Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 12 agosto 2017

Sulla giusta interpretazione dell’espressione “sinagoga di Satana”

I messaggi che arrivano nelle varie discussioni ci aiutano sempre ad approfondire e, a volte, ad aggiustare il tiro come in questo caso.

Sulla giusta interpretazione dell’espressione
“sinagoga di Satana”
(a proposito dell’analisi critica di Nostra Aetate)
di Paolo  Pasqualucci

Nella discussione su Chiesa e Postconcilio concernente l’art. 4 della Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate sulle religioni non-cristiane [qui], riguardante la religione ebraica, contro le indebite concessioni conciliari e postconciliari al giudaismo, tali da mettere in ombra o in discussione la “teologia della sostituzione” e quindi addirittura il concetto stesso di Nuova Alleanza che si sostituisce completamente all’Antica, si è ad un certo punto ricordato che nella Apocalisse di san Giovanni si usa nei confronti degli Ebrei la denominazione “sinagoga di Satana” [vedi], da intendersi, a quanto sembra, come qualificativo dell’intero ebraismo, ed anzi del popolo ebraico, in quanto negatore di Nostro Signore Gesù Cristo.
A mio avviso, invece, l’espressione non va riferita agli Ebrei in quanto tali ma solo a coloro tra di essi che si distinguevano (e si distinguono) nella persecuzione ai cristiani.

I due testi dell’Apocalisse.  Si trovano nella prima parte di quel libro arcano e terrificante, quella che tratta delle vicende delle sette Chiese dell’Asia, ossia delle comunità cristiane dell’Asia Minore, attaccate dall’esterno e dall’interno:  Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea. Nostro Signore Gesù Cristo, apparso in visione a san Giovanni, dettò sette Lettere alle sette Chiese, una a ciascuna.

Primo testo
“E all’Angelo della chiesa ch’è a Smirne, scrivi:
Il Primo e l’Ultimo, che fu morto e tornò vivo dice questo: --Io so la tua tribolazione e la tua povertà; ma [in realtà] sei ricco! E [so che] sei calunniato da parte di coloro che dicon d’essere Giudei e non lo sono ; ma [sono invece] sinagoga di Satana. Non temer ciò che sei per patire. Ecco che il diavolo è per gettare in prigione alcuni di voi, perché siate provati, e avrete una tribolazione di dieci giorni.  Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della vita.--
Chi ha orecchi, ascolti che cosa dice lo Spirito alle chiese. Chi vince, non sarà leso dalla morte seconda.”( Ap 2, 8-11)[1]
C o m m e n t o

Il testo annuncia una persecuzione imminente, che sarebbe durata “dieci giorni”, frutto soprattutto di calunnie da parte di alcuni Giudei presso le autorità romane. Invita a “non temere” per la dura prova ed anzi ad essere “fedeli sino alla morte”, a non abiurare la fede. In cambio il Signore concederà come premio “la corona della vita” ossia la vita eterna, come specifica quello che sembra il commento dello scrivente, san Giovanni. La “morte seconda” è, come si sa, termine tradizionale per indicare la dannazione eterna, evitata da chi riceverà “la corona della vita”, da Lui promessa.

Perché a Smirne? Lo si comprende dalle note di commento al testo di Angelo Lancellotti, curatore della sua edizione per le Edizioni Paoline. Egli segue il metodo storico-critico, ripreso dai Protestanti, tipico ormai anche dell’esegesi cattolica, applicandolo con un taglio piuttosto razionalistico, visto che sembra intendere il testo più come “messaggio di Giovanni” che come messaggio di Cristo mediante Giovanni e considera le numerose visioni che lo caratterizzano soprattutto come “elementi letterari”.[2] Malgrado ciò, le sue note forniscono una serie di elementi utili al punto che ci interessa.

Smirne: situata a nord di Efeso, era chiamata ‘l’incanto dell’Asia’. Già nel sec. II possedeva un tempio dedicato alla dea Roma. Per la sua fedeltà verso la potenza romana durante le guerre contro Mitridate, Cartagine e Antioco di Siria, Smirne meritò il titolo di ‘Smyrna fidelis’. Ospitava una fiorente colonia giudaica, la cui ostilità verso i cristiani ci è nota attraverso il martirio di san Policarpo, vescovo della città”.

A Smirne c’era dunque una fiorente comunità ebraica, nettamente ostile ai cristiani. E ostile doveva essere anche l’ambiente pagano, nella sua gran maggioranza. I cristiani vi erano perseguitati dai funzionari romani e dagli Ebrei. L’esegeta traduce poi in modo forse più esatto il riferimento a “coloro che dicono d’esser Giudei e non lo sono”. Vale a dire: “...e la bestemmia [la calunnia] di certuni fra quelli che si professano giudei e non lo sono”. La sfumatura cambia poco al senso complessivo. Comunque, essa viene così spiegata: “di certuni fra: il greco ek come più volte nell’Apocalisse, esprime, come la particella ebraica min, il pronome indefinito ‘alcuni, certuni’, seguito dal genitivo partitivo (cfr. Gv 3, 25).”[3]

Comunque sia: con false accuse di fronte all’autorità romana imperiale, alcuni Giudei stavano per far gettare in carcere alcuni fra i cristiani e il Signore, nella Visione, li incita a sostenere la prova incombente, con lo sguardo all’eterna ricompensa. Ma questi Giudei dovevano ritenersi falsi Giudei, come se appartenessero a una “sinagoga di Satana”.  
Il testo distingue, quindi, tra vero e falso giudaismo: “...et blasphemaris ab his, qui se dicunt Iudaeos esse, et non sunt, sed sunt synagoga satanae”- “kai ten blasphemian ek ton legonton Ioudaious einai eautous, kai ouk eisin alla synagoge tou satana”.[4]

Sulla genesi di quest’appellativo, il nostro Autore si diffonde nelle note.
Dal punto di vista cristiano, “avendo rigettato il messaggio evangelico e opponendosi alla sua espansione nel mondo, i Giudei sono tali solo di nome, poiché, secondo il pensiero di san Paolo ‘non è giudeo quello che è all’esterno, ma quello che è all’interno’ e che porta ‘la circoncisione del cuore nello spirito e non nella lettera’(Rm 2, 28 ss).  Perseguitando, inoltre, la Chiesa, non sono più la ‘sinagoga di Dio’ (Num 16, 3) ma una sinagoga di Satana.”[5]

È il ben noto insegnamento di san Paolo: l’Israele della carne non ha voluto credere al Messia, i cristiani sono ora il vero Israele, la Chiesa è l’Israele dello spirito. San Paolo non ha comunque mai usato l’espressione “sinagoga di Satana” per indicare l’Israele della carne caduto nell’incredulità. Troviamo l’espressione, a quanto ne so, solo qui, nell’Apocalisse. Come sottolinea l’Autore, essa si riferisce alla Sinagoga in quanto persecutrice dei Cristiani. Pertanto, non etichetta l’ebreo rimasto ebreo in quanto tale bensì il suo atteggiamento di ribelle al messaggio di Cristo e persecutore dei Cristiani.

Il nostro esegeta ci fornisce anche un riferimento veterotestamentario: Num 16, 3. Cosa troviamo qui? Non si parla di “sinagoga di Satana” ma di “sinagoga di Dio”. Vediamo di ricostruire il nesso.
Questo capitolo di Numeri tratta della ribellione di Core, cugino di Mosè, della tribù di Levi. Pur avendo i Leviti il privilegio di svolgere determinate mansioni cultuali, Core e i ribelli suoi alleati, due potenti famiglie e 250 tra i maggiorenti della comunità, aspiravano al sacerdozio, già attribuito invece da Mosè ad Aronne suo fratello, con l’approvazione divina. Il castigo di Dio si abbattè subito sui ribelli: riuniti in assemblea di fronte al Tabernacolo con Mosè e gli altri, per attendere il rivelarsi pubblico della volontà divina sulla questione della scelta al Sacerdozio, Core, tutta la sua famiglia, i suoi principali alleati con le loro famiglie al completo furono sprofondati in una voragine apertasi all’improvviso sotto di loro, nella quale scomparvero: tutti sepolti vivi senza lasciare traccia mentre i 250 maggiorenti venivano rapidamente arsi vivi da un fuoco, “che uscì dalla presenza del Signore”. Per intercessione di Mosè e Aronne, Dio risparmiò il resto della moltitudine, che si era fatta inizialmente sedurre da Core ed era pronta a seguirlo nella ribellione.

In questo testo biblico, che è uno di quelli difficili al nostro palato di moderni e supposti umanitari, il punto che ci interessa è costituito dalla spavalda dichiarazione di Core e dei suoi complici nel ribellarsi a Mosè, al momento della convocazione ordinaria dell’assemblea: “Vi basti che tutta la moltitudine è composta di santi, e che il Signore sta in mezzo a loro. Perché v’innalzate sopra il popolo del Signore?”(Num 16, 3). Il senso è: dovrebbe bastare a voi due, Mosè e Aronne, che tutta la moltitudine è costituita da santi poiché il Signore sta in mezzo a loro: siamo tutti il popolo di Dio, tutti eletti di Dio. Perché allora voi volete esser superiori, e possedere anche la carica sacerdotale?  

La Vulgata traduce: “Sufficiat vobis, quia omnis multitudo sanctorum est, et in ipsis est Dominus:  cur elevamini super populum Domini? “. Nel greco dei Settanta “moltitudo” nel senso di “popolo” è reso con sinagoga, termine che derivava da syn-ago: riunisco, aduno. Da cui: convegno, adunanza, specialmente religiosa, quindi la “collettività”, la “comunità” che si riunisce e successivamente anche l’edificio nel quale si riuniva.[6] Testo dei Settanta: “...hoti pasa he synagoge pantes hagioi kai en autois kyrios, kai dia ti katanistasthe epi ten synagogen kyriou?”[7]

L’Israele della carne, in quanto eletto da Dio, era dunque la “sinagoga di Dio”. Ma ora, afferma Nostro Signore in visione a san Giovanni evangelista, allorché perseguita i cristiani diventa la “sinagoga di Satana”, dell’Avversario, del Nemico del genere umano. Appare schierato con l’Avversario in quanto attivo persecutore, non in quanto rimasto nell’ebraismo. Se così non fosse, bisognerebbe dire che tutti gli ebrei post-cristiani, in quanto tali, appartengono alla Sinagoga di Satana e sono quindi maledetti e condannati per sempre. Ma questo sarebbe contrario alla divina Misericordia e in contraddizione con i dati storici. Infatti, non si spiegherebbe come mai, in duemila anni, tanti ebrei si siano spontaneamente convertiti a Cristo. E farebbe apparire del tutto inattendibile la nota profezia di san Paolo, secondo la quale, “alla fine”, forse alla vigilia della fine dei tempi, l’intero Israele si convertirà finalmente a Cristo ( Rm 11, 25-26).

Core e i suoi complici, proprio mentre dichiaravano di essere parte della “sinagoga di Dio” dimostravano il contrario, con la loro superba ribellione e operavano in realtà come se fossero membri della “sinagoga di Satana”, che vuole disgregare la prima con la ribellione (il luciferino non serviam) e tutto ciò che essa comporta (calunnie, persecuzioni, etc). L’impulso al male, nella forma di una grave ed ingiustificata ribellione che avrebbe sconvolto l’intera nazione, da dove veniva a Core se non da Satana? E non è proprio questo il modo nel quale il Demonio agisce in ogni essere umano, ebreo o gentile che sia? Arriva quel momento nel quale non si resiste alla tentazione, quale che sia, e Satana entra nei nostri cuori, spingendoci al male con un impulso che a noi sembra irresistibile.

Dice espressamente il Vangelo di Giovanni, a proposito di Giuda. “E inzuppato del pane lo diede a Giuda, figliuolo di Simone Iscariote. E dopo quel boccone, Satana entrò in lui. Gli disse soltanto Gesù – Ciò che fai, fallo presto. Nessuno dei commensali comprese perché glielo avesse detto”(Gv 13, 26-28). Ma Giuda aveva già ordito il suo complotto. E anche quando Caifa convinse il Sinedrio che era necessario uccidere Gesù, con lo specioso argomento che “val meglio che per il popolo muoia un solo uomo e non perisca l’intera nazione” perché, dicevano, quell’uomo faceva molti miracoli e il popolo lo avrebbe alla fine seguito, ribellandosi ai Romani, che avrebbero distrutto la nazione (Gv 11, 47 ss), possiamo dire che Satana era entrato in loro, altrimenti non avrebbero preso quella decisione (alla quale non devono aver partecipato i Farisei favorevoli a Gesù (Lc 13, 31), come ad esempio Giuseppe di Arimatea – Lc 23, 50 ss).

Né a quanto detto finora osta, a mio avviso, il famoso passo del Vangelo di Giovanni ove si testimonia la disputa nella quale Gesù rimproverò aspramente i Farisei allorché, nel rifiutarsi di riconoscere la natura divina di Gesù, dichiararono orgogliosamente “il nostro padre è Abramo”. Come sappiamo, Gesù, che conosceva i loro pensieri, li accusò di non comportarsi come veri figli di Abramo poiché, già desiderando in cuor loro di uccidere Gesù, non facevano “le opere di Abramo” ma quelle del Diavolo. Ragion per cui, ribattendo la loro affermazione, Egli li accusò di “avere per padre il Diavolo” e non Dio, come i veri figli di Abramo, gli Ebrei pii e timorati di Dio che credevano di essere (Gv 8, 33 ss).

Ma in tal modo Gesù li condannava non in quanto Ebrei e nemmeno in quanto Farisei bensì in quanto Farisei che stavano già progettando la sua morte, cedendo ad un impulso malvagio che poteva provenire solo da Satana.

Il testo giovanneo dice Giudei ma sappiamo che tali dispute avvenivano in genere tra Gesù e i Farisei, che al  tempo rappresentavano ufficialmente non solo il sapere ma anche l’essere stesso di Israele, in quanto Stato teocratico.

Ed infatti il Signore, che pure ne criticava aspramente le ipocrisie e le cattive abitudini, rimproverando loro di comportarsi o addirittura di pensare nei suoi confronti non da veri “figli di Abramo”, non da veri Ebrei timorati di Dio, ma da “figli del Diavolo” quando in cuor loro desideravano ammazzarlo, come se per l’appunto appartenessero ad una “Sinagoga di Satana” --- tuttavia, e con perfetta coerenza, non contestò mai il loro ruolo ufficiale di Maestri di Israele presso le moltitudini.

“Sulla cattedra di Mosè si sono assisi gli Scribi e i Farisei. Fate dunque e osservate tutto ciò che vi dicono: ma non imitate le opere loro, perché dicono e non fanno”(Mt, 23 1-3 e ss). In questi famosi versetti, si vede appunto come Gesù ne condanni il comportamento contraddittorio con le regole e i precetti da loro stessi insegnati, senza incitare il popolo alla rivolta contro di loro. Il popolo deve invece saper distinguere il cattivo maestro dalla bontà della norma, della Legge che gli viene insegnata, che è la legge di Dio, non l’opinione personale del maestro. E seguire la norma insegnata, senza curarsi dell’eventuale comportamento scorretto del maestro.

Ora, se Gesù avesse ritenuto Scribi e Farisei come tali accoliti di Satana, avrebbe forse detto queste cose alle folle, avrebbe forse ordinato alle folle di continuare a rispettarli in quanto Maestri di Israele, sì da dover sempre “fare e osservare” tutto ciò che essi insegnavano, nella loro qualità di successori di Mosè? È ovvio che no.

Secondo Testo
“E all’angelo della chiesa ch’è in Filadelfia, scrivi:
Il santo e il verace, colui che ha la chiave di David, colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre, dice questo: --Io so le tue opere. Ecco, t’ho messa davanti una porta aperta, che nessuno la può chiudere; perché hai poca forza e [tuttavia] hai serbato la mia parola e non hai mai negato il mio nome. Ecco, farò che quei della sinagoga di Satana, quei che dicon di esser Giudei e non sono, ma mentono, ecco farò ch’essi vengano e si prostrino davanti ai tuoi piedi, e conoscano ch’io t’ho amato. Poiché hai serbato la parola della mia pazienza, anch’io serberò te dall’ora della prova, ch’è per venire sulla terra tutta a provare gli abitanti della terra…--“(Ap 3, 7-10).
C o m m e n t o

Sulla base di quanto detto nel Commento al Primo Testo, e che non occorre ripetere, sembra che qui il Signore annunci alla Chiesa di Filadelfia, fedele nonostante le difficoltà, e non priva di successi nelle conversioni, la prossima conversione di Giudei “della sinagoga di Satana” ossia di Giudei che si erano distinti nella persecuzione contro i Cristiani. Annuncia la conversione dei persecutori, di alcuni di essi.

Riprendo il commento di Angelo Lancellotti.
Filadelfia: “piccola città situata a sud-est di Sardi; fondata da Attalo II Filadelfo, re di Pergamo (159-158 a.C.), fu distrutta da un terremoto nel 17 d. C. e riedificata da Tiberio; ma rimase scarsamente popolata. Dal tono della lettera si deduce che il fervore della comunità cristiana doveva essere notevole, come apprendiamo dalla lettera indirizzata alla stessa chiesa da S. Ignazio (cf. Ad Fil., 3,5.10)”[8]. Le immagini della chiave di David e della porta che una volta chiusa nessuno può più aprirla, che una volta aperta nessuno può più chiuderla, riflettono un vaticinio di Isaia (22, 22). “Applicate al Cristo, le parole del vaticinio indicano che a lui compete la completa potestà di ammettere o escludere dalla ‘città di David’, cioè dalla nuova Gerusalemme”.[9] “Applicate al Cristo” dall’autore dell’Apocalisse, intesa come scritto di san Giovanni Evangelista. Ma questo modo di esprimersi non è, a mio avviso corretto: esso fa della visione sovrannaturale descritta un prodotto della mente di colui che la descrive. Quale difficoltà c’è ad ammettere che Cristo apparso in visione a san Giovanni, per farsi comprendere al meglio, poteva benissimo esprimersi in un linguaggio ricco delle immagini familiari dell’Antico Testamento?  E del resto, il “vaticinio” di Isaia, essendo egli un vero profeta, non era stato ispirato dall’Alto e quindi dal medesimo Cristo, Seconda Persona della Santissima Trinità?

La “porta aperta”, continua il nostro Autore, è quella attraverso la quale entrano i convertiti. Era un’immagine tradizionale, di origine veterotestamentaria, che ritroviamo anche in san Paolo.[10] Egli traduce, anche qui, in modo più letterale il versetto che nomina i Giudei: “Ecco, farò che alcuni della Sinagoga di Satana, di quelli che dicono di essere Giudei e non lo sono..” (sottolineatura mia). Alcuni di costoro sarebbero entrati per la porta aperta, si sarebbero convertiti; è da supporre proprio presso la chiesa di Filadelfia, così proficua nelle conversioni.

Ma, poiché “la fraseologia del passo deriva da Is 60, 14 e 45, 14, in cui si descrive la sottomissione dei Gentili alla nazione eletta [farò che essi vengano e si prostrino ai tuoi piedi]”, il nostro Autore ne deduce che il testo dell’Apocalisse annunzia qui “la sottomissione dei Giudei alla Chiesa, che sarà da essi riconosciuta quale ‘vero Israele’”.[11] Riconosciuta, si intende, alla fine dei tempi (vedi supra). Certamente, i giudizi e ovviamente le profezie di Nostro Signore non si limitano mai all’evento in sé, limitato nel tempo e nello spazio, cui si riferiscono. Hanno sempre una portata più ampia, universale. Anche se qui possiamo leggere una conferma della profezia di san Paolo sulla futura conversione finale di Israele, resta comunque valido, a mio avviso, il riferimento alla situazione di fatto contingente, della chiesa di Filadelfia: essa avrebbe presto gioito della conversione di alcuni fra gli Ebrei che si erano distinti per ostilità nei suoi confronti, attivi persecutori.

Le due interpretazioni, quella relativa al fatto storicamente prossimo e quella in prospettiva escatologica, possono benissimo coesistere. Anche se tale coesistenza non sarebbe (credo) conforme allo spirito con il quale il prof. Lancellotti interpreta il testo:  per lui, evidentemente, san Giovanni ha utilizzato la forma letteraria di Isaia per introdurre un riferimento alla futura conversione di Israele. Ma tale spirito, che è quello scettico (e al fondo miscredente) dell’ermeneutica detta del “metodo storico-critico” e delle “forme letterarie”, non riesce in realtà a produrre un vero argomento filologico contro la veridicità delle apparizioni sovrannaturali descritte. Non vi riesce, innanzitutto per l’argomento sopra richiamato: Nostro Signore, apparso in visione all’Apostolo, era sicuramente capace di servirsi delle figure e degli stilemi dell’Antico Testamento, nel dettare la sua “lettera”.  Anzi, in un certo senso, doveva farlo, dato il pubblico cui si rivolgeva il suo messaggio.         
_____________________________
1. La Sacra Bibbia, annotata dall’Abate Ricciotti, Salani, Firenze, 1940, 1954, p. 1764.  Corsivi miei.  Parentesi quadre inserite dal traduttore, P. Giuseppe Bonaccorsi. 
2. Apocalisse, versione-introduzione-note di Angelo Lancellotti, Edizioni Paoline, 1970, 1981, vedi l’Introduzione, pp. 5-44.
3. Op. cit., pp. 60-61.  San Policarpo, nominato da giovane vescovo di Smirne da san Giovanni Evangelista, vi fu martirizzato a 86 anni, il 22 febbraio del 156 (Berthold Altaner, Patrologia, tr. it. delle Benedettine del Monastero di S. Paolo in Sorrento, riveduta dal Dr. Sac. S. Mattei, aggiornata e corretta dall’Autore, Marietti, Torino-Roma 1940, pp. 62-63).
4. Per i testi originali ho tenuto presente la Vulgata Clementina nella classica edizione BAC e il Novum Testamentum Graece et Latine curato da Nestle  e Aland. 
5. Op. cit., p. 61.
6. Vedi la voce sinagoga nel Dizionario Biblico diretto da mons. Francesco Spadafora, 3a ed. riveduta e ampliata, Studium, Roma, 1963.
7. Septuaginta, edidit Alfred Rahlfs, editio minor, Deutsche Bibelgesellschaft Stuttgart, 1935, 1979, p. 243.
8. Apocalisse, tr. it. cit., p. 69.
9. Op. cit., pp. 69-70.
10. Op. cit., p. 70.
11. Op.cit., ivi.

24 commenti:

irina ha detto...

"... Nel greco dei Settanta “moltitudo” nel senso di “popolo” è reso con sinagoga, termine che derivava da syn-ago: riunisco, aduno. Da cui: convegno, adunanza, specialmente religiosa, quindi la “collettività”, la “comunità” che si riunisce e successivamente anche l’edificio nel quale si riuniva.[6]..."

"...L’Israele della carne, in quanto eletto da Dio, era dunque la “sinagoga di Dio”. Ma ora, afferma Nostro Signore in visione a san Giovanni evangelista, allorché perseguita i cristiani diventa la “sinagoga di Satana”, dell’Avversario, del Nemico del genere umano..."

E' possibile quindi estendere il significato di 'sinagoga di Satana'al CVII in quanto inganno volto alla NON santificazione dei cristiani?

Anonimo ha detto...


@ Sull'estensione del termine "sinagoga di Satana" al Vat II

Eviterei di usare questo termine al di fuori del contesto nel quale viene impiegato nelle Fonti scritturali, contesto concernente i rapporti fra l'ebraismo e il cristianesimo.
Questo, per evitare equivoci e fraintendimenti.

Che poi il Vat II si possa definire nella sua totalità volto all'inganno dei fedeli, non si può certo affermare. Bisognerebbe allora dire che tutti i vescovi e cardinali presenti miravano intenzionalmente a questo fine, anche quelli che si sono battuti apertamente per difendere la vera dottrina cattolica. Tesi chiaramente assurda.
L'unica posizione corretta sembra sempre quella sostenuta anche da mons. Lefebvre: l'azione dei progressisti, tollerata ed anche appoggiata per certi aspetti da due Papi, ha inquinato diversi documenti, introducendo ambiguità ed anche errori dottrinali, in genere nascosti nelle pieghe delle ambiguità. Le ambiguità sono anche il frutto della resistenza opposta dai difensori della Tradizione della Chiesa, che costringeva ad annacquare certe prospettive novatrici.
Dobbiamo quindi attenerci sempre a questo criterio ermeneutico: accettare ovviamente ciò che è conforme al dogma, discutere ciò che è ambiguo, rigettare ciò che si dimostri erroneo nella fede. Il criterio appare senz'altro conforme alla recta ratio e al buon senso.

Ma questo significa l'impossibilità di una damnatio totale del Concilio, in quanto tale.
Se poi, in futuro, un Papa da solo o in Concilio ecumenico, data l'impossibilità di correggere nel modo dovuto i testi del Concilio, decidesse di cassarlo e basta o di ricavarne un testo molto più ridotto, depurato, di fatto un testo o un insieme di testi del tutto nuovo; tutto ciò è al di fuori della nostra portata e non ci esime dall'applicare il criterio ermeneutico di cui sopra.
(Le eventuali indegnità private di singoli partecipanti al Concilio come consultori o altro, non incidono sulla validità dei documenti).
PP

irina ha detto...

"...(Le eventuali indegnità private di singoli partecipanti al Concilio come consultori o altro, non incidono sulla validità dei documenti)."

Caro Professore,
questa sua posizione mi è chiara. Se più volte sono tornata a ribadire il contrario è proprio per indicarle di ravvedersi. Primo, non sono eventuali ma conclamate. Secondo, la nostra stessa coscienza si torce, si altera, se pensiamo in un modo ed agiamo in un altro. Sono certa che non tutti furono ambigui ma molti di quelli che lavorarono , in un modo o nell'altro, su alcuni documenti lo furono. E alla fine la loro ambiguità, qualunque essa sia stata, anche solo davanti a se stessi, nei fatti si è materializzata non solo nei documenti ma in una mentalità. Mentalità il cui ingrossarsi, gonfiarsi, ben lo vediamo ancora oggi. Indubbiamente questi semi furono sparsi molto prima del CVII e da seminatori diversi, ciò non toglie che alcuni di questi fruttificarono durante il CVII e altri continuarono a crescere tanto da diventare quella foresta nella quale ci muoviamo oggi. Quindi in un raduno che avrebbe dovuto essere di "santi"la loro condotta deve essere seriamente stigmatizzata. Non siamo alla bocciofila di quartiere, siamo dentro il tempio di Dio e parliamo dei suoi sacerdoti. Se 'In principio era il Verbo...' vuol dire anche che la Sua custodia è sacra e sacro è il magistero che ne discende. Il Vaticano non è una casa circondariale dove si può trovare di tutto, il Vaticano dovrebbe essere il luogo dove l'Amor di Dio e la Santità sono di casa. Dovrebbe essere la luce sempre accesa che illumina il cammino di milioni e milioni di uomini di tutto il mondo. Nè vi può essere una carriera con benefits assicurati. Quindi ribadisco la moralità, la santità dei presenti non era un optional, avrebbe dovuto essere lo sviluppo naturale di una vocazione, di una chiamata del Signore.E se così non fu, e non è ancora oggi, allora bisogna che vi si ponga rimedio, prima di occuparsi di qualsiasi aggiornamento e/o qualsiasi problema sociale e/o politico. E noi che leggiamo questi documenti dobbiamo tenere a mente qual'era la reale condizione di non pochi 'consultori o altro', qual'era la situazione troppo umana e poco santa di molti. Dobbiamo metterla in conto, perchè da quelle menti, da quei cuori, dai loro atti discende anche il nostro oggi.
Noi nulla possiamo fare.La loro validità rimane intatta, formalmente, come lei scrive. Dire e scrivere, di come era la realtà di quegli uomini,però dobbiamo. Altrimenti non aiutiamo chi tra loro ancora può ravvedersi e scientemente inganniamo chi ancora non sa. E' importante che i giovani sappiano quali furono gli errori di chi li ha preceduti, per non ripeterli loro stessi. Infondo il libro di De Mattei ci racconta della santità di pochi e della miseria dei più e ce l'ha raccontato con mano lieve. Di questo io stessa gli sono grata. Un po' la stessa cosa dovremmo far anche qui tra noi, occupandoci dei testi.

mic ha detto...

(Le eventuali indegnità private di singoli partecipanti al Concilio come consultori o altro, non incidono sulla validità dei documenti).

Infatti. Ogni analisi e conseguente azione razionale non può basarsi sul foro interno dei responsbili, ma su parole e fatti concreti che si riscontrano.

Seppure, nel cercare le complesse e molteplici ragioni dell'accaduto, si scoprono e valutano anche le situazioni morali dei protagonisti, queste non possono far testo ai fini delle contestazioni che vanno formalizzate in termini di diritto, proprio in ordine ai testi. Cosa che, insieme a molti che ci hanno preceduto stiamo facendo anche noi.


marius ha detto...

Che poi il Vat II si possa definire nella sua totalità volto all'inganno dei fedeli, non si può certo affermare. Bisognerebbe allora dire che tutti i vescovi e cardinali presenti miravano intenzionalmente a questo fine, anche quelli che si sono battuti apertamente per difendere la vera dottrina cattolica. Tesi chiaramente assurda.

(Le eventuali indegnità private di singoli partecipanti al Concilio come consultori o altro, non incidono sulla validità dei documenti)

Penso dobbiamo deciderci se vogliamo parlare di testi o di persone.
È una questione metodologica.

Se parliamo di testi atteniamoci solo ai testi.
In tal caso poco ci importano le intenzioni degli autori,
sia di quelli che verosimilmente tramavano l'inganno
sia di quelli che apertamente si sono battuti per difendere la vera dottrina cattolica.
Quel che importa è che qui abbiamo davanti a noi un risultato finale che è scritto nero su bianco, al quale ci dicono che dobbiamo credere anche se non è un dogma.

Se parliamo delle persone, parliamone pure, perché no? Ma teniamo ben distinte le due cose.
Se poi emergeranno le caratteristiche personali dei loro autori per quanto attiene alla loro formazione teologica, alla loro moralità ecc. non si potrà non domandarsi quali conseguenze esse potrebbero aver avuto sui testi che abbiamo sotto il naso, fermo restando che a noi tocca giudicare i testi, non le persone. Sia nel bene che nel male. Questo è invece compito dell'Onnipotente.

Quindi, se i testi del CVII risultano improntati ad un inganno dei fedeli non volgiamo indietro lo sguardo per valutare le intenzioni o le degnità o le indegnità degli autori sinodali, ma atteniamoci ai testi e basta. Ne abbiamo più che a sufficienza per trarne delle debite conclusioni personali (in attesa di un futuro papa o concilio ecc.....)

Affermare che Bisognerebbe allora dire che tutti i vescovi e cardinali presenti miravano intenzionalmente a questo fine è una tesi sicuramente assurda. Sono d'accordissimo. Ma non trovo metodologicamente corretto sfruttare questa assurdità al fine di dimostrare che non è possibile affermare il Vat II si possa definire nella sua totalità volto all'inganno dei fedeli.
Se veramente non è possibile affermarlo facciamolo sulla base dei testi, non sulle eventuali insondabili intenzioni delle persone.
Quell'assise partorì quei testi, perché furono votati a maggioranza. E il risultato a distanza di mezzo secolo è qui davanti ai nostri occhi.


marius ha detto...

Le ambiguità sono anche il frutto della resistenza opposta dai difensori della Tradizione della Chiesa, che costringeva ad annacquare certe prospettive novatrici.

Questa affermazione rivela davvero il dramma (per noi) del CVII.
Se ne potrebbe dedurre che se non avessimo avuto i difensori della Tradizione della Chiesa a quest'ora al posto delle ambiguità avremmo avuto le eresie manifeste.
D'altronde c'è un fatto inequivocabile, questo sì giudicabile in foro esterno: gli schemi preparatori originali furono in fretta e furia sostituiti con quelli dei fautori della Nouvelle Théologie. Più chiaro di così si muore.

marius ha detto...

Dobbiamo quindi attenerci sempre a questo criterio ermeneutico: accettare ovviamente ciò che è conforme al dogma, discutere ciò che è ambiguo, rigettare ciò che si dimostri erroneo nella fede. Il criterio appare senz'altro conforme alla recta ratio e al buon senso.

Alla recta ratio sì, ma non al buon senso.
L'ho già sottolineato (senza riscontri) nel thread precedente. Soffermarsi sul contenuto dei testi è una benemerita operazione razionale che può servire certamente a tutti.
Ma non considerare adeguatamente la scelta di fondo, che in gran parte è la responsabile della diffusa ambiguità nei testi del concilio, è insensato. La scelta di un linguaggio non definitorio è questa scelta di fondo.

Perciò la prima cosa da condannare apertamente è la scelta del registro linguistico; occorre metterne in risalto quanto è inaccettabile, in quanto acattolico e antievangelico (il tuo parlare sia SI-SI, NO-NO. Il resto viene dal Maligno).
Poi disquisiamo pure sul prodotto logico e dottrinale di tale scelta.
Dobbiamo far circolare tale semplice constatazione, per evitare di continuare ad impastoiarci sulla base di affermazioni che dovrebbero essere finalmente definitorie, ma purtroppo sempre galleggianti in un magma volutamente indefinito.

mic ha detto...

Dobbiamo far circolare tale semplice constatazione, per evitare di continuare ad impastoiarci sulla base di affermazioni che dovrebbero essere finalmente definitorie, ma purtroppo sempre galleggianti in un magma volutamente indefinito.

Tale semplice constatazione circola ed è stata fatta circolare in tutte le salse. Purtroppo il "volutamente indefinito" è il vizio di fondo che consente i danni peggiori. Ne siamo TUTTI consapevoli ma non abbiamo correttivi formali - di fatto aboliti e resi inefficaci - e siamo costretti (fin quando non ci è dato sapere) a batterci sul terreno della prassi, l'unica che ha voce in capitolo e che in ogni caso una dottrina la sottende sempre, sia pure implicita.
Questo purtroppo significa che la Catholica è a brandelli, ma siamo certi che non soccomberà.
Per il resto non serve perderci in troppi 'distinguo' più o meno sottili.

irina ha detto...

"...Perciò la prima cosa da condannare apertamente è la scelta del registro linguistico; occorre metterne in risalto quanto è inaccettabile, in quanto acattolico e antievangelico (il tuo parlare sia SI-SI, NO-NO. Il resto viene dal Maligno)..."

La scelta del registro linguistico può essere uno stratagemma per nascondere le vere intenzioni; può esser connaturale agli estensori.

Anonimo ha detto...


@ Di cosa dovrei "ravvedermi", non riesco a capire...No al soggettivismo nell'ermeneutica

Di aver sostenuto che il testo di un documento conciliare vale di per sé, indipendentemente dalla moralità privata di coloro che hanno preso parte alla sua elaborazione e stesura finale?
Dov'è la colpa? Francamente, non riesco a vederla.
Mi sembra che sia stato sant'Agostino a sostenere che l'eventuale immoralità della vita privata di un sacerdote non può incidere sulla validità del sacramento che egli ammnistra, se egli lo amministra secondo le intenzioni della Chiesa.
Ora, che i neomodernisti fossero poco portati ad uno stile di vita evangelico, non credo sia una scoperta di adesso. Proprio nel libro del prof. De Mattei sul Concilio, si rammenta (cito a memoria) una notazione di Siri sulle donne dalle mansioni indefinite che circolavano attorno agli ecclesiastici del Benelux in gita conciliare in quel di Roma. E allora? La doppia vita, moralmente parlando, di Rahner, è stata svelata dopo la sua morte. Ma di quanti Novatori si possono dimostrare le eventuali violazioni del Sesto Comandamento? Dobbiamo perder tempo in queste cose?
Ma l'eventuale immoralità della vita privata di tanti o pochi Novatori non può essere argomento tale da costruire su di esso la critica al Concilio. Che va condotta sui testi, sul loro significato intrinseco, per commisurarlo alla dottrina di sempre della Chiesa. Il metro di paragone è costituito dalla Dottrina tradizionale della Chiesa, non dalla vita privata dei partecipanti al Concilio.
Fu Schleiermacher ad introdurre il soggettivismo nella teoria dell'interpretazione, affermando che si doveva far gran caso della "biografia" di un autore, di ciò che era stata la sua vita, il suo "accaduto". Nella tradizione tedesca quest'impostazione non è mai scomparsa e si è anzi rafforzata verso la fine dell'Ottocento, in pensatori come Dilthey, che ha aperto la strada a Heidegger.
Mi sembra più valida l'impostazione di Benedetto Croce, secondo il quale l'autore scompare nell'opera, che vive di vita propria, della sua propria "oggettività". L'analisi della componente soggettiva (spesso incerta per l'osservatore esterno) può esser utile a ricostruire l'origine di quell'oggettività, un compito che resta secondario.
PP

irina ha detto...

Anni addietro lavorando nella biblioteca di una casa editrice mi vennero tra le mani dei libri inglesi per ragazzi.Questi libri avevano dei bollini colorati che segnalavano se, quando e quanto erano consigliabili. Mi parve un'ottima idea, visto che anche allora di carta stampata da cestinare ne circolava moltissima. In particolare per i giovani. Così mi venne fatto di riflettere sull'Indice dei libri proibiti,del quale sempre si parla o solo si accenna con riprovazione. Non trovo che sia stata un'istituzione sbagliata, ci saranno stati eccessi e mancanze, ma in sè non è sbagliato dare una guida di letture da evitare. Oggi vengono consigliate le letture e ogni gruppo consiglia, promuove, le sue; il gran minestrone comunque rimane e trovare il libro giusto ormai ha del miracoloso. I libri sono così importanti perchè, se solo pensiamo alle nostre letture, hanno una funzione di formazione per chi le legge. Il libro ha, sì, poi una vita sua ma, inevitabilmente, si porta dietro anche brandelli dell'autore. Tanti romanzi che assolutamente bisognava aver letto, non li ho letti e se anche li ho iniziati li ho chiusi dopo le prime pagine. Da loro non avevo nulla da imparare. Questo era più un sentimento che non un chiaro pensiero, ma poi ho imparato a fidarmi di quel rifiuto e l'ho seguito.Ora qui tra noi, gli articoli, i commenti, ci informano e formano nel contempo, anche se non ci siamo mai visti in faccia impariamo a conoscerci. Tutto questo per dire che i pensieri scritti hanno un grande rilievo, sia nella forma che nel contenuto, e in entrambi entra sempre anche il tocco di chi l'ha scritto. Marius poco sopra parlava del linguaggio ambiguo di questi documenti:"Perciò la prima cosa da condannare apertamente è la scelta del registro linguistico; occorre metterne in risalto quanto è inaccettabile, in quanto acattolico e antievangelico (il tuo parlare sia SI-SI, NO-NO. Il resto viene dal Maligno)." Il mio commento all'intervento di Marius è stato:"La scelta del registro linguistico può essere uno stratagemma per nascondere le vere intenzioni; può esser connaturale agli estensori."
Quindi volenti o nolenti il problema morale lo ritroviamo proprio nelle pieghe del linguaggio. Linguaggio che è ambiguo, a mio parere, per tre motivi,per venirle incontro:1) è un annacquamento della parte sana che ha arginato il fuoco rivoluzionario; 2)è un modo ipocrita, cioè mascherato, di parlar vago per nascondere l'intenzione sovversiva che domani potrà essere ripresa e messa in evidenza con l'autorità del CVII; 3) è il modo di esprimersi, ipocrita cioè mascherato, di chi fa finta di essere chi non è. Qui la casistica può essere infinita.
Ora io no ho alle spalle tutte le sue letture colte quindi non dispongo di autorità da mettere sul tappeto. Le ho detto di ravvedersi per il semplice motivo che tener conto di queste possibilità e riconoscendole all'impronta, si segnalano con due parole, si procedere poi con più celerità così da dedicare più tempo ad altre scoperte. Oppure si faccia una breve introduzione ad ogni documento dove si accenna che non tutti quelli che l'hanno preparato e redatto erano santi (con qualche rimando tanto per mostrare che non stiamo a far retorica).Se ravvedersi le sembra improprio può sostituirlo con: tenerne conto.

marius ha detto...

Cara Mic,
riguardo al "volutamente indefinito", il vizio di fondo che consente i danni peggiori, mi potresti per favore spiegare cosa intendi con queste tue parole?
ma non abbiamo correttivi formali di fatto aboliti e resi inefficaci
e siamo costretti a batterci sul terreno della prassi, l'unica che ha voce in capitolo
e che in ogni caso una dottrina la sottende sempre, sia pure implicita.


Quali sono i correttivi formali di fatto aboliti e resi inefficaci?

Siamo costretti a batterci sul terreno di quale prassi?

Non capisco neppure l'ultima riga.

Ti ringrazio e ti chiedo scusa se magari devi ripeterti, ma qui ne ho proprio bisogno per comprendere il tuo pensiero.

irina ha detto...

Ancora sul testo e l'autore.Se ben ricordo in letteratura italiana, latina, greca insieme al testo dell'autore xy si è sempre, con il quadro storico letterario, studiata la vita dell'autore. Non è possibile pensare a 'I Promessi Sposi' senza pensare a Manzoni, alla sua vita, alla sua conversione. Ogni riga del romanzo ci rivela l'autore. E lo stesso può dirsi di tutti quelli che ora mi tornano in mente. Studiamo pure il testo, stupiamoci del linguaggio, ma non dimentichiamo almeno di porci la domanda: chi ci fu qui dietro? Quale fu l'iter di questo documento? Forse le risposte non verranno mai più, ma l'esserci posti le domande giuste ci rende più svegli e attenti ad individuare le tessere perse, se e quando le vedremo, di un mosaico con tanti vuoti e strane figure.

mic ha detto...

Quale fu l'iter di questo documento? Forse le risposte non verranno mai più, ma l'esserci posti le domande giuste ci rende più svegli e attenti ad individuare le tessere perse, se e quando le vedremo, di un mosaico con tanti vuoti e strane figure.

Questo è senz'altro vero e nessuno lo ha negato. Ma resta utile appunto per l'indagine, non per la possibile invalidazione. E' di questa che si parlava...

mic ha detto...

Scrivo sempre rapidamente perché non posso fare un trattato per ogni post, ed è vero che mi tocca ripetermi.

ma non abbiamo correttivi formali di fatto aboliti e resi inefficaci

Correttivi efficaci di fatto aboliti e resi inefficaci sono le norme canoniche e il magistero perenne oltrepassati, ignorati e anche talora fraintesi strumentalmente. Non mi costringere a fare esempi, chi segue un tantino gli eventi basta ricordi l'AL con annessi e connessi. E la mancata risposta (diretta) ai Dubia. ecc. ecc.

e siamo costretti a batterci sul terreno della prassi, l'unica che ha voce in capitolo

Se ai dubia non si risponde, e i processi innescati su molteplici fronti continuano a dispiegare i loro effetti nefasti, qualcosa si può e si deve fare, ognuno secondo le sue responsabilità, le sue situazioni e i suoi talenti.
Gli stessi interventi più autorevoli e significativi (penso ad esempio alla correzione pubblica), servono piuttosto per il rispetto della Verità e la premura per chi ha orecchie per intenderla. Il che, se non altro, è quanto dovuto al Signore che trova modo di servirsi delle nostre buone volontà. E, pensando a questo, non mi pare poco...

e che in ogni caso una dottrina la sottende sempre, sia pure implicita.

C'è bisogno che lo spiego o è intuitivo con un briciolo di senso comune?

Gederson Falcometa ha detto...

"L'unica posizione corretta sembra sempre quella sostenuta anche da mons. Lefebvre: l'azione dei progressisti, tollerata ed anche appoggiata per certi aspetti da due Papi, ha inquinato diversi documenti, introducendo ambiguità ed anche errori dottrinali, in genere nascosti nelle pieghe delle ambiguità. Le ambiguità sono anche il frutto della resistenza opposta dai difensori della Tradizione della Chiesa, che costringeva ad annacquare certe prospettive novatrici".

Caro PP,

S. Pio X parla nella Pascendi di uno linguaggio modernista. Ancora secondo l'enciclica, questo linguaggio nei libri dei modernisti mescolava cattolicesimo e razionalismo. Questo al punto di se potere leggere una pagina perffetamente cattolica seguita da una pagina razionalista. Ciò che accade con i testi conciliare é molto somigliante con quanto S. Pio X ha parlato del linguaggio dei modernisti. Quindi, i problemi dei testi non sarebbe quello di usare questo linguaggio?

In un'altro post il sig. ha parlato di uno clima di intervento diretto di Nostro Signore. Curiosamente anche la gerarchia conciliare trasmette questo clima. Un uomo, una città, un paese o un continente, quando se trova davanti ad una crise, cerca dei mezzi per vincerla, per superarla. La crise della Chiesa già dura più di 50 anni e mai è stata trattata da nessuno dei Papi Conciliari. Non vediamo gli uomini di Chiesa cercando dei mezzi per dare risposta alla crise. Il massimo che abbiamo potuto vedere è stato il discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana di 22 diciembre 2005. Se tratta di un problema serio che ancora oggi continua a dare i loro frutti cattivi.

Il clima che la gerarchia trasmette in questa crise è che aspetta Nostro Signore fare un intervento diretto per risolverla, perchè loro non fatto niente. Nella verità fanno delle diagnose che in generale sono falsi. Paolo VI è arrivato a dire:

«Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non già perché io abbia qualche attitudine o io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualcosa per la Chiesa e sia chiaro che Cristo, non altri, la guida e la salva. […] Il Papa ha le pene, che gli provengono anzitutto dalla propria insufficienza umana, quale ad ogni istante si trova di fronte e quasi in conflitto con il peso enorme e smisurato dei suoi doveri e della sua responsabilità. Ciò arriva talvolta sino all’agonia».

Gesù ha salvato la Chiesa, nel tempo della crise ariana, attraverso S. Atanasio, nella crise modernista, attraverso di S. Pio X. Pensare che sia stato S. Atanasio e S. Pio X a salvare la Chiesa nei loro tempi, sarebbe negare l'intima unione tra Gesù e i santi. In questo punto se trova qualcosa nascosta. Gesù ha datto tutto il potere agli apostoli e queste ai loro sucessori, ma questo potere, del quale sta investito il Papa e i vescovi, non esiste in questo modo di parlare di Paolo VI che è l'immagine della Chiesa Conciliare. Inoltre a questo il soffrire per la Chiesa, nel caso del Papa, non esclude il suo governo. Il modo di parlare di Paolo VI è quello di qualcuno che cade sotto il peso della croce e rimane caduto senza potere se alzare e portala alla fine.

Gederson Falcometa ha detto...

"La scelta del registro linguistico può essere uno stratagemma per nascondere le vere intenzioni; può esser connaturale agli estensori".

Cara Irina,

Ancora nel tempo di Giovanni XXIII i modernisti hanno tentato di fare un'interpretazione modernistica dell'enciclica "Divino Afllante Spiritu" di Pio XII. Questo ha causato una grande polemica, perchè le falsi interpretazioni hanno avuto risposta dei sinceri cattolici Mons. Antonino Romeo e Mons. Spadafora, il S. Ufficio ha intervenuto e ha condannato i falsi interpreti e loro hanno perduto le catedre di insegno nella Chiesa. Quando Paolo VI vienne eletto, lui riabilita i falsi interpreti senza nessuna ritrattazione. Un anno dopo la riabilitazione, lui parlerà sul Concilio:

«Una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la Tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa pre-conciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto» (Dichiarazione conciliare del ‘6 marzo 1964’, ripetuta il ‘16 novembre 1964’).

Il S. Ufficio ha bloccato la falsa interpretazione della "Divino Afflante Spiritu", poteva anche bloccare le false interpretazione del Concilio, ma Paolo VI cambia la natura del S. Ufficio, lo trasforma nella CDF. Quindi, lui ha lasciato la libertà per le falsi interpretazioni all'interno della Chiesa con la soppressione del S. Ufficio. Penso ancora che la vicenda polemica della Divino Afflante Spiritu sia stata l'ispirazione dell'enciclica Ecclesia Suam: tra altri cose, il dibattito intorno all'interpretazione è stato sostituito per il dialogo.

Il linguaggio conciliare è un problema, ma la mancanza di ricerca e di misure per risolvere questo problema da parte dal magisterio rivela un'altro problema più grave. Problema che me ricorda l'accordo di Monaco firmato da Adolf Hitler, Neville Chamberlain, Édouard Daladier e Mussolini. Chamberlain ha arrivato in Gran Bretagna con il discorso "Pace per il nostro tempo" ed è stato ricevuto come un eroi, ma l'accordo era una trappola...

Un caro saluto dal Brasile

irina ha detto...

"...Ma resta utile appunto per l'indagine, non per la possibile invalidazione. E' di questa che si parlava..."

mic, io non so come funziona per i documenti vaticani, so però che fino a qualche anno fa,nei documenti dello Stato e con lo Stato forma e contenuto dovevano andare al passo. Esistevano regole ben precise da rispettare e se il documento non rispettava tali regole non era valido, anche se la firma era Menenio Agrippa.
Ora questa formalità, che può apparire bizantina, è anche un bell'argine alla scrittura percettivo-creativo-oppiacea, il cui scopo occulto è impalare il prossimo.

marius ha detto...

Dobbiamo quindi attenerci sempre a questo criterio ermeneutico: accettare ovviamente ciò che è conforme al dogma, discutere ciò che è ambiguo, rigettare ciò che si dimostri erroneo nella fede. Il criterio appare senz'altro conforme alla recta ratio e al buon senso.

Ma questo significa l'impossibilità di una damnatio totale del Concilio, in quanto tale.


Ne abbiamo parlato in lungo e in largo sul thread precedente su questo tema.
Penso che qui dobbiamo intenderci bene a che livello stiamo parlando, a chi è rivolto questo invito al "criterio ermeneutico".
1) È un criterio cui dovrebbero attenersi tutti i teologi?
2) È un criterio cui dovrebbero attenersi tutti i fedeli?

Nel primo caso, come ho già detto, è fuor di dubbio che un lavoro teologico accademico non può prescindere dal principio del discernimento letterale tra il bene ed il male, dove per male intendo sia quello apertamente dichiarato sia quello dissimulato tra le pieghe di un bene con cui è mescolato; e dove ritengo altresì irrinunciabile la denuncia schietta ed a priori della scelta di un registro linguistico particolarmente adatto a dissimulare l'errore (perché l'ambiguità non è un bene o un male minore, tollerabile o impossibile da denunciare, ma è un male addirittura peggiore rispetto a quello manifesto).
I teologi che hanno in chiaro questo di conseguenza saranno ben coscienti del fatto che un Concilio basato sulle sabbie mobili di un linguaggio cangiante (non solo per questo motivo) è un Concilio nato male, è un Concilio che non si regge, che non ha autorevolezza, che non può aver futuro. Chiarito questo concetto basilare, il loro lavoro di discernimento avrà il valore di una continua dimostrazione di come gli errori e le ambiguità hanno le loro origini nell'errata scelta di fondo del registro linguistico.
I teologi che hanno in chiaro questo sapranno all'evenienza anche fare il percorso inverso e guidare nel percorso inverso: partire dal particolare (discernimento letterale) per poi approdare alla causa di fondo della scelta del registro linguistico (scelta oggettiva che nasconde e rivela quelle intenzioni soggettive che non si possono giudicare in foro interno).

A sostegno di questa visione v'è il principio "bonum ex integra causa malum ex quocumque defectu". Vale ancora?
Inoltre sfido chiunque sia avverso a questa mia osservazione a firmare un contratto di rogito dove impegna centinaia di migliaia di € scritto con un linguaggio non definitorio. Oppure vogliamo accettare che i documenti di un Concilio Ecumenico possano contenere errori? Se non lo accettiamo per un rogito a fortiori per un Concilio Ecumenico!!! Si chiede troppo?

(continua)

marius ha detto...

(continuazione)
Nel secondo caso penso che dovremmo essere realisti. Forse che un fedele cattolico dovrebbe frequentare corsi accademici di teologia per riuscire a districarsi nei meandri delle contorsioni dei voluminosi documenti della "primavera della Chiesa"?
Diceva sopra Mic:
... e siamo costretti a batterci sul terreno della prassi, l'unica che ha voce in capitolo.
Se ai dubia non si risponde, e i processi innescati su molteplici fronti continuano a dispiegare i loro effetti nefasti, qualcosa si può e si deve fare, ognuno secondo le sue responsabilità, le sue situazioni e i suoi talenti.
Gli stessi interventi più autorevoli e significativi (penso ad esempio alla correzione pubblica), servono piuttosto per il rispetto della Verità e la premura per chi ha orecchie per intenderla. Il che, se non altro, è quanto dovuto al Signore che trova modo di servirsi delle nostre buone volontà. E, pensando a questo, non mi pare poco...


Ciò che Mic dice sui Dubia è a maggior ragione applicabile anche al CVII, dove di dubia ce n'è, eccome!
È quindi chiaro che questo criterio ermeneutico (vedi citazione in apertura al commento) non è adatto ai semplici fedeli.
Qual è allora l'approccio più adeguato?
Semplice. Quello di continuare a credere e ad applicare ciò che è stato insegnato prima del CVII. Cosa per altro facilitata per tutti coloro che, nati prima degli anni sessanta, avevano ricevuto un'educazione religiosa preconciliare in occasione della loro Prima Comunione e della Cresima. Questa è la cosa più semplice, la più concretamente realizzabile. Questa è la nostra prassi.
A chi mi contestasse direi: è forse più facile sorbirsi il mattone del CVII e sapersi districare in esso oppurre istruirsi sulle domande-risposte del Catechismo di S.Pio X?
D'altronde questo è il metodo applicato dalla Fraternità S.Pio X fin dalla sua fondazione.

O vogliamo sostenere che questo approccio è illecito, abusivo, supponente, egoistico, autoreferenziale, scismatico? e che d'ora innanzi si dovrà tutti chinarsi e logorarsi su complicati esercizi ermeneutici, magari in vista di una possibile valorizzazione di un Concilio-emendato-dei-suoi-errori-ed-ambiguità?

A che pro?
La butto là: forse per riunire le "forze cattoliche ancora sane" tutte insieme appassionatamente in una terra di mezzo in cui tutte possano finalmente riconoscersi?

irina ha detto...

"...Il S. Ufficio ha bloccato la falsa interpretazione della "Divino Afflante Spiritu", poteva anche bloccare le false interpretazione del Concilio, ma Paolo VI cambia la natura del S. Ufficio, lo trasforma nella CDF. Quindi, lui ha lasciato la libertà per le falsi interpretazioni all'interno della Chiesa con la soppressione del S. Ufficio..."

"...Il linguaggio conciliare è un problema, ma la mancanza di ricerca e di misure per risolvere questo problema da parte dal magisterio rivela un'altro problema più grave..."

Grazie, Gederson Falcometa, per aver connesso questi fatti tra loro.

irina ha detto...

Considerazione terra terra, da quello che so ogni religione, ogni filosofia, cerca di spiegare sempre meglio ai suoi seguaci le vie per il raggiungimento della supposta loro felicità. Nessuna si fa le pippe scritte sul come fare le graziose col mondo. A questo scopo sono stati scritti altri manuali, suppongo.

Gederson Falcometa ha detto...

Cara Irina,

Nella vicenda della Divino Afflate Spiritu se vede l'azione dell'autorità regolata dall'obbligazione di atternersi a verità sul ciò che dice il documento (l'esercizio dell'autorità pressupone tanto il dialogo quanto la verità). Ovviamente esistendo la verità l'uomo ha l'obblizione di dare a lei il suo assenso, e nella mancanza di questo assenso l'autorità deve compiere il suo ruolo e obbligare il soggeto.
Quando Paolo VI riabilita i falsi interpreti della DAS questo atto significa che non vi è un'obbligazione nei riguardi di quello documento. Significa che possono interprertalo come vogliono senza nessuno impedimento dell'autorità contro ciò che ha promolgato il proprio Papa. Questo è lo stesso che ammettere che l'autorità che ha prodotto il documento non sà che cosa voleva dire al promulgare il documento.
Questo accade in maggiore ou minore grado in ciò che dice rispetto al Concilio Vaticano II.

L'autorità dopo il Concilio ci dice che deve accettare il Concilio, ma lei non guida e non insegna i veri sensi dei testi Conciliare. Al contrario dà la libertà ad ogni uno di imparare dai testi ciò che voglie. In questi lunghi anni abbiamo visto dell’interpretazione opposte dal Concilio (fatta anche per alti prelati), ma mai abbiamo visto un’scontro tra i sostenitori dell’interpretazioni opposte e il sucessivo intervento dell’autorità. Dopo alcuni anni, vedendo il disastro di questo nuovo esercizio protestante dell'autorità, la Chiesa comincia a chiedere un'interpretazione dal Concilio alla luce della tradizione. Quindi, l’autorità vedi il problema, ma invece di risolvergli chiede alla Chiesa di fare ciò che lei doveva fare, crea più problemi; perchè al parlare del bisogno di una interpretazione alla luce della tradizione, ammete che la tradizione è una luce che manca nei testi conciliare (la tradizione è una luce che dovrebbe illuminare il Cattolico nella sua lettura, non il contrario). In qualche modo, considerando che l’autorità rifiuta di fare il suo dovere, se vede che l'autorità come obbligante scompare in parte nella Chiesa. In parte perchè lei ci obbliga ad accetare il Concilio, ma non obbliga ad una acettazione di significato in senso unico dai testi Conciliare. Kasper, Grillo e altri acettano il Concilio, ma in uno senso datto dalla loro ragione (la grande tentazione per la Chiesa in ciò che dice rispetto al Concilio, è il razionalismo), non dal magistero. Altri acettano nel Concilio i suoi insegnamenti che sono d’accordo con la tradizione. Inoltre a questo: una volta che il proprio magistero riconosce il bisogno di una interpretazione alla luce della tradizione, o di una ermeneutica della riforma nella continuità, non può obbligare il cattolico senza prima risolvere questi problemi.

Continua...

Gederson Falcometa ha detto...

Al fine del secolo XIX, quando Pio IX ha promolgato il Sillabo, aveva una correnti dei cattolici che rifiutavano l'assentimento dovuto al documento per non considerarlo infalibile. Questo è ciò che racconta la rivista La Civiltà Cattolica, Il valore del Sillabo: 3 - Il valore del Sillabo e alcuni cattolici, 1886. Al parlare di questi cattolici i padri dicevano della loro posizione:

"È giusto, prima di soggetarsi ad un obbligo, domandarne le prove; come è vero eziando che una obbligazione riconosciuta nella questione di principio, non è per ciò solo riconosciuta se non condizionatamente a riguardo del fatto; consequentemente cioè al verificarsi quelle condizione che sono richieste, perchè un fatto particolare cada già sotto il già ammesso principio". https://books.google.com.br/books?id=_E_QPCi0CZMC&pg=PA300&lpg=PA300&dq=il+valore+del+sillabo+e+alcuni+cattolici&source=bl&ots=83w27ShLs5&sig=gTUXiCbZGtIVEtniSxDpMwa0DnY&hl=pt-BR&sa=X&ved=0ahUKEwiUgvaxwNrVAhXGTJAKHS3KBuUQ6AEIKjAA#v=onepage&q=il%20valore%20del%20sillabo%20e%20alcuni%20cattolici&f=false

È bene questo che accade dopo il Concilio: non sappiamo a ciò che stiamo obbligati, l’autorità della Chiesa non è chiara in questo punto. Sembra che stiamo obbligati a leggere ed interpretare il Concilio, fare una lettura critica, ma quale il valore di tale lavoro se al fine di questo processo abbiamo di arrivare ad un’interpretazione che nemmeno ha la propria autorità? Ora, ed evidente se il Concilio avesse un’unico insegnamento dei testi Conciliare basterebbe a noi dare l’assenso, non fare delle letture crittiche, interpretazione alla luce della tradizione o ermeneutica della riforma nella continuità.

Il migliore per me non è accettare o rifiutare il Concilio, per fare una delle due scelte devo conoscere l'intero Concilio, e non conosco. Bastarebbe a me obbedire al mio vescovo, ma lui non insegna nella mia diocese il Concilio, chi insegna sono i teologi alla destra, centro e alla sinistra. Da questo stato di cose imparo che il Concilio se può interpretare come se vuole, d'accordo con l'esperienza personale. In questo modo me resta appena sospendere l'assentimento al Concilio e ai suoi insegnamento. Questo non significa una sospensione alla dottrina cattolica contenuta in lui, perchè questa ho già datto l'assenso primo del Concilio Vaticano II, quindi, quando la trovo davanti a me nel Concilio appena ripeto ciò che ho fatto prima.

Un caro saluto dal Brasile