con le lacrime cominciò a bagnarne i piedi e coi capelli del suo capo li asciugava e li baciava e li ungeva d’unguento”. Il padrone di casa, costernato per tanta attenzione donata a una peccatrice, aveva certamente organizzato un pranzo di grande livello, con accurata distribuzione dei commensali, precisione del servizio, qualità delle pietanze. Ma l’invitato per il quale tutto questo era stato preparato lo rimprovera perché quelle buone maniere non sono degne della Buona Novella che lui porta in dono: “Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; ma essa li ha bagnati colle sue lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, ma lei da che è venuta non ha smesso di baciarmi i piedi. Tu non hai unto d’olio il mio capo, ma essa con l’unguento ha unto i miei piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui poco si perdona, poco ama”. Minuzie da povero formalista, si direbbe oggi, eppure Gesù, perfetto Dio e perfetto uomo, ne nota l’assenza. Poiché il rito con cui si adora il Signore e la cerimonia con cui si rende omaggio al prossimo non raggiungono il loro scopo se non compiono tutto ciò che è prescritto.

Nella sua cronaca, San Matteo si sofferma sull’indignazione dei discepoli: “A che tale sciupìo? Quest’unguento si poteva venderlo caro e darne il ricavo ai poveri”. Ma rimarca soprattutto il rimprovero che tale moto terreno e sentimentale provoca da parte del Signore: “Perché date noia a questa donna? Ella ha fatto una buona azione verso di me. Infatti voi avrete sempre i poveri con voi, ma non sempre avrete me. Costei, spargendo quest’unguento sul mio corpo, lo ha fatto per la mia sepoltura. Io vi dico in verità che dovunque sarà predicato questo vangelo, sarà pur raccontato a sua memoria ciò ch’ella ha fatto”. E San Giovanni precisa che il discepolo scandalizzato è Giuda Iscariota, il traditore, che preferisce i poveri a Dio.

Lungo il cortese sentiero dell’omaggio alla maestà divina si erano già incamminati i magi poco dopo la nascita di Gesù. E vi si inoltreranno Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, con circa cento libbre di mistura di mirra e aloe da spargere sul corpo del Maestro dopo la sua morte. Solo il riconoscimento del primato di Dio e delle attenzioni che gli sono dovute permette di tributarne di grandi agli uomini. Questa certezza permette al buon Samaritano di rovesciare radicalmente la prospettiva di Giuda. E’ il suo amore per Dio a fermarlo lungo la strada in soccorso dello sconosciuto ferito dai ladri. E con quanta delicatezza si appressa al suo prossimo. “Ne fasciò le piaghe versandovi sopra olio e vino; e, collocatolo sulla propria cavalcatura, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui. Il giorno dopo, tratti fuori due denari li diede all’oste e gli disse: Prenditi cura di lui, e quanto spenderai di più te lo pagherò al mio ritorno”.

E’ la stessa attenzione che Maria presta al Signore venuto a farle visita in casa sua. Gli siede ai piedi e sta ad ascoltare la sua parola. E a Marta, la sorella che si lamenta di essere lasciata sola a servire i commensali, Gesù risponde: “Marta, Marta, tu t’affanni e t’inquieti per troppe cose. Eppure una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”.
Ma la cerimonia, così come il rito di cui è riflesso a uso di chi pratica il mondo, è fatta di manifestazioni inesplicabili ad occhio laico tanto quanto i nascondimenti cui non può rinunciare. Per questo, nel Vangelo di San Matteo, il Maestro prescrive: “Quando digiunate, non vogliate imitare gli ipocriti, che prendono un’aria malinconica e sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità i dico che han già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non agli uomini tu appaia come uno che digiuni, ma al Padre tuo, che è nel segreto; ed il Padre tuo, che vede nel segreto, ti darà la ricompensa”.

Non vi è precetto più alto che scandisca il tempo dell’eleganza e della grazia. La sua pratica è un atteggiamento morale che, un passo prima della santità, si chiama sprezzatura. Equilibrio tra rigore e levità che si traduce in rispetto per il soffio divino nascosto anche nella più piccola scaglia di creato. Nasce da questa radice l’amore con cui Maria accetta la morte del Figlio inchiodato alla croce. Dolorosa e gioiosa comprensione del mistero più grande, radicata nell’adesione all’annuncio dell’angelo Gabriele: “Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola”. Il racconto dell’annunciazione può essere letto come un trattato di buone maniere, un capolavoro della cerimonia che non ha uguali. Non vi si trova una parola fuori posto, non vi è un fremito che tradisca cedimento, non un’ombra di rinuncia: e si sta decidendo il destino dell’universo.
Principio della santità, le buone maniere sono efficace difesa contro le trappole del demonio. Incapace di conoscere i pensieri dell’uomo perché di altra natura, insegna San Giovanni Cassiano nella “VII Conferenza ai monaci”, il principe di questo mondo li può indovinare osservando i movimenti del corpo: “A nessuno viene il dubbio che gli spiriti immondi riescano a conoscere la natura dei nostri pensieri; quegli spiriti però possono arrivare a individuarli fondandosi sugli indizi sensibili che ad essi appaiono dal di fuori, vale a dire dalle nostre disposizioni o dalle nostre parole, e anche dalle tendenze alle quali ci scorgono inclinati con maggiore apprensione”.

Lettura preferita di San Filippo Neri, Cassiano è fonte della Regola di San Benedetto, quella mappa per la santificazione fatta solo di minuziose prescrizioni per il comportamento nella vita quotidiana dei monaci. Giunto agli ultimi due gradini dell’umiltà, Benedetto si sofferma su dettagli incomprensibili al cristianesimo maleducato di oggigiorno: “L’undicesimo gradino dell’umiltà è quello del monaco che, quando parla, lo fa delicatamente e senza ridere, con umiltà e compostezza, e dice poche e assennate parole e non fa chiasso con la voce (…). Il dodicesimo gradino dell’umiltà si ha se il monaco non solo coltiva l’umiltà nel cuore, ma la mostra anche con l’atteggiamento esterno a quelli che lo vedono: cioè nell’ufficio divino, in chiesa, nell’interno del monastero, nell’orto, per via, nei campi, dappertutto insomma, quando siede, cammina o sta in piedi, ha sempre il capo chino e lo sguardo fisso a terra”.

Rispetto alla solidità dei primi gradini, pare quasi che questi ultimi siano esili e persino evanescenti. Ma lo sono soltanto allo sguardo di chi non vi vede la perfezione prendere forma in esistenze capaci di indurre alla conversione con un semplice gesto: un atto di riverenza davanti al Crocifisso, una genuflessione al cospetto del tabernacolo. Manifestazioni di un mondo di cui al laico è possibile ancora percepire fremiti e atmosfere nei salottini d’attesa di certi conventi e certi monasteri o in qualche canonica: luoghi levigati dal tempo dilatato dello spirito, tirati a cera come in altri secoli, i muri lindi e profumati, Crocifisso, ritratto del fondatore e soprammobili al loro posto da sempre. Crisalidi spirituali in cui il sopraggiungere della tal suora e del tal padre sono epifanie di destini avviati alla perfezione.

Fu questo uno dei tratti che conquistò il cardinale Newman alla vocazione per l’Oratorio di San Filippo Neri. In un discorso al Capitolo del 1848 scriveva: “Un Oratoriano possiede la sua stanza e i suoi mobili, i quali, (…) senza essere suntuosi, dovrebbero fare in modo che sia possibile affezionarvisi. Insieme non formano una cella, ma un nido. L’Oratoriano deve essere circondato dalle sue cose, i suoi libri, gli oggetti personali: in una parola deve vivere, per dirla con un tipico termine inglese, nel comfort. (…) La chiesa deve essere bella, le funzioni religiose devono essere condotte con meticolosità e, se possibile, con magnificenza; la musica deve essere attraente (…). Avarizia, povertà, austerità, trascuratezza, rigore sono parole sconosciute in una casa Oratoriana”. E, se deve indicare il modello per un Oratoriano, Newman lo vede nel ritratto di monsignor Clemente Merlini dipinto da Andrea Sacchi: “seduto in una poltroncina con atteggiamento riposato: una mano si allunga sul tavolo, l’occhio è vivace e scintillante, l’espressione allegra”.

Il buon cristiano è tale quando ripugna al mondo per ciò che testimonia e non per come si presenta. Se deve versare il sangue, tra i suoi modelli contempla Tommaso Moro, che il 6 luglio 1535 salì il patibolo portando come ultimo bagaglio la sua santità, le buone maniere e una parola di conforto per il boia: “Amico io sono pronto e voi fatevi coraggio… Vi avverto che ho il collo corto e perciò state attento a colpire giusto per non macchiare la vostra buona fama”.
Alessandro Gnocchi
[Fonte: Il Foglio 1 maggio 2014]

13 commenti:

RIC ha detto...

''Il buon cristiano è tale quando ripugna al mondo per ciò che testimonia ''

Purtroppo sono proprio certi cristiani che provano oggi ripugnanza nei confronti del dovere di testimoniare..

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/05/02/tutti-a-roma-col-papa-per-la-scuola-ma-galantino-non-ci-sta/

Franco ha detto...

Il decoro comportamentale esterno ha il suo manuale nel galateo borghese; il "Discorso della Montagna" insegna il galateo dell'anima.

"Beati i poveri in spirito" esclude la supponenza e il protagonismo invasivo;"Beati i miti" esclude l'ira, la prepotenza, l'arroganza, la ripicca; "Beati i puri di cuore" esclude la sguaiataggine,il gusto della maldicenza e della notazione compiaciuta dei difetti altrui, in faccia o alle spalle; la proibizione di dire "raca" al fratello esclude ogni tipo di volgarità e di atteggiamento oltraggioso, aggressivo e volutamente urtante.
Una popolana che pratica le beatitudini ha più grazia, nel senso vero della parola, di una dama superba e scostante.
Lo scrittore convertito Giovanni Papini disse che il Discorso della Montagna era l'unica cosa che potesse salvare l'umanità dal un giudizio di totalmente spregevole per i suoi delitti, le sue bassezze,il suo marciume morale.

Turiferario ha detto...

Riflettevo proprio su queste cose in seguito a un piccolo episodio recente: sono stato invitato da parenti a una prima comunione in una parrocchia vicina. Ma l'invito è solo per il pranzo perché, mi hanno spiegato, il parroco ha detto di non fare venire alla Messa gente oltre ai genitori e al massimo i nonni dei comunicandi, altrimenti in chiesa c'è troppa gente che si distrae e chiacchiera. La cosa mi ha lasciato stupito: adesso per certi preti è un problema avere troppa gente in chiesa... E se la gente si distrae e chiacchiera non sfiora nemmeno l'idea che si possa spiegare che la Messa è una cosa seria e va seguita con devozione o quantomeno in silenzio? Ma farsi domande è sempre pericoloso, son come le ciliegie, una tira l'altra. Dopo ci si potrebbe chiedere ad esempio come mai si è arrivati a un punto in cui la gente considera la Messa un'assemblea pubblica qualsiasi... e via dicendo. Meglio quindi non farsi domande e assecondare la maleducazione imperante dicendo "non fa per voi, restate a casa".

Anonimo ha detto...

http://www.uccronline.it/2011/02/23/il-fallimento-delleducazione-sessuale-in-inghilterra-francia-e-svezia/

Pietro C. ha detto...

Uno scritto fuori tema ma che comunque ha tutta la sua attualità: http://traditioliturgica.blogspot.it/2014/05/quando-tradurre-e-quasi-tradire.html
Grazie per l'attenzione.

Anonimo ha detto...

OT Mi si permetta di segnalare la prossima uscita di un libro scritto da un religioso, insegnante di teologia,tal p. Pagazzi, intitolato 'La cucina del risorto' ed. Missionaria italiana, cioè un testo in cui si asserisce che Gesù cucinava per i suoi discepoli e si fanno dotte(?) dissertazioni sul come cosa e quando e si forniscono ricette, a dire dell'autore, che il Signore usava per pranzi e cene......fa il paio con l'orrido 'Effetto bergoglio' del bootlick p.L.......per la serie al peggio......senza parole. Anonymous.

Cattolico ha detto...

A proposito dell intransingenza del clero modernista, vorrei riproporre un commenti che ho letto tempo fa, molto significativo:

Vado alla Messa in latino, quella tridentina. Ogni domenica faccio 200 km per risparmiarmi gli show di tanti preti che aspettano la domenica per esibirsi sull'altare. Non amo i preti che alla fine della messa cantano "bella ciao" e spediscono le extra-comunitarie nei consultori per abortire.
Non mi convincono quei preti che al momento della Consacrazione non si inginocchiano, ma lo fanno il giovedì santo per la lavanda dei piedi davanti agli uomini.
Non mi convincono quei preti e vescovi che non danno la Comunione a chi si inginocchia per riceverla, come è già successo. Temo che non credano più alla Presenza Reale.
Mi dite cos'hanno di cattolico questi tonsurati ? Cinquant'anni di "book of prayer" hanno cambiato il modo di credere degli anglicani al tempo dello scisma. Quarant'anni di riforma liturgica nella Chiesa Cattolica, oltre a determinare il crollo della fede, come giustamente dice Benedetto XVI, ci hanno portato a credere in altro modo, molto più vicino a Lutero che alla Chiesa Cattolica .
Non amo i musulmani, cerco però di rispettarli. Sarà un peccato, ne chiedo perdono, ma sono ultraconvinto di quello che diceva il cardinal Biffi negli anni '90, (dileggiato dai "sinistri") che bisogna cercare di accogliere, sempre nei limiti del possibile, quelli di cultura simile alla nostra, perché gli altri difficilmente si integrano.
Quasi tutta l'Europa del nord in poche generazioni potrebbe diventare islamica. All'Islam riuscirebbe quello che non gli è mai riuscito per mille anni (escluso il tempo delle Crociate) dall'avvento di Maometto fino all'assedio di Vienna nel 1683: islamizzare l'Europa.
Né il Papa può dirci di andare nelle periferie ad incontrare i nostri fratelli. Ognuno di noi ha un carisma: io faccio il piccolo imprenditore ed è mia cura santificarmi in quel che faccio: cercare il lavoro, mantenere il livello di occupazione, dare la giusta mercede al dipendente, resistendo alla durezza attuale del mercato. Oggi ci si accontenta di stare a galla. Questo è il mio compito e nessuno mi può etichettare come "sepolcro imbiancato", perché io ritengo più importante, al contrario di altri, i "beni indisponibili": la vita, la famiglia, la libertà di educazione, il principio di sussidiarietà, ecc., e sono contro l'aborto, l'eutanasia, il matrimonio omosessuale, non parliamo poi dell'adozione gay (autentica mostruosità).
Diffido grandemente della bioetica e, nello specifico, della diagnosi pre-impianto, dove si fa la selezione della razza come facevano i nazisti. La fecondazione eterologa, dove un povero cristo che viene al mondo può avere da due padri (biologico e legale) fino a tre madri, quella che dà a pagamento gli ovociti, quella che fa, sempre a pagamento, la gestazione ed infine quella legale.
Non vi accorgete che il problema non è minimamente paragonabile alla lotta all'inquinamento, allo sfruttamento, alla violenza, che intendiamoci, sono cose doverose e meritorie, ma molto meno importanti di quella rivoluzione antropologica in atto che da una cultura ancora per poco cristiana, basata sulla compassione e aiuto agli ultimi, approderà ad un totalitarismo tecno-scientifico disumanizzante ?
In quanto all'abbandono della chiesa cattolica criptocomunista e filomusulmana non ci penso nemmeno: c'è posto per i filomusulmani e per me che mi ritengo cattolico tridentino. D'altro canto come bei si sa nella Chiesa Cattolica vige il principio dell'et, et.

Silente ha detto...

Grazie ad Alessandro Gnocchi per questo bel articolo e aMic per averlo pubblicato. Il "trionfo della maleducazione" ha radici lontane, storiche, sociologiche e politiche.
Ha radici nella trasformazione della borghesia, ceto con vizi e virtù, ma non aliena a valori di moralità, decoro, rispetto reciproco, in un mostruoso blob definito "ceto medio". Ha radici nell'ascesa sociale, troppo veloce, non mediata dal tempo e dall'educazione, di nouveaux riches. Ha radici nel '68, nel "vietato vietare", nell'educazione permissiva. Ha radici nella conseguente crisi della scuola e dell'università, nella rinuncia alla selettività, al rigore e alla cultura classica. Ha radici nell'attacco alla famiglia, al massimo considerata come una "agenzia educativa" tra le altre. Ha radici in un consumismo straccione e in un capitalismo finanziarizzato, arrogante e banditesco. Ha radici nell'immigrazione selvaggia, che contribuisce all'imbarbarimento delle nostre città e dei nostri costumi. Ha radici nel trionfo di un'arte moderna che è esaltazione del brutto, dell'informe, dell'infero. Ha radici in un ecologismo aggressivo, regressivo e violento, che s'illude su un "buon selvaggio" mai esistito.

Gnocchi suggerisce, implicitamente, un legame tra buona educazione e Salvezza. Certo non automatico, ma necessario. E' così.
La buona educazione, il rispetto delle regole, la cortesia, la benevolenza reciproca rappresentano il Bello nei rapporti sociali.Può suonare paradossale, ma è così. E il Bello, si notava qui in una altro post, è uno degli attributi divini.
La Chiesa post-conciliare ha pesanti responsabilità, in questo. La rinuncia educativa e formativa, sostituita da una confusa e ateoretica "pastorale", il rifiuto del bello nella liturgia, nella musica, nelle arti figurative, nell'architettura ha influito non poco. Rifiutare la forma significa rifiutare ciò che modella e fornisce senso alla sostanza bruta, alla materia. "Formalismi inutili" è l'espressione, oltre che tragicamente banale, più antireligiosa che sia. Tutta l'ortoprassi cattolica è infinito sforzo di far passare tutti noi da una potenza informe a un atto quanto più vicino, per quanto ontologicamente possibile, a quello divino.
Sì, per quanto possa sembrare paradossale, il Catechismo Maggiore, prima ancora che un compendio di Dottrina, è un manuale di buona educazione.

Silente ha detto...

Grazie ad Alessandro Gnocchi per questo bel articolo e aMic per averlo pubblicato. Il "trionfo della maleducazione" ha radici lontane, storiche, sociologiche e politiche.
Ha radici nella trasformazione della borghesia, ceto con vizi e virtù, ma non aliena a valori di moralità, decoro, rispetto reciproco, in un mostruoso blob definito "ceto medio". Ha radici nell'ascesa sociale, troppo veloce, non mediata dal tempo e dall'educazione, di nouveaux riches. Ha radici nel '68, nel "vietato vietare", nell'educazione permissiva. Ha radici nella conseguente crisi della scuola e dell'università, nella rinuncia alla selettività, al rigore e alla cultura classica. Ha radici nell'attacco alla famiglia, al massimo considerata come una "agenzia educativa" tra le altre. Ha radici in un consumismo straccione e in un capitalismo finanziarizzato, arrogante e banditesco. Ha radici nell'immigrazione selvaggia, che contribuisce all'imbarbarimento delle nostre città e dei nostri costumi. Ha radici nel trionfo di un'arte moderna che è esaltazione del brutto, dell'informe, dell'infero. Ha radici in un ecologismo aggressivo, regressivo e violento, che s'illude su un "buon selvaggio" mai esistito.

Gnocchi suggerisce, implicitamente, un legame tra buona educazione e Salvezza. Certo non automatico, ma necessario. E' così.
La buona educazione, il rispetto delle regole, la cortesia, la benevolenza reciproca rappresentano il Bello nei rapporti sociali.Può suonare paradossale, ma è così. E il Bello, si notava qui in una altro post, è uno degli attributi divini.
La Chiesa post-conciliare ha pesanti responsabilità, in questo. La rinuncia educativa e formativa, sostituita da una confusa e ateoretica "pastorale", il rifiuto del bello nella liturgia, nella musica, nelle arti figurative, nell'architettura ha influito non poco. Rifiutare la forma significa rifiutare ciò che modella e fornisce senso alla sostanza bruta, alla materia. "Formalismi inutili" è l'espressione, oltre che tragicamente banale, più antireligiosa che sia. Tutta l'ortoprassi cattolica è infinito sforzo di far passare tutti noi da una potenza informe a un atto quanto più vicino, per quanto ontologicamente possibile, a quello divino.
Sì, per quanto possa sembrare paradossale, il Catechismo Maggiore, prima ancora che un compendio di Dottrina, è un manuale di buona educazione.

RAOUL DE GERRX ha detto...

Julien Green, écrivain américain de langue française, aimait dire que la politesse n'est pas seulement une preuve de bonne éducation mais qu'elle est une des formes — la première peut-être — de la charité. Il avait bien raison.

Silente ha detto...

Sono d'accordo, caro Raoul. Ottima formula, quella di Julien Green: la buona educazione è la prima forma della carità.

Anonimo ha detto...

...Venerabili fratelli! vi può essere dovere più grande e più urgente di «annunziare ... le inscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8) agli uomini del nostro tempo? E vi può essere cosa più nobile che sventolare il vessillo del Re davanti ad essi, che hanno seguìto e seguono bandiere fallaci, e riguadagnare al vittorioso vessillo della croce coloro che l'hanno abbandonato? Quale cuore non dovrebbe bruciare ed essere spinto al soccorso, alla vista di tanti fratelli e sorelle, che in seguito a errori, passioni, incitamenti e pregiudizi si sono allontanati dalla fede nel vero Dio, e si sono distaccati dal lieto e salvifico messaggio di Gesù Cristo? Chi appartiene alla"milizia di Cristo" - sia ecclesiastico, sia laico - non dovrebbe forse sentirsi spronato e incitato a maggior vigilanza, a più decisa difesa, quando vede aumentar sempre più le schiere dei nemici di Cristo, quando s'accorge che i portaparola di queste tendenze, rinnegando o non curando in pratica le vivificatrici verità e i valori contenuti nella fede in Dio e in Cristo, spezzano sacrilegamente le tavole dei comandamenti di Dio per sostituirle con tavole e norme dalle quali è bandita la sostanza etica della rivelazione del Sinai, lo spirito del Sermone della montagna e della croce? Chi potrebbe senza profondo accoramento osservare come questi deviamenti maturino un tragico raccolto tra coloro che, nei giorni della quiete e della sicurezza, si annoveravano tra i seguaci di Cristo, ma che - purtroppo, cristiani più di nome che di fatto - nell'ora in cui bisogna resistere, lottare, soffrire, affrontare le persecuzioni occulte o palesi, divengono vittime della pusillanimità, della debolezza, dell'incertezza e, presi da terrore di fronte ai sacrifici imposti dalla loro professione cristiana, non trovano la forza di bere il calice amaro dei fedeli di Cristo?
(Pio XII, Summi Pontificatus, 1939)

Anonimo ha detto...

Dunque Gesù era "cerimonioso" nel porsi con gli altri? Non mi pare proprio. Era innanzitutto un grande demistificatore, secondo quello che scrive anche papa Benedetto.
Daniele