Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 13 febbraio 2024

Alla ricerca del culto perduto / don Elia

Qui l'indice degli articoli su Traditionis custodes e restrizioni successive.
Alla ricerca del culto perduto

La rivoluzione liturgica non è consistita unicamente nel protestantizzare la Messa con l’invenzione di un rito che ne oscurasse il carattere sacrificale e la facesse percepire come una riunione fraterna in cui si ricorda l’Ultima Cena; essa, ancor più profondamente, ha stravolto il senso stesso del culto cui Dio ha diritto e che procura all’uomo i beni soprannaturali di cui ha bisogno per salvarsi. Ciò è molto evidente già nel rifacimento della Settimana Santa del 1955 e nelle successive “riforme” di Giovanni XXIII: quella delle rubriche, attuata nel 1960, e quella del Messale, che le seguì a stretto giro nel 1962 [qui - qui]. I cattivi consiglieri di Pio XII lo convinsero a modificare riti millenari di profondo significato teologico e di grande efficacia spirituale, aprendo così la strada agli ulteriori interventi demolitori del successore, che ridusse drasticamente il culto dei Santi e diminuì fortemente anche l’Ufficio domenicale, per non parlare di tutte le vigilie e le ottave già abolite dal predecessore. Dopo decenni di continui mutamenti, il clima era pronto per le radicali innovazioni del 1969.

Criteri estranei
Cercando di individuare le coordinate di questi cambiamenti così notevoli, possiamo coglierne tre: il razionalismo, il funzionalismo e l’utilitarismo. Il primo, in campo cattolico, spunta già nel XVIII secolo, in occasione del sinodo spurio di Pistoia del 1786, poi condannato da papa Pio VI nel 1794: l’intellettualismo illuministico aveva contagiato molti ecclesiastici, convinti che l’elemento decisivo della Liturgia fosse la comprensione di gesti e parole, piuttosto che l’inafferrabile azione della grazia, e che la sua efficacia dipendesse perciò dall’attiva partecipazione del popolo. È indubbio che una seria formazione liturgica sia estremamente utile, se non necessaria, a una buona vita cristiana, ma non dobbiamo dimenticare che i frutti della grazia dipendono soprattutto dalle disposizioni interiori. Coloro che attribuiscono un’importanza eccessiva all’apporto dell’uomo nel culto cattolico tradiscono una mentalità naturalistica che ne ignora il carattere precipuo, ossia la soprannaturalità.

A partire da questa visione deformata, è inevitabile scivolare in un approccio di tipo funzionalistico: i riti devono rispondere a un’attesa antropologica e produrre in tal senso effetti verificabili; essi sono validi nella misura in cui se ne ottengono riscontri immediati. In questa prospettiva ci si aspetta dalla Messa che susciti emozioni e favorisca la coesione del gruppo, oppure la si sfrutta come mezzo di propaganda ideologica; il Sacrificio redentore passa inosservato, sia perché, di solito, non se ne ha neppure la nozione, sia perché la Consacrazione rimane sommersa da un fiume di parole umane non pertinenti. Un’ansia spasmodica per la riuscita esteriore degli atti liturgici crea uno stato permanente di sperimentazione: la creatività e l’improvvisazione diventano inderogabili regole dettate dalla paura di non ottenere il risultato sperato; ogni volta bisogna escogitare qualcosa di nuovo per animare un rito che, effettivamente, non coinvolge più nessuno.

Tale atteggiamento determina col tempo una concezione utilitaristica della Liturgia: si va in chiesa soltanto se se ne ricava qualcosa in termini terreni. Il dovere di onorare il Signore, sia per Se stesso che per tutti i benefici che ci elargisce, è completamente oscurato dalla pretesa di ottenere un qualche godimento effimero di natura intellettuale, estetica o semplicemente emotiva. L’assoluta necessità della grazia ai fini della beatitudine eterna è parimenti caduta in oblio: se c’è un Paradiso, ci si arriva con i propri sforzi umani, eventualmente orchestrati dalle idee del predicatore, qualora siano gradite agli orientamenti dell’uditorio. È qui che si deve instaurare il Regno di Dio e tocca a noi realizzarlo con i nostri programmi; la Messa serve solo a motivare o almeno confermare impegni già fissati in modo del tutto indipendente in nome dell’inclusione, della pace e della salvezza del pianeta.

Deformazioni interiori
Gli effetti di queste false prospettive (già riprovate da Pio VI, ma tornate in auge con l’ultimo concilio) non han tardato a manifestarsi. La teologia liturgica è stata travolta dallo storicismo, che interpreta tutto in senso evolutivo, quando invece il culto è per definizione un insieme di atti comandati da Dio, non inventati dall’uomo, e per ciò stesso immodificabili. Si obietterà che è stata la Chiesa a fissare i riti; ciò vale però soltanto per gli elementi non essenziali: è semplicemente impensabile, infatti, che il suo Fondatore non abbia prescritto in qual modo Lo si dovesse onorare e quali fossero i mezzi di comunicazione della grazia. Nel corso dei secoli, certo, la Liturgia si è progressivamente accresciuta e arricchita, ma sempre conservando il proprio impianto fondamentale in una mirabile continuità, senza strappi né stravolgimenti; nel secolo scorso, invece, la si è radicalmente reinventata in base a una concezione che non trova fondamento nella Tradizione.

Pensare che il mezzo stabilito da Dio per applicare la Redenzione alle anime debba essere adattato alle mutate condizioni della società significa sottomettere l’assoluto al relativo, vincolandolo così alle contingenze dei tempi e facendolo apparire come una realtà accidentale che, a lungo andare, diventa insignificante. Se, infatti, ciò che è sempre stato efficace cessa di esserlo in una determinata epoca, ci si può facilmente convincere che non lo sia stato per ragioni intrinseche, bensì per fattori estrinseci; non ha senso, peraltro, ritenere che uno strumento che ha sempre assicurato la propria funzione smetta di farlo a un dato momento. Il primo esempio di intervento dettato da tale mentalità storicistica fu, nel 1953, l’abolizione del digiuno eucaristico dalla mezzanotte, giustificato con speciosi motivi a favore della comunione frequente nel nuovo contesto sociale; cominciò così il processo che, in settant’anni, ha reso la ricezione dell’Eucaristia un fatto estremamente banale.

Su questa linea si è finito col posporre la realtà oggettiva dei Sacramenti, che esige precise condizioni per riceverli, alla sensibilità e alle esigenze soggettive dei fedeli, le quali, oltretutto, non sono certo nate spontaneamente, ma sono risultato di una forma di ingegneria sociale. Caso lampante è quello della comunione sulla mano: mezzo secolo fa nessun cattolico si sarebbe nemmeno sognato non di pretenderla, ma neppure che fosse possibile, se i vescovi di alcuni Paesi nordeuropei non avessero cominciato a imporla abusivamente e un papa non la avesse autorizzata come una concessione; poi l’eccezione è diventata un obbligo, come ben sappiamo. Ciò non basta, tuttavia, per considerarla una cosa buona e lecita; al contrario, il soggettivismo sotteso a questa pratica ha estinto in molti la fede nella Presenza reale e ha ingenerato un individualismo esasperato che mette l’io al di sopra di tutto, perfino di Dio, malgrado l’asfissiante comunitarismo di facciata.

Risalire la china
Come insegnano i vecchi manuali di ascetica, più si accontenta il corpo, più il corpo pretende. Più si adatta la Liturgia alla temperie socio-culturale, analogamente, più quest’ultima rivendica dei diritti su di essa; più diminuisce l’impegno che richiede, più si vuole ridurlo e lo si tralascia; più la si semplifica, meno la si cura e vi si fa attenzione, finché non rimane altro che una praticaccia distratta, raffazzonata, annoiata e noiosa, dalla quale perciò ci si esenta ogni volta che si può. Il Sacrificio redentore, ormai, è una stanca messa in scena che non serve più neppure a radunare la comunità, visto che – secondo quanto asserito quattro anni fa dalla conferenza episcopale, prona a un governo illegittimo – si può pregare anche a casa… A che scopo, allora, spender milioni di euro per costruire quei mostri che chiamano chiese? La cosiddetta “riforma” liturgica, condotta con criteri tipicamente massonici e protestanti, è arrivata al capolinea. A noi rimboccarci le maniche e risalire la china con tutto l’amore di cui la grazia ci rende capaci.

A tal fine non basta, evidentemente, riprendere materialmente usi e maniere del tempo che fu, i quali non appartenevano necessariamente alla Tradizione in senso proprio, ma erano, in parte, abitudini di una data epoca o regione. Anche riguardo ai riti più venerandi, non è sufficiente la mera esecuzione esteriore perché portino i loro frutti spirituali; il cristiano non è un archeologo o antiquario cultore di pezzi da museo, bensì un innamorato di Dio che si abbevera avidamente alle fonti della grazia per poter contraccambiare l’impareggiabile carità di Colui che lo ha amato per primo, redimendolo dal peccato ed elevandolo alla Sua inestimabile amicizia. Al di fuori di questa umile consapevolezza e delle disposizioni ad essa attinenti, rimane solo il fariseismo di chi crede di potersi rendere giusto dinanzi a Dio con la puntigliosa osservanza di pratiche religiose orgogliosamente eseguite senza che cambi nulla nel cuore. Che il Signore ce ne guardi.

10 commenti:

Propter misericordiam Tuam Deo gratias! ha detto...

Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote: quest’anno i seminaristi sono 107!
https://blog.messainlatino.it/2024/02/istituto-di-cristo-re-sommo-sacerdote.html

Anonimo ha detto...



Le critiche alle "riforme liturgiche" di Pio XII sembrano eccessive.
Anche san Pio X stava pensando ad una riforma del Breviario (del Breviario, non del rito), per adattarlo meglio alle esigenze della vita moderna. Per esempio in relazione ai digiuni.

Ogni anno, il martedì precedente le Sacre Ceneri ha detto...

Buona Festa del Santo Volto!

O adorabile Volto, che con il Tuo sguardo divino colpisti il cuore di San Pietro con un dardo di dolore e di amore, abbi pietà di noi.

Anonimo ha detto...

SFRUTTANDO L'OCCASIONE

Ha fatto il giro la notizia del pastore evangelico che ha ucciso nel palermitano moglie e progenie.
Al di là delle considerazioni sul movimento evangelico in sé (no, il problema non è che siano "fanatici", è che il protestantismo è una sommatoria di eresie), movimento che bestemmia la Vergine un giorno sì e l'altro pure, va detto che l'eresia ha sempre avuto dei connotati violenti o antisociali, sin dai primissimi secoli.

Per poter rispettare i comandamenti dal secondo al decimo è necessario rispettare il primo (non sono in ordine casuale) e non deve stupire che gli eretici, che violano il primo, spesse volte siano stati epicentri di immoralità, furto, omicidi e molto altro.
Nel II secolo, l'opera dei montanisti, che si gettavano nelle arene interrompendo i giochi urlando "sono cristiano", portò all'esasperazione l'imperatore Marco Aurelio (161-180) il quale iniziò una spietata persecuzione. Similmente, in Africa operarono i Circoncellioni e i Donatisti: i primi divennero sinonimo di briganti per le loro violenze e il loro esagerato concetto di martirio (simile a quello presente nell'Islam) mentre i secondi compirono dei veri e propri attentati contro i cattolici.
Nel medioevo, i catari assassinarono san Pietro da Verona e Sant'Aquilino in Lombardia, uccisero il legato pontificio nel sud della Francia (questo portò alla famosa crociata albigese) e lo stesso fra Dolcino, arso al rogo, costruì una banda con la quale predare i contadini.

In tempi recenti, gli omicidi dei calvinisti, le distruzioni di chiese, le violenze del Ku Klux Klan, le sette americane e i suicidi di massa: la lista sarebbe davvero interminabile.
Questo per dire che la condizione di eresia, al netto delle pluridecennali sviolinate, ha storicamente in sé il germe della violenza.
Con buona pace del "basta credere in Gesù".

Anonimo ha detto...

Le critiche alle riforme di Pio XII non sono affatto eccessive, né il culto reso alla Divina Maestà deve adattarsi alla "vita moderna"; soprattutto se con "vita moderna" si intende l'ATTIVISMO tipico della società americana (protestantesimo, calvinismo, americanismo) che, soprattutto a partire dal dopoguerra, ha inondato la vecchia Europa cattolica. Nelle riforme pacelliane è riprovevole lo spirito con il quale furono promosse. E ritroviamo - guarda caso - i promotori e gli autori di quelle riforme particolarmente attivi... durante il Concilio... La vita della Chiesa, soprattutto la sua vita liturgica, non deve compiacere nessuno all'infuori di Dio; non può essere né di centrosinistra né di centrodestra, tanto per intenderci!

Catholicus.2 ha detto...

1945 - 13 febbraio - 2024

Israele Zolli, già Rabbino capo di Roma, viene battezzato.

Dimessosi dalla carica di Rabbino, il professor Zolli, da anni segretamente divenuto cristiano e fatto oggetto di visioni e locuzioni da parte del S. Cuore, per essere infine conquistato dall'opera di salvataggio degli Ebrei romani portata avanti da Pio XII nei funesti mesi del 1943, già dalla fine dell'anno precedente si era liberato da ogni impegno per potersi preparare seriamente a ricevere il Battesimo, assieme a sua moglie Emma.
Il Battesimo viene amministrato da mons. Traglia, arciv. di Cesarea di Palestina e Vicegerente dell'Urbe, il 13 febbraio 1945, in forma strettamente privata, nella cappella attigua alla sagrestia di S. Maria degli Angeli.
Il gesuita Padre Dezza scriverà: "Eravamo fra tutti una quindicina di persone, tra cui P. Agostino Bea. Israele prese il nome di Eugenio, per riconoscenza a Pio XII… e la moglie aggiunse al suo nome Emma quello di Maria."
Ritornato nella sua abitazione, Zolli sarà improvvisamente svegliato durante la notte dal corrispondente di un’agenzia stampa americana il quale chiedeva di smentire o confermare la notizia del battesimo.
Zolli, meravigliato e stupito, semplicemente risponde che non può smentire la notizia sicchè la mattina seguente i giornali a Roma, in America e in altre nazioni pubblicano la singolare notizia del Gran Rabbino di Roma convertito al cattolicesimo.
Qualche giorno dopo, nella cappella della Gregoriana, dove verrà chiamato ad insegnare presso il Pont. Ist. Biblico, Zolli riceve con la moglie la Cresima, dall’ex vescovo di Trieste Mons. Fogar, che aveva conosciuto al tempo della sua permanenza in quella città, e la Prima Comunione da padre Dezza.
Qualche giorno dopo viene ricevuto in udienza privata da Pio XII.
Durante la sua permanenza alla Gregoriana, Zolli riceverà numerose visite di amici e nemici, tra cui alcuni ebrei americani, che faranno pressione per un suo ritorno all’Ebraismo, offrendogli qualunque somma egli desiderasse.
Offerte che egli tranquillamente rifiuterà, sino alla morte avvenuta il 2 marzo 1956 (ricorrenza dell'80° compleanno di papa Pacelli).
Le sue ultime parole, dopo aver ricevuto il Viatico, saranno: «Spero che il Signore mi perdonerà i miei peccati. Per il resto mi affido a Lui».

mic ha detto...

https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2020/02/il-caso-zolli-la-conversione-cristo-del.html?m=1

Gederson Falcometa ha detto...

A "Bugnini-Free" Holy Week
http://introiboadaltaredei2.blogspot.com/2021/03/a-bugnini-free-holy-week.html

Anonimo ha detto...


Le "responsabilità" dello stravolgimento liturgico sono prioritariamente di Paolo VI e del suo "cerchio magico" filogiudaicomassonico e protestante (in primis Mons. Bugnini, che mi pare acclarato fosse affiliato alla Massoneria). Chiaramente il terreno fu arato da Giovanni XXIII, responsabile massimo della deriva conciliare, sia perché indisse inopinatamente il CVII senza consultare la Curia (cosa del tutto irrituale), dimostrando che lo aveva in mente da tempo, sia perché lo indirizzò sui binari tristemente noti ormai.
Le modifiche apportate da Pio XII sono ritenute storicamente importanti soprattutto perché dimostrano come vi fosse già un entourage (mons. Bugnini aveva già un ruolo di rilievo) propenso alla rivoluzione che venne con Giovanni XXIII.
E Pio XII ha rappresentato l'ultimo baluardo, una vera e propria diga cattolica, la cui santità è percepita da ogni buon cattolico, ancorché non ufficializzata; una diga rotta la quale, il torrente modernista ha straripato.

Gz

Anonimo ha detto...


FT : il fatto storico del giorno: La Disfida di Barletta, 13 febbraio 1503.

"Fu nel corso di tali scontri [tra francesi e spagnoli, con italiani che combattevano con gli spagnoli] che venne fatto prigioniero un cavaliere francese, il La Motte, il quale, trattato onorevolmente durante un banchetto disse di aver fatto esperienza del valore militare degli spagnoli, ma di non aver mai visto quello degli italiani. Dalla risentita replica degli italiani lì presenti nacque la famosa disfida di Barletta, fra 13 cavalieri itaiani e 13 francesi, i quali, com'è noto, ebbero la peggio.
Il La Motte punse sul vivo gli italiani ma vide male le ragioni della loro debolezza, che non erano di ordine militare quanto politico. Soldati italiani militavano allora in entrambi gli schieramenti e in misura considerevole, tanto nei corpi di fanteria mercenaria quanto negli squadroni degli uomini d'arme professionisti [cavalleria, pesante e leggera], nonché perfino nella categoria dei baroni che combattevano per il loro signore in ossequio a un legame di fedeltà vassallatica. Il comportamento di costoro in battaglia fu sempre irreprensibile e il La Motte con la sua provocazione diede voce non a un'opinione, ma a un istinto, ossia all'astiosa rivalità che i francesi nutrivano verso gli italiani: un sentimento acuitosi a fine Trecento, quando la Sede apostolica, abbandonando la provvisoria sede di Avignone, fece ritorno in Italia. Impadronitasi senza fatica di due Stati del calibro di Milano e di Napoli, all'alba del Cinquecento la bellicosa potenza francese poté ritenere di aver riaffermato la propria preponderanza su di una Penisola che ambiva a signoreggiare anche al fine di ricondurre il papato sotto il proprio controllo.
Ma il collasso politico e militare del mondo italiano a fine Quattrocento, lo si è visto, non risaliva all'inferiorità degli eserciti, bensì al tarlo della disunione tra gli Stati. Le patologie del particolarismo erano invece assai meno avvertibili nel mondo francese e in quello spagnolo, due realtà pervase dall'identificazione dei sudditi con il loro sovrano e da un senso dell'onore nazionale talmente spiccato da esser messo al di sopra dell'istinto di autoconservazione: un atteggiamento, questo, ignoto agli italiani".
(Marco Pellegrini, "Le guerre d'Italia. 1494-1530", il Mulino, 2009, p. 68).
H.