Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 22 agosto 2017

La pastorale della VIA LARGA di Papa Francesco - Paolo Pasqualucci

La pastorale della VIA LARGA di Papa Francesco
Sommario:  1. Il carattere gratuito del vero amore.  1.1  L’azione malvagia scaturisce dalla nostra infelicità esistenziale?  1.2 La buona e la cattiva tristezza.   2.  L’Amore di Dio per noi, “anticipante” e “incondizionato”.  2.1  Citazioni scritturali fuor di contesto da parte del Papa.  3. Siamo tutti accolti nella “relazione di amore” della S.ma Trinità, e “per grazia”, senza le opere!  4. Anche nell’evocare l’episodio della Samaritana, Papa Francesco tace sulla necessità della conversione, indispensabile per entrare nella vita eterna.  5. Dall’amore incondizionato di Dio Padre, “che ci ama come noi siamo”, soffia un “vento di liberazione”, che non distingue tra Eletti e Reprobi.
Papa Francesco, durante una delle sue recenti udienze, cui ha partecipato via maxischermo  anche un folto gruppo di malati, ha rivolto un indirizzo sul tema : “L’amore di Dio, anticipante e incondizionato”. Il testo l’ho trovato sul quotidiano in rete La Nuova Bussola Quotidiana del 14 giugno corrente.

Un tema, questo, continuamente ribattuto nell’omiletica dell’attuale Gerarchia. Tema certamente essenziale, anche se l’Amore non è ovviamente l’unico modo nel quale Dio si rivolge all’uomo. Sappiamo, infatti, dalla Rivelazione, che esiste anche “la giustizia di Dio”. Essa esprime, nella forma di un Giudizio infallibile, non solo la Bontà di Dio che premia in eterno i Giusti ma anche l’Ira di Dio nei confronti dell’impenitente, che persevera e si indurisce nel peccato sino alla fine dei suoi giorni. Ma della Divina Giustizia e del Giudizio non si parla più, oggi, così come non si nomina mai, da tempo immemorabile, la verità di fede del peccato originale.

Il nostro Dio, Uno e Trino, è solo e unilateralmente amore, dunque? Al punto da accettarci così come siamo, senza pretendere nulla da noi?  Questa è almeno l’impressione che si ricava dal ragionamento del Papa, visto che egli  lo conclude  con queste parole: “E la speranza è quella di Dio Padre che ci ama come noi siamo, ci ama sempre e tutti”. La “speranza” è quella della ‘’ liberazione”. Questo il termine usato dal Papa, al posto di “salvezza”, senza ulteriormente specificare.  Speranza che nasce dal fatto che Dio “ci ama come noi siamo”, evidentemente accettandoci così come siamo. Concetto, questo, che non mi sembra affatto in armonia con i Testi né con la Tradizione e l insegnamento della Chiesa.
Ma procediamo con ordine.
1. Il carattere gratuito del vero amore.
Il Papa sottolinea inizialmente il carattere gratuito del vero amore.  “Nessuno di noi può vivere senza amore”, esordisce. Tutti vogliamo essere amati.  Però si cade, prosegue, “nella brutta schiavitù di ritenere che l’amore vada meritato”.  Invece l’amore deve esser gratuito.
“Immaginate un mondo così:  un mondo senza la gratuità del voler bene! Sembra un mondo umano, ma in realtà è un inferno. Tanti narcisismi dell’uomo nascono da un sentimento di solitudine e di orfanezza. Dietro tanti comportamenti apparentemente inspiegabili si cela una domanda: possibile che io non meriti di essere chiamato per nome, cioè di essere amato?  Perché l’amore chiama sempre per nome”.
Bisogna amare gratuitamente, per non render infelici gli altri. Il Papa fa certamente bene a ricordare che l’amore, in sé, deve esser gratuito. Tuttavia, egli lo considera soprattutto dal punto di vista tutto umano e terreno della felicità nelle cose di questo mondo, intesa come felicità innanzitutto esistenziale perché derivante dal sentirsi amati, in generale. Felici, non per aver conseguito questo o quell’obiettivo – gradito a Dio – ma per il solo fatto di sentirsi amati dagli altri.

Ma di quale amore si parla qui? Esistono diversi tipi di amore. Non certo di quello erotico, che, anche quando è legittimo, come nel matrimonio, è sempre interessato, in quanto sempre vincolato al carnale desiderio, di per sé egoistico. Dovrebbe trattarsi dell’amore per il prossimo, della carità cristiana, anche se il Papa non usa mai il termine “carità”.  Ma, nel senso tradizionale del termine, l’amore cristiano per il prossimo non deriva dall’amor di Dio?  Recita l’antica preghiera dell’Atto di Carità:  “Mio Dio, vi amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché siete Bene infinito e nostra eterna felicità; e per amor vostro amo il prossimo mio come me stesso, e perdono le offese ricevute. Signore, fate ch’io vi ami sempre più”. La pratica della carità verso il prossimo, per amor di Dio, non implica la ricerca della felicità di questo medesimo prossimo; felicità in termini mondani, contingenti, quasi sempre di tipo esistenziale, emotivo. Implica, soprattutto, che nei nostri rapporti con il prossimo si cerchi di attuare sempre la giustizia, integrata con il comandamento della carità, che impone di dimenticare e “perdonare le offese”. Che poi il nostro prossimo possa sentirsi felice in conseguenza del nostro comportamento caritatevole verso di esso, ciò è bello e ci piace ma resta conseguenza del tutto secondaria e contingente. Non può costituire in ogni caso il fine essenziale della nostra azione nei confronti del prossimo. Spesso, infatti, il nostro prossimo è felice quando riceve da noi vantaggi materiali, favori, anche indebiti, o lusinghe che ne accarezzino i difetti o addirittura i vizi.  La felicità è uno stato d’animo inevitabilmente soggettivo e mutevole, cui spesso fa da contrappeso l’infelicità altrui.  E quando invecchiamo non ci sentiamo infelici, a volte, per cose che da giovani ci avevano reso felici?

1.1  L’azione malvagia scaturisce dalla nostra infelicità esistenziale?

Che l’amore del quale parla qui Papa Francesco non coincida con ciò che si intende tradizionalmente con carità cristiana, risulta, a mio avviso, anche dall’esempio che egli apporta, quello della supposta infelicità della gioventù. Dice infatti:
“Quando a non essere o non sentirsi amato è un adolescente, allora può nascere la violenza.  Dietro tante forme di odio e di teppismo, c’è spesso un cuore che non è stato riconosciuto.  Non esistono bambini cattivi, come non esistono adolescenti del tutto malvagi, ma esistono persone infelici.  E che cosa  può renderci felici se non l’esperienza dell’amore dato e ricevuto?  La vita dell’essere umano è uno scambio di sguardi:  qualcuno che guardandoci ci strappa il primo sorriso, e noi che gratuitamente sorridiamo a chi sta chiuso nella tristezza, e così gli apriamo una via d’uscita.  Scambio di sguardi:  guardare negli occhi e si aprono le porte del cuore”.  
Da dove viene il male, se non dal cuore dell’uomo (Mt 15, 18-19)? Siamo tutti segnati dal peccato originale ed esiste in noi una tendenza a compiere il male, che si scontra con quella opposta, vòlta a compiere il bene.  E riusciamo ad obbedire a quest’ultima solo se viviamo secondo gli insegnamenti di Cristo e ci sosteniamo alla sua Grazia, così come Lui stesso, gli Apostoli, la Chiesa ci hanno sempre insegnato.

Ma Papa Francesco sembra voler dire che il male (l’odio, la violenza, il “teppismo”) nascono dall’infelicità, da quell’infelicità che in particolare i giovani proverebbero per non esser stati amati o per non esserlo stati abbastanza.  La colpa dell’origine del male negli individui sarebbe allora di tutti coloro che non li hanno amati abbastanza, rendendoli in tal modo infelici. Sarebbe, in sostanza, degli altri. Che il malvagio possa considerarsi nel suo intimo un infelice, sembra legittimo affermare purché non si sostituisca l’infelicità alla malvagità, cioè alla cattiva volontà quale causa effettiva delle sue pessime azioni.

L’esperienza mostra che quasi tutte le azioni malvage sono gratuite e che a loro fondamento si trovano quasi sempre la superbia, l’orgoglio mal riposto e, in verità, tutto l’oscuro coacervo  delle nostre passioni, note e meno note.  E che non sono mancati individui dalle spiccate tendenze criminali, cresciuti in un ambiente dove l’affetto e l’amore dei genitori non latitavano, inizialmente.  Ma le azioni malvage delle persone normali, dobbiamo tutte ricondurle alla mancanza di un sorriso e di uno sguardo che aprissero il cuore, quando erano giovani?

1.2  La buona e la cattiva tristezza

Sulla tristezza bisognerebbe poi intendersi.  Di quale tristezza di parla qui?  Il Papa dice che se noi “gratuitamente sorridiamo a chi sta chiuso nella tristezza, gli apriamo una via d’uscita”. Egli vuol dire, certamente, che il mostrare comprensione, amore, affetto ad un soggetto, specialmente un giovane, chiuso nella tristezza, perché afflitto dalla mancanza di questi fondamentali sentimenti nei suoi confronti, può ”aprirgli una via d’uscita”. E non è vero, in certi casi?  È sicuramente vero, tuttavia si tratta di una spiegazione piuttosto limitata.

Bisogna capire cosa c’è dietro questa tristezza. Esistono, infatti, la tristezza buona e quella cattiva. “Or, la tristezza che è secondo Dio, produce un pentimento salutare, che non si rimpiange, perché conduce a salvezza; mentre la tristezza del mondo procura la morte”(2 Cr 7, 10). Saeculi autem tristitia mortem operatur:  e la “tristezza” di tanti uomini e donne di oggi, giovani e meno giovani, è secondo Dio o secondo lo spirito del mondo?  Siamo forse così ciechi da non vedere che per ogni dove dilaga questa sinistra tristitia saeculi?  È la tristitia torva e proterva che si alimenta di superbia, orgoglio, spirito di vanità, lussuria, insomma di tutte le peggiori passioni. Per curarla ci vuole ben altro che “i sorrisi” menzionati dal Papa.  Ci vorrebbe, in primo luogo, la predicazione della vera dottrina e morale cristiana, con al centro l’esigenza della salvezza e quindi della conversione a Cristo.  Esattamente come faceva san Paolo.  Proporre l’esercizio dell’umana simpatia e comprensione quali uniche medicine per curare la “tristezza” figlia delle Tenebre che affligge questa nostra generazione, sembra a me come pretender di curare la cancrena con l’aspirina.

2. L’Amore di Dio per noi, “anticipante e incondizionato”.

Stabilito il carattere gratuito del vero amore, Papa Francesco passa a spiegare ‘l’amore di Dio” nei nostri confronti.  L’amore di Dio costituisce il parametro del vero amore.  Secondo il Papa, esso, oltre che gratuito, è anche anticipante e incondizionato.  Qui il discorso del Papa viene a coinvolgere la dottrina.

“Il primo passo che Dio compie verso di noi è quello di un amore anticipante e incondizionato. Dio ama per primo. Dio non ci ama perché in noi c’è qualche ragione che suscita amore. Dio ci ama perché Egli stesso è amore, e l’amore tende per sua natura a diffondersi, a donarsi. Dio non lega neppure la sua benevolenza alla nostra conversione: semmai questa è una conseguenza dell’ amore di Dio. San Paolo lo dice in maniera perfetta: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 8).  Mentre eravamo ancora peccatori. Un amore incondizionato. Eravamo “lontani”, come il figlio prodigo della parabola: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione” (Lc 15, 20). Per amore nostro Dio ha compiuto un esodo da Sé stesso, per venirci a trovare in questa landa dove era insensato che lui transitasse. Dio ci ha voluto bene anche quando eravamo sbagliati”.

Secondo Papa Francesco, dunque, l’amore di Dio nei nostri confronti è “anticipante” dal momento che Egli ci ama per primo, prima ancora del nostro amore per Lui. Il suo amore anticipa il nostro. Dio si dona a noi, amandoci. Ci ama prima dei nostri peccati e anche dopo, nonostante i nostri peccati. Altrimenti, come rileva san Paolo, Cristo non sarebbe morto per noi, per noi che eravamo ancora peccatori.  Il passo di san Paolo ci illustra la misericordia divina, che ha mandato il suo divin Figliolo a morire per noi sulla croce.   Ciò dimostrerebbe che l’amore di Dio è incondizionato. Ugualmente lo dimostrerebbe la parabola del Figliol Prodigo, come rappresentata da Papa Francesco, che vuol sottolineare la permanenza dell’amore di Dio per noi quando eravamo ancora “lontani”. Più che esser noi tornati a Lui, sarebbe stato Lui a venire a noi, “compiendo un esodo da Sé stesso”.  A me sembra che qui si rovesci il senso della celebre Parabola:  è il Figliol Prodigo che ritorna pentito, non è Dio che “esce da se stesso” per andare a lui, per andare incontro ad un peccatore, che non risulta essersi pentito, nella ricostruzione di Papa Francesco!

I due Testi scritturali citati dal Papa a mio parere non consentono affatto l’interpretazione che egli ne dà, secondo la quale essi rivelerebbero la natura incondizionata dell’amore di Dio. Possiamo certamente dire che esso è anticipante. Quest’aggettivo ci riconduce alla nozione, dogmaticamente definita, della grazia preveniente che Dio concede a tutti gli uomini poiché, nella sua bontà, egli vuole che tutti gli uomini siano salvi, come risulta dai noti passi neotestamentari (p.e. 1 Tm 2, 4; 4, 10). Vuole che tutti siano salvi ma non che tutti si salvino comunque, vale a dire indipendentemente dal loro comportamento in relazione ai Dieci Comandamenti, se buono o cattivo. Chi rifiuterà la grazia, non si salverà. Con la nostra volontà dobbiamo ricercare l’aiuto della Grazia (“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, Lc 11, 9). Senza la Grazia, con l’azione della quale dobbiamo cooperare strettamente se vogliamo davvero salvarci, nulla possiamo: ma questo aiuto non ci cade sulla testa dall’alto, passivamente. La fede cattolica, ridefinita magistralmente dal dogmatico Tridentino, non è l’eretica fede fiduciale di Lutero, verso la quale sembra indubbiamente pencolare il discorso papale, con questo suo insistere sul carattere incondizionato di un amore divino che non sembra affatto richiedere il pentimento del peccatore e la sua nuova vita, con le indispensabili buone opere; un amore che sembra condurre tutti alla “liberazione”, a  prescindere dalla conversione a Cristo.

2.1 Citazioni scritturali fuor di contesto da parte del Papa


Che non sia incondizionato, risulta innanzitutto dal vero significato dei versetti scritturali citati dal Papa fuor di contesto,  una volta rimessi nel loro proprio.  Cominciamo con il passo della Lettera ai Romani.  
“Poiché, quando ancora noi eravamo privi di forza, Cristo, nel tempo stabilito, è morto per gli empi. È raro il caso che uno voglia morire per un giusto; tuttavia qualcuno forse accetterebbe di morire per un uomo dabbene.  Ma Dio dà prova del suo amore verso di noi proprio in questo, che mentre noi eravamo ancora dei peccatori, Cristo è morto per noi.  Con più forte ragione dunque ora, che siamo giustificati dal suo sangue, saremo salvi dall’ira divina per mezzo di lui” (Rm 5, 6-9. Corsivi miei)
Il sangue di Cristo, procurandoci la salvezza ci salva dall’ira divina, concetto caduto nell’oblío, nella pastorale postconciliare.  Si tratta del significato espiatorio del Sacrificio di Cristo, connesso a quello propiziatorio. L’amore di Dio coesiste dunque con l’ira divina, cosa che l’Apostolo trova perfettamente naturale, ovviamente. L’amore di Dio verso il genere umano si è manifestato con l’Incarnazione del Verbo, che ci ha permesso di essere giustificati dal suo sacrificio sulla croce,  e quindi di salvarci dall’ira divina, che  si abbatterà su coloro che rifiuteranno Cristo, come risulta dal contesto paolino e da  tanti altri passaggi neotestamentari. Senza alcun merito da parte nostra, l’amore di Dio ci ha concesso la possibilità della salvezza mediante l’Incarnazione del Verbo, ma tale possibilità è condizionata dalla nostra conversione a Cristo, altrimenti l’ira divina si abbatterà su di noi. L’amore di Dio non è pertanto incondizionato, Egli vuole che noi rispondiamo con la conversione a Cristo, in fede e opere, altrimenti all’amore subentra l’ira ossia il decreto di condanna della divina giustizia.

Ugualmente fuor di contesto è citato dal Papa il passo della parabola del Figliol Prodigo. Papa Francesco lo cita come se la parabola volesse suggerire l’idea che Dio ha compassione di noi, così come siamo, quando siamo ancora lontani da lui, ragion per cui, senza pretendere che noi ci emendiamo, viene a noi con il suo amore, come uscendo da se stesso. L’immagine di Dio che “esce da se stesso” per venire a noi la trovo francamente oscura: non riesco a comprendere che cosa voglia effettivamente dire. Comunque: viene a noi, come il padre nella parabola. Per far cosa, di noi?  Per abbracciarci, perdonarci, si suppone, esattamente come fa il padre del Figliol Prodigo con il figlio che ritorna all’ovile.

Ma noi sappiamo bene, dalla parabola, che il Figliol Prodigo, quando viene scorto da lontano dal Padre, stava tornando a casa perché si era in cuor suo amaramente pentito della sua vita sciagurata e peccatrice.  Era il ritorno di un cuore provato, contrito e pentito, che veniva a chiedere misericordia per i suoi peccati, sottomettendosi completamente all’autorità del Padre. Ma questo elemento essenziale della parabola, nell’interpretazione del Papa viene completamente taciuto.

Ridottosi a fare il guardiano di porci, “avrebbe voluto riempirsi il ventre delle carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava.  Allora, rientrato in se stesso, disse: - Quanti mercenari [lavoranti] di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io, qui, muoio di fame! Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò:  Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te!  Non son più degno di esser chiamato tuo figlio:  trattami come uno dei tuoi mercenari.  E, alzatosi, andò da suo padre.  Lo vide il padre, mentre era ancora lontano, e ne ebbe pietà; allora correndogli incontro gli si gettò al collo e teneramente lo baciò…”(Lc 15, 15-20).

Ne ebbe pietà, il Padre, poiché vide com’era ridotto e vide la tristitia secundum Deum sul suo volto, non più quella perversa del Secolo, di quando si era ribellato e se ne era andato, per godersi la vita lontano dal Padre.  Il significato tramandato della parabola non è stato sempre quello di mostrarci come Dio sia misericordioso con chi si pente sinceramente e vuol cambiar vita, tanto da considerare il ritorno a Lui di un solo peccatore evento tale da far gran festa in cielo?  Quando, pentiti e contriti, vogliamo ritornare alla fede e alla vita cristiana, ecco che Dio ci viene incontro e ci accoglie, corroborando in noi lo spunto già presente della Grazia, per merito della quale, da Figliol Prodighi quali eravamo avevamo tuttavia cominciato a “rientrare in noi stessi”.

Invece, nell’esposizione di Papa Francesco, si ha l’impressione di una salvezza che opera in noi unilateralmente, senza alcuna cooperazione da parte nostra, quale risultato di un amore incondizionato che ci accetta sempre come siamo; Grazia che ci corre incontro senza che noi si debba metterci del nostro, correndo a nostra volta verso di essa con tutte le nostre forze, in modo poi da correre assieme verso la vita eterna (1 Cr, 15, 10; Fil 3, 12 ss). Una prospettiva, quella del Papa, che sembra ricalcare quella di Lutero, della sua eretica dottrina della Giustificazione ottenuta passivamente, con la sola fede nella salvezza guadagnata per noi da Cristo, senza bisogno di buone opere da parte nostra; dottrina, come sappiamo, pubblicamente lodata da Papa Francesco!  Una lode scandalosa e abominevole, che non rappresentava, evidentemente, un mero flatus vocis.

Che l’interpretazione di Papa Francesco appaia sostanzialmente luterana, risulta non solo dall’affermazione esplicita del carattere incondizionato dell’amore di Dio per l’uomo ma anche dal suo completo silenzio sulla necessità per l’uomo peccatore di pentirsi e cambiar vita, di cooperare con la Grazia al fine di diventare interiormente quell’uomo nuovo in Cristo, che si è spogliato delle passioni ingannatrici e corruttrici; silenzio assordante su quella totale renovatio di noi stessi  espressamente indicata dal Signore quale condizione indispensabile per entrare nel Regno dei Cieli (Gv 3, 3; Ef 4, 20 ss).  Anzi, la pastorale di Papa Francesco sembra addirittura procedere nella direzione opposta a quella della Verità rivelata, intesa com’è a inculcare l’idea che l’amore di Dio incondizionato per noi “come siamo”, “ci libera”, tramite la Croce e la  Resurrezione, lasciandoci sempre “come siamo”, cioè senza che tale “liberazione” comporti il rinnovamento interiore richiesto  dal Verbo al vero credente!
3. Siamo tutti accolti nella “relazione di amore” della S.ma Trinità, e “per grazia”, senza le opere!
Il ragionamento di Papa Francesco prosegue con un parallelo fra l’amore materno e l’amore di Dio. L’amore materno, sottolinea il Papa, non viene mai meno, anche nel caso estremo di un figlio delinquente, rinchiuso giustamente in prigione.   Per sua madre, egli resta sempre suo figlio.  L’amore della madre per i figli è del tutto gratuito, veramente incondizionato.
Uguale è l’amore di Dio, afferma il Papa:  così come la madre continua ad amare un figlio delinquente, allo stesso modo Dio ci ama “anche quando siamo peccatori”. In effetti, annoto, la divina Misericordia, quali che siano i nostri peccati, non ci consente forse di pentirci e quindi di salvarci, sino all’ultimo istante della nostra vita? Lo dimostra l’episodio del Buon Ladrone crocifisso accanto a Cristo: mentre l’altro delinquente inveiva contro Gesù, lui si pentiva e chiedeva perdono per i suoi peccati, ottenendo in tal modo la salvezza per esplicita dichiarazione del Signore e persino direttamente il Paradiso (Lc 23, 39-43).

Dio, però, ha voluto esser rappresentato per noi come padre non come madre. E difatti, nell’immagine tradizionale dell’ufficio paterno trova posto anche quella severa del padre che giudica e castiga i figli, quando lo meritano, sia per il loro bene che per le esigenze della giustizia.  Sempre secondo l’immagine tradizionale, tale severità non si ritrova nella madre.  Equiparare in toto l’amore del Padre a quello di una madre, significa, a ben vedere, dare un’immagine edulcorata di Dio Padre, espungendone del tutto quei tratti virili rappresentati dall’esercizio di un’autorità che, per quanto paterna, deve tuttavia applicare la giustizia.  E, nel caso di Dio, si tratta di quella giustizia che dispone della nostra vita eterna!  L’equiparazione di Papa Francesco comporta pertanto una sostanziale diminuzione del vero significato di Dio Padre per noi, con la sua caratteristica correlazione di Bontà e Giustizia, Misericordia e Giudizio: dico vero significato poiché è quello che risulta da ciò che la nostra bimillenaria tradizione cattolica ha sempre inteso nella nozione di Dio Padre.
“Dio fa la stessa cosa con noi [la stessa della madre]:  siamo i suoi figli amati!  Ma può essere che Dio abbia alcuni figli che non ami?  No.  Tutti siamo figli amati di Dio.  Non c’è alcuna maledizione sulla nostra vita, ma solo una benevola parola di Dio, che ha tratto la nostra esistenza dal nulla.  La verità di tutto è quella relazione d’amore che lega il Padre con il Figlio mediante lo Spirito Santo, relazione in cui noi siamo accolti per grazia.  In Lui, in Cristo Gesù, noi siamo stati voluti, amati, desiderati.  C’è Qualcuno che ha impresso in noi una bellezza primordiale, che nessun peccato, nessuna scelta potrà mai cancellare del tutto.  Noi siamo sempre, davanti agli occhi di Dio, piccole fontane fatte per zampillare acqua buona.  Lo disse Gesù alla donna samaritana:  “L’acqua che io [ti] darò diventerà in [te] una sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”(Gv 4, 14)”.
Dunque, Dio si comporta con noi come una madre: ci ama tutti e nessuno di noi è maledetto da Lui, la nostra vita si svolge tutta all’insegna della “parola benevola di Dio”, della sua soprannaturale bontà.  Che la bontà di Dio provveda sempre e comunque per le necessità nostre individuali e del genere umano, ciò viene testimoniato ampiamente, come sappiamo, nelle fonti scritturali.  Ma, siamo sempre lì:  il discorso di Papa Francesco vuol vedere in Dio solo questi attributi, come se non fosse stato ampiamente rivelato che Egli nello stesso tempo esercita (e non potrebbe essere altrimenti) la più severa ed infallibile giustizia nei nostri confronti, senza “preferenza di persone”, ossia senza guardare in faccia a nessuno.  Tacendo questo fondamentale aspetto, ne risulta un’immagine falsata di Dio.

Ciò è confermato dall’ultimo passo dell’intervento pontificio da me appena citato, che si sforza anch’esso di inquadrare nella retta dottrina le sue peculiari tesi.
Bisogna, infatti, rilevare i seguenti punti:

  1. L’affermazione “non c’è alcuna maledizione sulla nostra vita”, si intende da parte di Dio, vale solo per la nostra vita terrena.
    Non vale per quella eterna, che è la cosa più importante. La Chiesa ha sempre insegnato che non esiste predestinazione alla dannazione, come sostengono erroneamente gli eretici luterani e calvinisti, ragion per cui nessuno è come tale maledetto da Dio, cioè destinato a priori alla perdizione. Ma quelli che saranno il giorno del Giudizio condannati per sempre all’Inferno, verranno esplicitamente maledetti da Dio. Lo ha rivelato Nostro Signore: “Infine dirà anche a quelli che saranno alla sua sinistra: Andate lontano da me, voi maledetti, nel fuoco eterno, preparato pel diavolo e per gli angeli suoi.  Perché ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere…” (Mt 25, 41 ss). La maledizione la subiranno tutti i peccatori impenitenti, il giorno del Giudizio, e sarà irredimibile. Bisogna quindi tener bene a mente che possiamo incorrere nella maledizione divina all’inizio dell’altra vita, quella che dura in eterno, l’unica che veramente conti per noi.
  2. Appare nebulosa l’affermazione che nell’amore unente le tre persone della Santissima Trinità sarebbe il modello (la “verità”) di quest’amore di Dio che ci accoglie così come siamo.  
    Qui ci troviamo di fronte ad un riferimento teologico che vorrebbe esser decisivo, sul piano dell’argomentazione.  Invece, appare anch’esso sbilanciato in senso luterano, dal momento che vi si dice esser noi “accolti per grazia” nella “relazione di amore” trinitaria.  Per grazia, e le buone opere?  Che fine hanno fatto?  Ma il concetto dell’esser accolti nella relazione d’amore della S.ma Trinità si presenta in realtà piuttosto oscuro.  C h i  viene poi accolto:  solo i cattolici morti in stato di grazia, i veri credenti in Cristo o tutta l’umanità, in quanto tale?  Il discorso del Papa sembra rivolto a quest’ultima, senza distinguere.  E non sembra affatto concernere le anime dei Giusti bensì tutti noi in terra, qui ed ora.   

Dal Vaticano II in poi il richiamo alla S.ma Trinità  quale modello che si realizza nella Chiesa e nel modo di essere dei fedeli, è diventato una moda, possiamo dire.  La Lumen Gentium, agli articoli 2-5, articola l’insolita tesi di una Chiesa dallo sviluppo trinitario, nelle tre epoche del Padre, del Figlio, dello Spirito:  schema dal sapore gioachimita, che poco ha a che vedere con la dottrina ortodossa sulla Chiesa; schema visionario, che vuol far intendere essersi iniziata, con il Concilio, l’epoca dello Spirito, una nuova alba per la Chiesa, una nuova Pentecoste.  Mai auspicio si è dimostrato più errato, vera e propria falsa profezia, come dimostra la crisi spaventosa che si è abbattuta sulla Chiesa, proprio a partire dal Concilio.   Del resto, anche il modello gioachimita era il frutto di un’esaltata fantasia, com’è vero che la Nuova Era, l’era dello Spirito avrebbe dovuto iniziarsi, secondo i complicati calcoli dell’abate calabrese, nell’anno 1260!

Ma lo schema trinitario lo si trova applicato oggi anche al rapporto tra i singoli fedeli e la divinità, come se le categorie con le quali cerchiamo di spiegare (per quanto possiamo) i profondi misteri trinitari, potessero applicarsi anche a noi fedeli nel nostro rapporto con Dio. Il che francamente non si vede come sia possibile.1 

Che vuol dire, infatti, “esser accolti per grazia nella relazione di amore che lega il Padre e il Figlio con lo Spirito Santo”? Vuol forse dire che l’amore gratuito e del tutto incondizionato che Dio avrebbe sempre per noi, essendo il medesimo che intercorre fra le tre persone della S.ma Trinità, ci accoglie unilateralmente, per grazia, nella inabitazione trinitaria già qui, durante la nostra vita terrena? Si tratterebbe, allora, di un modo di rendere la tradizionale verità di fede della inabitazione dello Spirito Santo in noi, dell’unità nostra ineffabile, spirituale con il Cristo? Se di questo si tratta, bisogna dire che tale verità è riproposta in modo alquanto insolito.

Nostro Signore ha detto:  “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui, e dimoreremo in lui.  Chi non mi ama non osserva le mie parole”(Gv 14, 23-24).  Non siamo noi ad esser unilateralmente “accolti per grazia” nell’unione mistica con il Figlio e il Padre, mediante lo Spirito Santo.  Al contrario, sono il Figlio e il Padre che, mediante lo Spirito Santo, verranno ad “abitare in noi”.  Ma in noi, chi?  S o l o  in coloro che avranno dimostrato di amare Nostro Signore, vale a dire di seguire i suoi insegnamenti, di voler fare in tutto la volontà di Dio.

In questa “mistica unione”, che ha luogo solo nei battezzati o in coloro che godono del battesimo di desiderio,  l’uomo non si divinizza, non viene accolto nella inabitazione delle Persone divine.  La natura non si confonde con il Sovrannaturale.Resta l’uomo sempre uomo, ma, per l’appunto, comincia ad operare in lui l’azione sovrannaturale della grazia, che egli vuole ed accetta:  azione che lo eleva e lo arricchisce continuamente nella volontà, nell’intelligenza, nel carattere, nei sentimenti.  

Nella fondamentale Encliclica Mystici Corporis, del 29 giugno 1943, Pio XII ammoniva a non cadere nell’errore di concepire “l’altissimo mistero” dell’inabitazione dello Spirito Santo in noi, con l’attribuire all’uomo attributi divini. Il retto insegnamento della Chiesa – scriveva – ha sempre fatto in modo di “respingere, in questa mistica unione, ogni modo col quale i fedeli, per qualsiasi ragione, sorpassino talmente l’ordine delle creature ed invadano erroneamente il campo divino, che anche un solo attributo di Dio eterno possa predicarsi di loro come proprio”.2 Ma nel sermone di Papa Francesco, nella complicata frase coinvolgente la S.ma Trinità, non vediamo di fatto un inserimento “per grazia” dell’uomo, di ciascun uomo in quanto tale e sempre peccatore, e peccatore non redento, nella reciproca inabitazione delle Tre persone divine, perché caratterizzata da un amore che sarebbe il medesimo – incondizionato – che Dio manifesterebbe nei confronti dell’uomo? Ma in tal modo l’uomo, ogni uomo, non viene a trovarsi “inserito” nella S.ma Trinità e quindi in sostanza divinizzato? Inserito, non il Giusto, colui che risorto e trasfigurato parteciperà della Visione Beatifica, ma l’uomo in quanto tale, l’uomo ancora peccatore, qui, in questo mondo!
4.  Anche nell’evocare l’episodio della Samaritana, Papa Francesco tace sulla necessità della conversione, indispensabile per entrare nella vita eterna.
A sostegno della sua tesi, il Papa cita da ultimo l’episodio della Samaritana al pozzo, cui Gesù chiese da bere. Egli estrae il passo dal quale si può dedurre che agli occhi di Dio siamo sempre “piccole fontane fatte per zampillare acqua buona”: l’acqua che il Signore darà alla Samaritana diventerà per essa una sorgente che zampilla per la vita eterna.  
Vediamo il testo più ampiamente.
“Chi beve di quest’acqua [del pozzo] tornerà ad avere sete; chi invece berrà l’acqua che gli darò io non avrà più sete in eterno; ma l’acqua che gli darò, diventerà in lui sorgente di acqua zampillante sino alla vita eterna”. Disse a lui la donna: “Signore, dammi di quest’acqua, affinché non abbia più sete, e non debba venir qui ad attingere” (Gv 4, 13-15). L’acqua della sorgente che è Gesù è la sua parola, fonte di vita eterna per chi le obbedisce. La Samaritana chiede subito di poter abbeverarsi a questa fonte, anche se non sembra aver compreso tutte le implicazioni di quanto detto da Gesù. Ma Gesù come risponde? Svelando alla donna la sua vita dissoluta: “Hai detto bene, non ho marito, perché ne hai avuti cinque e quello che hai ora non è tuo marito”(ivi, 17-18). Per umiliarla, le disse questo? No. Per farle capire che Egli era il Messia atteso e che, se voleva abbeverarsi alla fonte dell’acqua che dà la vita eterna, ella doveva purificare la sua vita, pentirsi e convertirsi. L’amore di Dio nei nostri confronti resta pertanto sempre condizionato dalla nostra volontà di seguire fedelmente i divini insegnamenti. Il dialogo fra Nostro Signore e la Samaritana ne è anch’esso una dimostrazione.
5.  Dall’amore incondizionato di Dio Padre, “che ci ama come noi siamo”, soffia un “vento di liberazione”, che non distingue tra Eletti e Reprobi.
Nella chiusa del suo intervento, Papa Francesco ribadisce che Dio Padre ci ama come siamo, sempre e tutti, e questo suo amore incondizionato ci libera attraverso Cristo. 
“Gesù non è morto e risorto per se stesso, ma per noi, perché i nostri peccati siano perdonati. È dunque tempo di risurrezione per tutti: tempo di risollevare i poveri dallo scoraggiamento, soprattutto coloro che giacciono nel sepolcro da un tempo ben più lungo di tre giorni. Soffia qui, sui nostri visi, un vento di liberazione. Germoglia qui il dono della speranza. E la speranza è quella di Dio Padre che ci ama come noi siamo:ci ama sempre e tutti. Grazie!”.
Giustamente il Papa ricorda il significato propiziatorio della morte in croce di Nostro Signore: ottenerci misericordia (propitiatio) per i nostri peccati. Però poi il Papa aggiunge subito dopo che “è tempo di resurrezione per tutti”. Quale resurrezione? Si tratta certamente di una resurrezione in senso spirituale, visto che essa include “il risollevare i poveri dallo scoraggiamento” e in particolare “quelli che giacciono nel sepolcro da un tempo ben più lungo di tre giorni”. Sono, evidentemente, i “tre giorni” intercorsi tra la morte in croce del Signore e la sua resurrezione, qui menzionati simbolicamente per incoraggiare coloro che si trovano da ben più di tre giorni nel “sepolcro” rappresentato evidentemente dalla malattia, da una grave malattia o dalla povertà.
Così interpreto il passo, che appare comunque improntato ad un simbolismo singolare.  La resurrezione del Signore ci infonde la speranza, dunque.  Speranza in che cosa? Nella vita eterna? Il Papa non lo dice apertamente, non usa questo termine.  Preferisce il termine “liberazione”.  Siamo sempre ad un linguaggio indiretto, il quale più che dire apertamente e in modo chiaro mira a far capire, far intendere.  È lo stile obliquo penetrato nella pastorale della Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II. 
La Resurrezione del Signore produce per noi “un vento di liberazione” che “soffia su di noi”. Possiamo quindi sperare. E questa nostra speranza “è quella di Dio Padre che ci ama come siamo, sempre e tutti”. Il testo appare anche qui piuttosto aggrovigliato.  La speranza può essere solo nostra, solo dell’uomo, non si può attribuirla a Dio. Dio non ha bisogno di “sperare” in qualcosa! Credo che il senso del contorto periodo sia: la Resurrezione di Cristo ci libera, possiamo quindi tutti sperare, poiché essa Resurrezione conferma che Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”, incondizionatamente. Con “resurrezione” non si intende, pertanto, la nascita dell’uomo nuovo in noi, grazie alla profonda renovatio interiore indotta dalla conversione a Cristo.

Ho messo nel periodo un ordine logico che in esso non appare ma che sembra potersi desumere dal contesto. Circa l’oggetto dello sperare, esso dovrebbe essere la vita eterna, secondo l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Ma perché il Papa non lo dice apertamente? Egli si limita, invece, a far capire, obbligandoci all’ennesimo sforzo interpretativo. È dal tempo di Giovanni XXIII che i documenti della Prima Sedes non hanno più la chiarezza concettuale ed espositiva, per esempio, di quelli di un Papa come Pio XII, obbligando quasi sempre il fedele a complicati sforzi ermeneutici: dicono e non dicono, accennano, lasciano intendere, come se volessero dire qualcosa che ufficialmente non possono dire; come se il non-detto e l’implicito costituissero il vero significato, al di là della forma apparente, spesso contorta.  

Il nuovo modo di esprimere la verità di fede della salvezza eterna che ci ottiene la Croce di Cristo è dunque quello che sostituisce alla salvezza un termine ambiguo come liberazione: ambiguo perché ha un significato escatologico per il messianesimo profano delle ideologie rivoluzionarie; liberazione, questa invocata dal Papa, cui tutti possiamo legittimamente sperare perché Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”.   

L’immagine della “liberazione” contiene qui l’idea di un atto che viene dal Cristo senza bisogno del nostro concorso personale: siamo tutti liberati, risorgeremo tutti, Egli ci ha liberato.Tale “liberazione” è per tutti, dal momento che Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”. Questa precisazione finale ribadisce quanto detto in precedenza dal Papa, ovvero il carattere incondizionato di un amore divino che sempre ci accetterebbe “come siamo”. È evidente, pertanto, che il “tutti” ricomprende l’intera l’umanità e non i soli cattolici: tutti saremo liberati, ci dice il Papa, dal fatto in sé della Resurrezione, frutto dell’amore incondizionato di Dio per l’umanità. 

Non si profila qui l’errore della salvezza garantita a priori a tutti gli uomini dal Sacrificio di Cristo, senza bisogno di conversione a Lui? In effetti, manca di nuovo, nel discorso del Papa, un qualsiasi accenno alla necessità della conversione a Cristo per poter ottenere la salvezza, e quindi l’indicazione espressa della necessità del nostro libero concorso individuale all’opera della Grazia in noi; necessità definita dogmaticamente dal Concilio di Trento, contro gli errori dei Protestanti (DS 797/1525). Il carattere luterano e quindi protestante di tutto il discorso del Papa non ne risulta confermato? Esso tace ma anche stravolge verità della nostra fede, immutate da duemila anni.  

Non è vero che Dio ci ama “come siamo”, accettandoci come siamo, “liberandoci” come siamo. Nostro Signore non ha detto apertamente, e non una sola volta, che solo chi “nasce di nuovo” nell’obbedienza ai suoi insegnamenti può sperare di entrare nel Regno di Dio, dopo il Giudizio cui la sua anima dapprima e alla fine dei tempi l’anima riunita al corpo saranno sottoposti da Lui stesso? E san Paolo, divinamente ispirato, non ha ribadito il suo insegnamento, quando ci ha ammonito che alla Resurrezione finale ognuno raccoglierà quello che avrà seminato in vita, poiché Dio non si lascerà ingannare e saprà ben distinguere i buoni dai cattivi, chi lo ha servito in fede e opere e chi no? 
“Non vi fate illusioni: Dio non si lascia irridere; ognuno, infatti, mieterà quello che avrà seminato: e quindi chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà la corruzione; chi invece semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non ci stanchiamo mai di fare il bene, perché, se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo”(Gal 6, 7-10). [Fonte:  Iter]
__________________________
1. Sulla supposta “natura trinitaria” della Chiesa-Popolo di Dio, vedi le fumose elucubrazioni di Bruno Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, San Paolo, Milano, 1995.
2. Pio XII, Enciclica Mystici Corporis sul corpo mistico di Cristo, tr. it. de L’Osservatore Romano, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1959, p. 63 (DS 2290/3814). La Sacra Bibbia in italiano viene da me citata qui nella edizione della CEI delle Edizioni Paoline anteriore al Concilio; il testo originale secondo l’edizione graece et latine curata da Nestle e Aland.

20 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto interessante questo articolo! Ricordiamoci anche della parabola dei talenti,chi non li ha impiegati bene verrà condannato, Gesù ribadisce che il Signore è un Dio esigente che miete dove non ha seminato e condanna il servo infingardo e infedele,altro che salvezza per tutti a buon mercato! In questa vita siamo dunque tutti invitati ad impegnarci al massimo con le opere e con i fatti secondo le nostre possibilità... Michele

Anonimo ha detto...

Dio disse a santa Caterina da Siena: “Ogni creatura che ha in sé ragione ha la vigna per se medesima, cioè la vigna dell’anima sua; della quale la volontà col libero arbitrio nel tempo ne è il vignaiolo, cioè mentre che egli vive. Ma poi che è passato questo tempo, non può più fare alcun lavoro, né buono né cattivo; ma mentre che egli vive può lavorare la vigna sua, nella quale Io l’ho messo.”

(Santa Caterina da Siena – Dialogo della Divina Provvidenza, 23)

http://itresentieri.it/la-borraccia-settimanale-n52/

irina ha detto...

Amore è sacrificio di sè. Il resto sono chiacchiere. Il Signore Gesù si è sacrificato per la nostra salvezza.
Il Signore ci conosce meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Questo sentirci e saperci conosciuti in modo così profondo, ci sostiene nella lotta quotidiana, nel superamento delle debolezze occasionali o abituali.
L'accoglienza, di maniera del sorriso e della pacca sulle spalle, è a dir poco ipocrita. Tutto ciò che nasce e resta gesto vuoto, senza storia nè prima nè poi è pagliacciata.
Ho notato anch'io nell'ultima omelia il tentativo di presentare il nostro Salvatore come uno di noi, CHE MIGLIORA ANDANDO. Desacralizzazione? Certamente sì, nella religione globale è l'uomo il salvatore dell'altro uomo, possibilmente finanziere, illuminato e nascosto.
Che dire? La sostituzione della religione cattolica con quella globale è avanzata, il capo della religione ex cattolica è schierato:ha scelto Soros, molti esseri umani hanno fatto la stessa scelta, la terra trema, nelle strade ammazzano chi capita capita, senza che nessuno vada alle vere cause. Noi procediamo nel nostro impegno. Grazie, PP

Cor Mariae dulcissimum, iter para tutum.

Anonimo ha detto...

Ringrazio il prof. Pasqualucci,come sempre chiaro ed efficace nell'esporre la sana dottrina cattolica. Ineccepibile!
Antonio (Napoli)

Anonimo ha detto...

Aggiungo che,oramai, in quasi tutte le omelie che commentano la parabola del figliuol prodigo si dicono le medesime cose.
P.S. Domenica scorsa,mi è toccato sentire,nell'omelia del parroco di una chiesa di Follonica, che la figlia della cananea era affetta da qualche malattia, allora sconosciuta, nel Vangelo chiamata " demonio".
Antonio

tralcio ha detto...

OT (parzialmente)...
Pio XII, papa mariano, non si limitò al dogma dell’Assunta, ma volle festeggiare la Beata Vergine Maria con il titolo di Regina, la madre del Re divino, Gesù Cristo.
La Madre di Dio, che preghiamo nel quinto mistero glorioso del rosario (incoronazione di Maria Regina del cielo e della terra), presiede all'universo con cuore materno, coronata di gloria nella beatitudine celeste.
La riforma liturgica spostò la data della festa all'ottava dell'Assunzione, in una data provvidenzialmente dedicata al cuore immacolato di Maria, particolare da non sottovalutare in questo centenario di Fatima. Noi esuli figli di Eva possiamo rivolgere a lei, umile Serva del Signore, le nostre suppliche rivolte al Padre perché si compia la Sua volontà in terra come in cielo, sapendo lei sul trono di regina di questa terra come anche del cielo, nella gloria degli angeli e dei santi.

Scriveva Pio XII che il mondo terreno, assoggettato dalla ribellione e dal peccato al suo principe, può contare su una regalità “alternativa”, garanzia di una possibile uscita dall’esilio.
Attoniti davanti alle grandi rovine (allora materiali e oggi soprattutto spirituali) che, anche sotto i nostri occhi, hanno distrutto fiorenti città, paesi e villaggi; davanti al doloroso spettacolo di tali e tanti mali morali, che si avanzano paurosamente in limacciose ondate, mentre vediamo scalzare le basi stesse della giustizia e trionfare la corruzione, in questo incerto e spaventoso stato di cose, presi da sommo dispiacere ricorriamo fiduciosi alla nostra Regina Maria, mettendo ai piedi di lei i sentimenti di devozione di tutti i fedeli, che si gloriano del nome di cristiani.
Il popolo cristiano ha sempre creduto a ragione, anche nei secoli passati, che colei, dalla quale nacque il Figlio dell'Altissimo, che «regnerà eternamente nella casa di Giacobbe» (Lc 1, 32), (sarà) «Principe della pace» (Is 9, 6), «Re dei re e Signore dei signori» (Ap 19, 16), al di sopra di tutte le altre creature di Dio ricevette singolarissimi privilegi di grazia...
Onde sant'Alfonso, tenendo presente tutta la tradizione dei secoli che lo hanno preceduto, poté scrivere con somma devozione: «Poiché la vergine Maria fu esaltata ad essere la Madre del Re dei re, con giusta ragione la chiesa l'onora col titolo di Regina».
Fervidi accenti risuonano dall'Oriente: «O Madre di Dio, oggi sei trasferita al cielo sui carri dei cherubini, i serafini si onorano di essere ai tuoi ordini, mentre le schiere dei celesti eserciti si prostrano dinanzi a te».
Nel «Messale» etiopico si legge: « O Maria, centro di tutto il mondo ... tu sei più grande dei cherubini pluriveggenti e dei serafini dalle molte ali. ... Il cielo e la terra sono ricolmi della santità della tua gloria».
Fa eco la liturgia della chiesa latina con l'antica e dolcissima preghiera «Salve, regina», le gioconde antifone «Ave, o regina dei cieli», «Regina del cielo, rallégrati, alleluia» e altri testi, che si recitano in varie feste della beata vergine Maria: «Come regina stette alla tua destra con un abito dorato, rivestita di vari ornamenti»; «La terra e il popolo cantano la tua potenza, o regina»; «Oggi la vergine Maria sale al cielo: godete, perché regna con Cristo in eterno».
La beatissima Vergine si deve proclamare regina non soltanto per la maternità divina, ma anche per la parte singolare che, per volontà di Dio, ebbe nell'opera della nostra salvezza eterna. Ripensino tutti gli uomini dimentichi quanto costammo al nostro Salvatore: "Non siete stati redenti con oro o argento, beni corruttibili, ... ma col sangue prezioso di Cristo, agnello immacolato e incontaminato" (1 Pt 1;18-19). Non apparteniamo dunque a noi stessi, perché "Cristo a caro prezzo" (1 Cor 6, 20) ci ha comprati».

Anonimo ha detto...

Quella che racconta Francesco è una favola, bella, ma pur sempre una favola.
La realtà della Rivelazione e della Redenzione è ben altra.

Anonimo ha detto...

Maria Regina...

Una regalità soprannaturale, da prima e più alta tra le creature: prima nell'ordine della grazia, pur non essendo solo spirito come gli angeli, che la onorano (con i santi) regina.
Una regalità de iure (per diritto) che le dà diritto, nel regno eterno, d'essere onorata in quanto Madre di Dio (incarnato), in una relazione speciale con le Persone della Trinità.
Questo dice di lei il Cielo, per volontà di Dio, del quale s'è fatto umile ancella.
E la terra? SE onorasse lei, anche ogni "diritto" e "regno" terreno godrebbe della stessa pienezza di grazia, in fedeltà, nella sovrabbondanza dei beni. Se la onorasse...
Invece la consideriamo inutile, anche "ombra" al Gesù che diciamo di onorare come Dio e che invece ormai sappiamo considerare al massimo un "brav'uomo", da usare per nostre idee.
Mariolatria? No: perchè la Madonna vuole esattamente ciò che vuole Dio.
E noi invece? Ne siamo così sicuri?
Tutto è grazia... In che senso? Se porta a rispondere alla vocazione di cui Maria è l'eco.
La voce di Dio echeggia in anime dal cuore puro, che vi si ritrovano, cercando la santità.
La volontà di Dio, la santità, la verità... la grazia, l'umiltà.
Amare Dio, come Maria, ci fa come lei, che ci è Regina, come degli angeli e dei santi.
Viceversa si è alla ricerca di cose strane, non di santità, né di verità...

Ascoltando un'omelia di un buon sacerdote, oggi.

Ecco, sto alla porta e busso… (Ap 3,20) ha detto...

Secondo Julio Loredo che ho ascolto su RBC dove tiene una rubrica quindicinale intitolata Catechesi Mariane , l'unica apparizione in cui la Madre di Dio si e' presentata come Regina ( si intende con la corona e nella parte anteriore della stessa una rosa ) e' nella apparizione di Knock in Irlanda .
E' una apparizione riconosciuta dalla Chiesa ma non molto conosciuta , naturalmente parlo per me.
Nostra Signora Regina d'Irlanda e' stata visitata dal Santo Padre Giovanni Paolo II nel 1979 .
Per chi volesse saperne di piu' ed accrescere l'amore e la gratitudine verso la Madre di Dio che non si stanca di prendersi cura di noi :
http://biscobreak.altervista.org/2013/08/apparizione-di-knock/
http://www.iltimone.org/33172,News.html

Grazie Mamma !
E grazie per le vostre bellissime testimonianze .
Santa notte a tutti in compagnia di Gesu' e di Maria .
Grazie Dio Padre Onnipotente per questo giorno di pellegrinaggio sulla terra .

marius ha detto...

Meravigliosa disamina.
Abbiamo bisogno come il pane di osservazioni puntuali che "rimettono il campanile al centro del villaggio", cioè che da un vago piano emotivo riportano le parole di NSGC in una fruttuosa centralità razionale.
Quindi grazie di cuore, professor Pasqualucci.

Vorrei chiederLe, se possibile, uno sviluppo in relazione a questa Sua affermazione:
Ugualmente lo dimostrerebbe la parabola del Figliol Prodigo, come rappresentata da Papa Francesco, che vuol sottolineare la permanenza dell’amore di Dio per noi quando eravamo ancora “lontani”. Più che esser noi tornati a Lui, sarebbe stato Lui a venire a noi, “compiendo un esodo da Sé stesso”. A me sembra che qui si rovesci il senso della celebre Parabola: è il Figliol Prodigo che ritorna pentito, non è Dio che “esce da se stesso” per andare a lui, per andare incontro ad un peccatore, che non risulta essersi pentito, nella ricostruzione di Papa Francesco!

La mia domanda è questa:
l'ermeneutica del Papa in fondo è abbastanza facilmente confutabile in quanto egli ha abbastanza pacchianamente mutato i termini della parabola. Ma come si avrebbe potuto dimostrare la sua propensione al luteranesimo se il Papa, al posto di questa parabola, avesse scelto quella della pecorella smarrita, dove è effettivamente il pastore ad uscire dall'ovile per andare in ricerca di essa?

Io ho pensato che anche qui andrebbe ribadito il fatto fondamentale che la pecorella si è smarrita suo malgrado, quindi non per sua volontà di andarsene dall'ovile, ragion per cui il pastore va con solerzia in cerca di essa, ben conoscendo la sua enorme difficoltà.

In questo senso, l'andare alla ricerca della pecorella perduta potrebbe risultare quasi come un ampliamento del gesto del padre nell'andare incontro al figliolo pentito.
Le sembra possa starci?
Come la vede Lei.
Grazie già fin d'ora per la Sua preziosa disponibilità.

irina ha detto...

Se posso, nel figliol prodigo abbiamo la piena responsabilità del figlio, che ricevuto il suo va e lo dissipa.Dopo il fallimento, pentito, ritorna in sè, ritorna a casa, e il padre, gli va incontro, lo accoglie di nuovo, gli dà ancora fiducia. Nella pecorella smarrita la responsabilità è del pastore, che è lì con il compito di custodirle. Uscendo il pastore, non esce da sè, entra nel pieno dei suoi compiti. Infatti il compito del pastore è quello di custodire le pecore che a lui sono state affidate, di cui lui è responsabile.
Il padre non era più responsabile del figlio, gli aveva riconosciuto il suo ed il figlio era andato.Il figlio non era più sotto la tutela del padre. Era libero di andare ed autonomo finanziariamente, in grado cioè di provvedere a se stesso.
Il pastore è tale perchè il suo compito è curare, custodire, vegliare sulle pecore che gli sono state affidate; della salute e integrità di ognuna lui è responsabile. Il suo compito è non perdere neanche una di quelle che deve custodire.
Direi che il padre ha concluso il suo compito nel momento in cui riconosce al giovane uomo quello che gli compete e la libertà di amministrarlo come crede. L'andargli incontro finale è la manifestazione della sua gioia davanti alla guarigione, ormai insperata, del figlio. Anche il pastore poi farà festa con gli amici, perchè lui ha ritrovato quella che si era persa ed allora tutto il suo gregge è integro, è quello che gli fu affidato.

irina ha detto...

% Nella festa del pastore viene sottolineato poi che in Cielo si farà più festa per il peccatore convertito che per i novantanove che non hanno bisogno di conversione.Mi conferma nel dire che portare alla conversione è compito del pastore.
Pastore che, convertendo, entra a pieno titolo nel suo compito, nella funzione sua propria.

marius ha detto...

grazie Irina

irina ha detto...

@ marius,
a braccio, da madre e da pastora così così. Tutto è grazia.

marius ha detto...

@ Irina
pastora?
pastora luterana??? (naturalmente sto scherzando :-)

irina ha detto...

@marius,
madre pastorizzata. Più pertinente.

Anonimo ha detto...


@ marius

mi semra che irina abbia risposto alla sua domanda ben interpretando la parabola in questione

ringrazio tutti per la generosa stima

pp

marius ha detto...

@ Irina
pastora?
pastora luterana??? (naturalmente sto scherzando :-)

Anonimo ha detto...

http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2017/08/24/0531/01182.html

Anonimo ha detto...

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-il-don-lascia-la-parrocchia-per-entrare-in-politica-20841.htm