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lunedì 19 gennaio 2015

Il messaggio della filosofia di Roma antica all'uomo d'oggi - Marco Aurelio

È il terzo, della serie di articoli dedicati da don Curzio Nitoglia alla filosofia romana, per trarne insegnamenti validi ancor oggi all’uomo contemporaneo soprattutto europeo, che ha smarrito le sue radici intellettuali, morali ed etniche e ha fatto propria la contro-filosofia soggettivista moderna e nichilista post-moderna.
Precedenti: Lucio Anneo Seneca - Marco Tullio Cicerone.

MARCO AURELIO

L’imperatore Marco Aurelio Antonino fu un ammiratore dell’ex schiavo e deforme divenuto liberto e filosofo (di cui parlerò prossimamente) Epitteto. La filosofia stoica conosce con lui il suo culmine e la sua fine.
Egli restringe la filosofia, come e forse più di Seneca, alla morale vista senechianamente alla luce di una forte religiosità che prelude al cristianesimo. Tuttavia dopo la sua morte anche questa religiosità filosofico/morale non appagava più, “l’uomo anelava oramai ad una fede superiore” (G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Milano, Bompiani, 2004, 6° vol., p. 384).

Contingenza e monotonia del mondo
Il messaggio dell’imperatore filosofo si impernia sulla caducità, contingenza, finitezza, limitazione delle cose umane. Il loro inesorabile passare, finire, svanire; la loro monotonia, la loro insignificanza e nullità, che lasciano l’animo umano aperto a qualcosa di più grande e trascendente.
I Ricordi di Marco Aurelio sono molto vicini alla spiritualità che si trova nel Libro sacro dell’Ecclesiaste (capp. 1-2): “vanità delle vanità, tutto è vanità” ove secondo gli esegeti per vanità si intende il limite, la finitezza, la contingenza e la caducità delle cose create, le quali non possono non farci pensare ed amare Dio che solo è infinito, immarcescibile ed eterno.
Un altro concetto svolto dall’imperatore Marco Aurelio nei suoi Ricordi è quello della monotonia delle creature che fa esclamare all’imperatore “nulla di nuovo sulla terra” (Ricordi, IV, 33, 48; VII, 1; IX, 36) ed anche questo tema ci rimanda all’Ecclesiaste (cap. 1): “nihil sub sole novi”.

Solo la filosofia può dare un significato alle cose
Marco Aurelio dopo aver costatato che il mondo è caduco e monotono, ossia senza scopo e fine in sé, ricorre alla filosofia morale accompagnata da un forte afflato religioso stoico, corretto dal medio-platonismo e incline al cristianesimo per dare un senso alla vita umana, che altrimenti sarebbe senza ragion d’essere.
Tuttavia nel piano ontologico, molto debole in Marco Aurelio come nella filosofia romana tutta, la religiosità ha una certa tendenza monistica e panteistica, la quale però è corretta dall’etica stoica e medio-platonica, che in Marco Aurelio mantiene il primato.
Il mondo antico  inizia pian piano a dissolversi, il cristianesimo prende vieppiù piede e conquista gli animi, tuttavia Marco Aurelio ritiene che la filosofia morale/religiosa stoico/neo-platonica sia ancora in grado di mostrare agli uomini lo scopo della vita nonostante l’apparente nullità e deficienza delle cose finite di quaggiù. 
Perciò la religiosità dell’imperatore filosofo “finisce, in più di un punto, col sussumere princìpi quasi cristiani, il vecchio materialismo stoico resta scosso ancor più che in Seneca” (G. Reale, cit., vol. 6°, p. 389).

Permanenza di un certo panteismo stoico
Per l’imperatore vi è un unico fiume che trascina ogni cosa, non verso il nulla, ma verso l’eternità, venendo dall’eternità. Unica è la materia di cui son fatte le cose, unica l’anima che tutto vivifica, unica la mente che tutto governa. Questa unità costituisce una grande armonia e un grande ordine (cfr. Ricordi, IV, 45; V, 48).
Inoltre in questa grande armonica unità l’uomo detiene un posto privilegiato, perché possiede qualcosa che lo innalza al di sopra di tutto e lo pone  in stretta relazione con la Divinità. 
Qual è questo principio di nobiltà dell’uomo su tutti gli altri enti?

Corpo, anima e spirito
Marco Aurelio pone nell’uomo tre elementi: il corpo e l’anima (come faceva la Stoa, la quale concepiva l’anima non come immateriale ma come materia spiritualizzata). L’imperatore aggiunge una terza componente: lo spirito o la mente (noùs) come qualcosa di superiore alla semplice anima (psiché)[5].
Questa tripartizione può essere letta gnosticamente o esotericamente come una conoscenza (gnosis), che rende l’iniziato, l’eletto o lo gnostico (colui che sa) una specie di semi-dio, di demiurgo, di super-uomo. Tuttavia è possibile anche la lettura cristiana, la quale vede nello spirito l’anima in grazia di Dio e ripiena di Spirito Santo. 
Marco Aurelio con la sua filosofia morale e religiosa non ne dà una lettura elitaria, esoterica, gnosticheggiante e intellettualistica, anzi il pensiero, lo spirito (superiori all’anima) debbono aiutare l’uomo a “seguire Dio”.

La natura dello spirito e di Dio in Marco Aurelio
Data la mancanza di una base metafisica l’etica di Marco Aurelio non riesce ad affermare nulla di preciso sulla natura di Dio e dell’intelletto o spirito (noùs). Siccome il simile si unisce e segue il simile, l’intelletto (noùs) segue Dio in direzione verticale. Ora “vive con Dio chi è felice della sorte assegnatagli e di obbedire ai comandi, quali che siano, del genio che Dio ha dato ad ogni uomo come suo reggitore e guida” (Ricordi, V, 27).
Marco Aurelio, come Seneca, non ha gli strumenti per pronunciarsi sulla natura di Dio e del noùs, sulla loro spiritualità. Per quanto riguarda l’immortalità del noùs egli ritiene, come Socrate, che le anime umane si conservano dopo la morte, ma  solo per un certo periodo di tempo (cfr. Ricordi, IV, 21). Quindi la spiritualità e l’immortalità dell’anima umana sfuggono alle capacità filosofiche del nostro saggio imperatore romano. 

La “cittadella interiore”
Marco Aurelio precorre i temi della “cella interiore” (S. Caterina da Siena) o della “interiorità dell’uomo” (S. Agostino) propri della mistica cristiana, la quale parla della profondità dell’animo inabitato da Dio mediante la grazia santificante, in cui entrare e raccogliersi per conoscere, amare e parlare con Dio,  come Lui ci conosce, ci ama e ci parla, ma spesso noi non lo sentiamo perché dissipati dalle cose di questo mondo.
L’imperatore ci invita a “ritirarci in noi stessi, nell’intimo della nostra anima, senza fare come alcuni che vanno sognando di ritirarsi tra i campi, tra i monti o al mare” (Ricordi, IV, 3). Il noùs, se serbato incorrotto e retto, è l’unico rifugio che può dare all’uomo la vera pace (cfr. Ricordi, V, 9).

L’amore fraterno
In questo tema Marco Aurelio si è elevato sopra gli altri pensatori della Stoa, i quali avevano già sottolineato il vincolo comune che unisce tutti gli uomini.
L’imperatore filosofo scrive: “è una proprietà dell’anima razionale amare il prossimo e ciò è verità e umiltà” (Ricordi, XI, 1). Questa inclinazione dell’anima umana è dovuta al fatto che in tutti gli uomini vi è non solo l’anima (psiché), ma anche l’intelletto (noùs), che emana da Dio in tutti come una sua particella. Perciò l’amore fraterno di Marco Aurelio è ancora legato alla concezione panteistica della Stoa.
Inoltre l’imperatore parla anche del dovere di fare il bene senza mettersi in mostra e senza attendere, farisaicamente, nessun riconoscimento dagli altri (cfr. Ricordi, V, 66). Addirittura si spinge sino a raccomandare l’amore del proprio nemico (ivi, V, 22).

La religiosità di Marco Aurelio
Egli sente profondamente e sinceramente il bisogno dell’aiuto divino, ma giudicava “teatrale” l’atteggiamento dei cristiani pronti al martirio (cfr. Ricordi, XI, 3).
Tuttavia consiglia di dare il buon esempio agli altri: “vivi come se tu stessi sopra un monte, gli altri uomini vedano, così, chi vive saggiamente e virtuosamente. Se sono malvagi e non lo sopportano lo ammazzino: meglio morire che vivere malamente” (Ricordi, X, 15).
Infine esorta tutti a vincere la pigrizia ed egli stesso si esercita a vivere virtuosamente: “al mattino, quando non hai voglia di alzarti, di’ a te stesso: mi sveglio per compiere il mio lavoro di uomo” (Ricordi, X, 18). I Ricordi vennero scritti non per essere pubblicati, ma come un pro-memoria personale dell’Autore. Quindi Marco Aurelio non è un tele-predicatore che dispensa lezioni di morale agli altri e con una certa supponenza, ma è un uomo che si allena a vincere se stesso.

Conclusione
Marco Aurelio ci offre numerosi insegnamenti o meglio esempi pratici di retta moralità. Innanzitutto ha esercitato la carica di imperatore con molto senso civico e per il bene comune dei cittadini di Roma, cosa che oggi dovrebbe far riflettere molti. 
Inoltre non ha avuto nessuna remora a farsi allievo di un ex schiavo e per di più deforme nel corpo, cosa molto disdicevole nella Roma antica. 
Poi dopo aver colta la caducità delle cose umane, il loro inesorabile passare, ha lasciato il suo animo aperto a qualcosa di più grande e trascendente ed ha consigliato agli altri di fare la stessa cosa. Tuttavia la sua religiosità mantiene una certa tendenza panteistica anche se è assai aperta al cristianesimo.
Infine l’imperatore ci invita a ritirarci in noi stessi, nell’intimo della nostra anima, nella nostra “cittadella interiore” per vivere virtuosamente, ad amare il prossimo e a perdonare chi ci ha offeso. 
d. Curzio Nitoglia
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1. Nato nel 121 d. C., sin da giovane appassionatosi della filosofia e specialmente di quella contenuta nelle Diatribe dello stoico Epitteto suo punto costante di riferimento, fattagli conoscere nel 146 da Rustico. Nel 161 salì sul trono imperiale ed esercitò la carica di imperatore con profondo senso stoico del dovere quale servizio per gli altri. Morì nel 181.   
2. Cfr. P. Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai “Pensieri” di Marco Aurelio, Milano, Vita & Pensiero, 1996. 
3. La sua opera filosofica è stata redatta in greco e si intitola Ricordi. Essa è una raccolta di massime, sentenze e riflessioni. In italiano si può consultare l’edizione bilingue greco-italiano a cura di C. Mazzantini, Ricordi, Torino, 1948. 
4. Cfr. Ricordi, II, 12, 17; IV, 35, 43; V, 23; VI, 15, 36; IX, 19, 29, 33.
5. Ricordi, II, 2; III, 16.

1 commento:

Garabandal ha detto...


Propio cosi'.E' impossibile perorare sinceramente la causa della vittima e non occupare una posizione a lei molto vicina, come accade a Gesu' quando difende l'adultera.Riguardo alla vittima, dobbiamo guardarci dagli infiniti imbrogli e contraffazioni con cui si cerca di aggirala.L'Ultima astuzia di satana, del pricipio di violenza collettiva che domina le societa' umane, e' infatti oggi quella di camuffarsi da vittima e difensore delle vittime.satana intende far credere di difendere le vittime in maniera piu' autentica del Cristianesimo, accusato di ogni colpa contro l'umanita'.E' l'imitazione caricaturale di Cristo, cioe' le Scritture cristiane indicano come l'Anticristo.(R.Girad,Ho vedo satana come cadere dalla Folgore, pag 277-79).L'anticristo e' satana ammantato di politically correct,e' il pricipio di persecuzione che mette alla gogna i vecchi persecutori presunti o reali per poter continuare perseguitare indisturbato.Niente e' di pu' triste, e piu' anticristiano di un cristianesimo politically correct, pronto ad autodenigrasi a rinunciare a sestesso pur di accordarsi alle tendenze del momento.

Soltanto Nietsche, da Heidegger ben conosciuti, ha voluto sfidare addirittura a duello il cristianesimo, ed e' questa la ragione - io credo della sua follia.Oggi tutti esaltano Nietzsche, ma nessuno vuole andare a vedere piu' da vicino che cosa egli ha voluto affrontare, nessuno dei nostri intellettuali di grido ricorda le sealtazioni dissennate della violenza e del sacrificio umano che si sono intesificate man mano che la mente del filosofo andava crollando(R.Girad, Dioniso contro il crocifissso).Il condronto finale a cui la filosofia, se usata con coraggio e vigore intellettuale, ci porta e' sempre quello con forza spirizuale che rivela e rovescia la violenza nascosta dell'uomo:il Logos non di Eraclito e di Heidegger , ma di Cristo.

Conversazione con Rene' Girad, a cura di Giuseppe Fornari.
2 Novembre 2000 Roma Villa Medici