Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 5 febbraio 2024

La libertà religiosa, spina nella carne.

Ricevo da Res Novae e volentieri condivido. Anni fa ne ho parlato qui.
La libertà religiosa, spina nella carne.
don Claude Barthe

Tutto parte da qui
(in attuazione del concilio)
Come si è passati nella Chiesa dal rifiutare la libertà religiosa ad accoglierla? È questo l’argomento dell’opera di François Huguenin, La grande conversion. L’Église et la liberté de la Révolution à nos jours[1]. Brillante spiegazione in cinquecento pagine di un cambiamento di rotta. Forse il suo focalizzare l’attenzione sulla libertà, a parte le pagine dedicate all’evolversi della questione della salvezza, dà l’impressione che il rovesciamento del Vaticano II si riduca a questo punto. In realtà, l’adozione della libertà religiosa si inserisce in un indebolimento complessivo dell’ecclesiologia, che consiste nello scorgere al di fuori della Chiesa cattolica in qualche modo altre comunità sovrannaturali secondarie. Da qui l’ecumenismo [qui], che concede una «comunione imperfetta» ai separati, il dialogo interreligioso fondato su di un «sincero rispetto» delle altre religioni e la stessa libertà religiosa, che rende obsoleta l’idea di uno Stato difensore dell’unica Chiesa. Questo anti-esclusivismo è chiaramente di ispirazione liberale, tramite il protestantesimo, in cui ciascuna Chiesa si considera come la più perfetta senza tuttavia pretendere di identificarsi totalmente con l’unica Chiesa di Cristo.

Il Vaticano II e lo Stato cattolico

Diciamo subito che la virulenza dei dibattiti sviluppatisi sul tema della libertà religiosa ai tempi del Vaticano II si spiega col fatto che la dottrina sovvertita fosse allora nota a tutti e che animasse ancora, bene o male, un certo numero di entità politiche, statali o militanti. Riaprire tali dibattiti oggi parrebbe una rivincita surreale, poiché appare ormai evidente, nel cattolicesimo post-conciliare, come i rapporti tra sfera politica e sfera religiosa non possano aver luogo che all’interno della laicità delle istanze nazionali ed internazionali.

Per affrontare dunque il problema della libertà religiosa, ch’è competenza del diritto pubblico della Chiesa, conviene tener presente ciò ch’essa ha detto circa la «costituzione cristiana degli Stati» (Immortale Dei di Leone XIII del 1 novembre 1885). Il suo discorso tradizionale circa le Città politiche secondo il diritto naturale si poneva a due livelli: riguardava quegli Stati, che, anche prima della conoscenza della Rivelazione, avevano o hanno avuto piena legittimità nella misura in cui tendono a far «vivere bene» i propri cittadini, ma ai quali l’adesione al Vangelo ha conferito un «battesimo», che sottolinea il carattere sacro del potere gestito dai loro amministratori (dottrina di Cristo Re) e li costringe in cambio ad avere degli obblighi nei confronti della verità della Rivelazione stessa.

Certo, le Città antiche raramente sono assomigliate a quella di Salento, ne Le avventure di Telemaco ed i principi o capi di Stato cristiani hanno troppo raramente imitato san Luigi, i signori della guerra santa Giovanna d’Arco ed i ministri delle Finanze sant’Eligio. Eppure, in questo mondo segnato dal peccato, i principi elaborati a partire dalla tradizione di Aristotele e più in generale dalla filosofia greca, ripresi da san Tommaso e da tutta la teologia successiva, in particolare del XVII e del XVIII secolo, non sono più utopici dell’enunciazione delle beatitudini. Governare saggiamente è l’ideale cui dovrebbero conformarsi tutti i capi delle genti, ciò che, nel mondo che ha ricevuto la Rivelazione, significa governare secondo l’ispirazione cristiana, cercando più in generale d’organizzare la pace di Dio tra le nazioni «battezzate».

Questo ideale di cristianità, oggi svuotato ed il cui vuoto viene colmato da un mondialismo umanista, può esser comparato all’innalzare quell’istituzione naturale ch’è il matrimonio alla dignità di sacramento.

L’analogia è imperfetta, poiché le Città cristiane non nascono, come la comunità degli sposi, da un atto sacramentale. Ma, come una famiglia diviene cristiana, così anche tali società, ontologicamente principali per l’uomo, animale politico, sono state «battezzate» attraverso la professione di fede delle loro genti e dei loro amministratori. Ciascuna di esse, senza esser segnata da un carattere particolare, viene come rifondata da tale professione di fede, senza la quale ormai essa non sarebbe più la stessa. Cristiana resta la Francia, nostra madre in carne ed in spirito, terra di santi, ricoperta di un manto di chiese e cattedrali, sempre figlia primogenita della Chiesa, per quanto sfigurata sia dalla maschera laica, che le è stata affibbiata.

Contro ciò, con un ruolo apparentemente secondario, in realtà invece fondamentale, è giunto il n. 2 della dichiarazione Dignitatis humanæ del Vaticano II: «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la propria coscienza, né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata».

Che nessuno venga forzato ad agire contro la propria coscienza in materia religiosa non fa problema. Niente, in effetti, autorizza ad obbligare le coscienze ad accettare la fede divinamente rivelata, molto semplicemente in quanto un atto di fede non può essere che un atto proprio di un’anima elevata dalla grazia. La Chiesa ha sempre insegnato che nessuno può essere «condotto suo malgrado ad abbracciare la fede cattolica[2]». Ed ovviamente non pone alcun problema – al contrario – affermare che a nessuno debba essere impedito d’esprimere la verità cristiana: ciò deriva, in effetti, dalla libertà della Chiesa, cui partecipa ogni cattolico.

Ciò che fa difficoltà è il diritto d’agire in pubblico secondo coscienza propria, quando tuttavia questa sia sbagliata. In altre parole, il diritto di diffondere l’errore allo stesso modo della verità. Senza dubbio, molto prima di Internet, le devianze morali, gli errori, le eresie, le menzogne si disseminavano in tutte le società cristiane. Ma esse erano colpite, in un modo o nell’altro, dalla censura, dalla coazione, col sigillo dell’illegittimità. Del resto, che l’errore sia conosciuto nel momento stesso in cui viene smentito e combattuto è cosa assolutamente buona e necessaria: filosofia e teologia sono sempre vissute in un contesto di indispensabili controversie un tempo [possibili grazie alla necessità, preclusa dal concilio, di chiamare l'errore col suo nome e condannarlo -ndr]. Ma così come i genitori cristiani non potrebbero consentire a dottrine erronee di aver accesso all’anima dei propri figli al pari di quelle che forniscono loro il pane della verità, nemmeno gli amministratori di una Città, che faccia professione di cattolicesimo, devono farlo nei confronti dei cittadini loro affidati. Essi adempiono al meglio a questo dovere, sviluppando la loro capacità critica per combattere gli errori. Il che è l’esatto contrario del lasciar fare, del lasciar passare, è un modo genuino per trattarli da adulti liberi e forti.

A ciò si contrappone l’affermazione derivante dal n. 2 di Dignitatis humanæ, secondo cui in nessun caso gli uomini possono esser mai impediti da un potere umano – e quindi soprattutto dal potere sovrano dello Stato – d’esprimere pubblicamente un errore religioso dettato dalla loro coscienza erronea. La dichiarazione conciliare precisa che questa facoltà d’espressione non debba superare i «giusti limiti» (giusti limiti, che sarebbe poi lo Stato a decidere quando vengano oltrepassati, ad esempio in Occidente con la poligamia, in Africa con la sodomia, ecc.), il che nulla muta tuttavia in termini di principio: uno Stato, che fa professione di cattolicesimo, non può più proibire – tacciare d’illegittimità – il culto pubblico, l’espressione e la diffusione pubblica di errori contro la fede o contro la morale.

L’obbligo, che grava ormai sullo Stato, di consentire (non impedire) a parità di condizioni la diffusione pacifica del vero e del falso, torna a consacrare la sua neutralità religiosa intrinseca. Secondo Dignitatis humanæ, anche se lo Stato si dicesse cattolico, dovrebbe comunque accordare identici diritti a tutte le religioni. È quanto conferma il n. 6 della dichiarazione, che fa dello Stato cattolico, alla pari di uno Stato anglicano, luterano, musulmano, ecc., una sorta di particolarità superata: «Se, considerate le circostanze peculiari dei popoli nell’ordinamento giuridico di una società, viene attribuita ad un determinato gruppo religioso una speciale posizione civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini ed a tutti i gruppi religiosi venga riconosciuto e sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa».

In questo modo, il Vaticano II ha scartato come obsoleta questa dottrina richiamata fin dalla Rivoluzione dal magistero pontificio con una qual forza disperata: il potere civile non può mostrarsi indifferente nei confronti della vera religione. In quanto, come la famiglia, come ogni società naturale, la Città non potrebbe essere atea. Deve quindi onorare e venerare Dio, ciò che, fin dalla predicazione del Vangelo, per i popoli che l’hanno ascoltata, avviene secondo il culto reso nella e dalla Chiesa di Cristo[3]. Per questo, la potenza civile deve garantire alla Chiesa la piena libertà di adempiere alla propria missione, libertà che non è altro se non quella di Cristo e del Vangelo.

Tale è il principio che la sua eccezione, la tolleranza civile, consente ancor meglio di comprenderlo. Si considera qui il termine di tolleranza nel senso classico e non in quello proprio di Locke[4]: tollerare vuol dire sopportare un male, perché non si può o non si vuole impedirlo, in quanto la sua repressione creerebbe gravi disordini, benché esso mai, nemmeno per prescrizione, può divenire un bene. La tolleranza civile è quindi l’agire dello Stato di fronte ai vari mali, che possono propagarsi pubblicamente tra i cittadini, specialmente in materia di dottrina religiosa o morale. Il discorso Ci riesce di Pio XII del 6 dicembre 1953 (piuttosto surreale, del resto, nella misura in cui tratta di comunità internazionali tipo l’ONU, l’UNESCO, supposte in grado di conformarsi al diritto naturale) ne contiene una formulazione precisa: «”In quel campo che è il mondo, lasciate crescere la zizzania assieme al buon seme per non sradicare il grano” (Mt 13, 24-30). Il dovere di reprimere le devianze morali e religiose non può quindi essere una norma ultimativa per l’azione. Dev’essere subordinato a norme più alte e più generali, che, in talune circostanze, consentono e fanno addirittura sembrare migliore la decisione di non impedire l’errore, al fine di promuovere un bene più grande. [… Questo si riassume in due principi:] In primo luogo: ciò che non corrisponde alla verità ed alla legge morale non ha oggettivamente alcun diritto d’esistere, né d’esser propagandato, né d’agire. In secondo luogo: il fatto di non impedirlo con le leggi dello Stato e con disposizioni coercitive può comunque esser giustificato nell’interesse di un bene superiore e più ampio[5]».

Un magistero pontificio da combattimento

François Huguerin descrive e commenta i principali atti del magistero pontificio dopo la Rivoluzione, atti che si sono opposti alla libertà, almeno dal suo punto di vista (lui stesso concorda sul fatto che Libertas di Leone XIII consolidi l’idea che questo magistero sia al servizio della vera libertà). La violenza congenita, che fu propria della Rivoluzione, anche prima del Terrore, spiegherebbe ampiamente la veemenza delle condanne, come ad esempio nel caso di Gregorio XVI: «Da questa fonte avvelenata dell’indifferentismo, scaturisce quella massima falsa ed assurda o piuttosto quel delirio, per il quale si dovrebbe procurare e garantire a tutti la libertà di coscienza, errore tra i più contagiosi, cui spiana la via quella libertà assoluta e senza freni delle opinioni, che, per la rovina della Chiesa e dello Stato, si sta diffondendo ovunque e che taluni, per eccesso d’impudenza, non temono di rappresentare come vantaggiosa per la religione[6]». Eccesso di oratoria? È giocoforza tuttavia constatare come questo discorso descriva ciò che abbiamo sotto gli occhi quasi duecento anni dopo ossia le legislazioni criminali e contro natura, che sono giunte ad elaborare le società liberali nel loro ultimo stato di decomposizione. In effetti, la violenza rivoluzionaria radicale, che ha distrutto la Città naturale e cristiana, prima d’esser quella della ghigliottina, è stata inclusa nei Diritti dell’Uomo, per i quali il potere non emana più da Dio, come afferma san Paolo (Rom 13, 1), poiché «il principio di ogni Sovranità risiede essenzialmente nella nazione» (art. 3 della Dichiarazione) e poiché la norma, «espressione della volontà generale» (art. 6) è di fatto sganciata dal suo riferimento alla legge divina.

È del resto giustissimo che F. Huguenin insista sul fatto che i testi pontifici di condanna della libertà, quelli di Pio IX ad esempio, non riguardassero i liberali esterni alla Chiesa, bensì quelli cattolici o vicini al cattolicesimo, uomini moderati, come Montalembert o Tocqueville, i cui argomenti, per quanto misurati fossero, rappresentavano comunque una difesa della libertà moderna.

Ciò di cui non tengono conto, d’altra parte, né François Huguenin, né tali cattolici liberali (e nemmeno, paradossalmente, i papi antecedenti il Vaticano II nella loro diplomazia di conciliazione, ch’è sembrata a volte pronta a tutto, pur di ottenere la libertà di culto, dall’incoronazione di Napoleone alle consegne del Ralliement) è la natura del nuovo Stato, fondato su quel che Leone XIII qualifica nell’ Immortale Dei come «nuovo diritto», per il quale «l’autorità pubblica non è che la volontà del popolo, il quale, non dipendendo che da sé medesimo, è anche il solo a comandare sé stesso». Questo «nuovo diritto» è a tal punto sovversivo rispetto al diritto naturale che la categoria classica della tirannia, che descrive il governo pronto a sostituire un bene particolare al bene comune, non è davvero adatta a tale situazione completamente nuova creata dalla Rivoluzione, situazione in cui le nozioni di «bene comune» e di «legittimità», nel loro senso classico, non sono più adeguate.

Il rovesciamento è tanto più evidente in quanto lo Stato, cui si è sostituita questa nuova forma di governo dei popoli, era cristiano. Quindi il nuovo Stato dissolve tanto il riferimento alla legge naturale quanto la confessione cristiana, che sosteneva e sacralizzava tale riferimento. Confessione cattolica, che escludeva, in linea di principio, qualsiasi pubblicità data all’errore, benché la norma ammettesse ampie tolleranze. Il segno distintivo dello Stato moderno, per quanto tollerante nei confronti del cattolicesimo e per quanto professi una «laicità positiva» o addirittura incorpori ancora nella propria legislazione un certo rispetto dell’ordine naturale in ragione delle predisposizioni dell’opinione pubblica, è il rifiuto del principio della sovranità senza riserve di Cristo: «Noi non vogliamo che costui regni su di noi» (Lc 19, 14). Rifiuto tanto radicale al punto che l’ultramodernità ha portato ad una seconda ondata di secolarizzazione, la quale ha per così dire secolarizzato la modernità stessa, attaccando quelle realtà naturali ch’essa aveva ancora conservato, ma reinterpretandole alla propria maniera: Stato, nazione ed anche natura e ragione.

La dottrina di Cristo Re

François Huguenin evoca, senza tuttavia darvi l’importanza considerevole che ha avuto, l’enciclica Quas Primas di Pio XI dell’11 dicembre 1925 sulla regalità politica e istituzionale di Cristo. Nel XX secolo, essa è servita come riferimento per la resistenza contro lo Stato moderno e come oggetto di approfondimento teologico per le ultime generazioni di sostenitori della dottrina romana controrivoluzionaria.

Quas primas ha sviluppato fondamentalmente una teologia politica cristocentrica: i governanti derivano il loro potere da Dio (Rom 13, 1), il Quale ha riposto tutte le cose in Cristo (1 Cor 15, 27), per cui, dal punto di vista civile, essi rappresentano Gesù Cristo, così come vescovi e papa Lo rappresentano dal punto di vista religioso. Beninteso, nella misura in cui essi servano il bene comune. Il potere di Cristo nella sua umanità su tutti gli uomini e su tutte le società umane, spiega l’enciclica, è la conseguenza dell’unione della natura umana e della natura divina di Cristo nella Persona del Verbo, l’unione ipostatica, ed è anche la conseguenza della sua conquista, conseguita grazie alla morte sulla Croce, sulle anime di tutti gli uomini. Di conseguenza, principi e amministratori, la cui autorità discende da quella di Cristo Uomo-Dio e Redentore, sono rivestiti di un carattere cristico, che dona pieno significato al diritto divino.

Questo chiarisce come sussista una certa analogia tra la nozione di bene comune naturale e quella, di ordine sovrannaturale, che si dispiega nella comunione del Corpo mistico. Ernst Kantorowicz, in I due corpi del Re[7], evidenzia come le relazioni reciproche tra Chiesa e Stato permettessero nel Medioevo di prendere reciprocamente in prestito i simboli l’uno dell’altro potere, facendo sì che il sacerdotium avesse un aspetto imperiale ed il regnum un aspetto religioso. Sicché l’insieme dei cittadini veniva anche designato come Corpus mysticum. In effetti, benché la comunità, che costituisce uno Stato – sia esso l’impero cristiano – non abbia le dimensioni universali della Chiesa, essa è, per gerarchia ed ordine, un corpo ferito dagli errori civili, dalle ingiustizie, dalle ribellioni dei cittadini ma anche arricchito dalle loro virtù. L’amicizia, che lega i cittadini tra loro (come la carità, che unisce i membri della Chiesa), fondamento del patriottismo, ha la sua più alta manifestazione nel sacrificio della propria vita per il corpo dello Stato nel suo insieme.

Tuttavia, è spesso capitato e può ancora capitare, anche dopo la diffusione del Vangelo, che la maggior parte dei cittadini e dei governanti non professino la fede cattolica oppure non conoscano il fatto della Rivelazione. Resta a questo potere civile non cattolico di conformarsi ai precetti della legge naturale, che può, nell’ideale, richiamargli la Chiesa, alla quale doveva lasciare piena e totale libertà. Si pensi all’atteggiamento proprio di un certo numero di poteri pagani di fronte al cattolicesimo.

È in breve in quest’ultimo contesto che si collocano gli sviluppi dell’esposizione di Padre Louis-Marie de Blignières nel suo articolo: «Le Christ-roi et la liberté religieuse. La royauté sociale du Christ, doctrine périmée ou pérenne?[8]», in cui spiega che, «se la legge divina richiede il principio di riconoscimento sociale e comunitario proprio della vera religione, essa non ne esige un’espressione particolare (ad esempio, nelle costituzioni scritte o nei concordati). In una società, che non gode dell’unità del credo nella fede cattolica, la legge divina richiede che i cristiani (e gli uomini di buona volontà) si preoccupino di lavorare a far sì che la società civile onori la legge naturale e ch’essa dia alla Chiesa la possibilità di predicare l’ordine sovrannaturale». Occorre purtroppo tenere in considerazione il fatto di non trovarci oggi in una società pagana «classica», bensì in una società laica, che peraltro può eventualmente rispettare ancora taluni principi della legge naturale[9].

La Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica della Congregazione per la Dottrina della Fede, pubblicata il 24 novembre 2002, inquadra bene il pensiero romano post-Vaticano II sulla democrazia moderna, che non tiene conto del fatto di trovarsi in una società caratterizzata dall’apostasia. Da una parte essa presenta la laicità e la non-confessionalità dello Stato come fatti evidenti: «La promozione secondo coscienza del bene comune della società politica nulla ha a che vedere con il “confessionalismo” o l’intolleranza religiosa» (n. 6). E d’altra parte essa vorrebbe che lo Stato democratico rispettasse la morale naturale: «Per la dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da quella morale [corsivo nostro] – è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà, che è stato raggiunto». Ciò significa avere come postulato il fatto che la democrazia moderna sia fatta per sottomettersi alla legge naturale (in realtà, ad una parte della legge naturale, poiché il dovere per lo Stato di rendere ? a Dio è di diritto naturale), il che è precisamente ciò che questa democrazia fa solo casualmente.

L’insegnamento politico post-conciliare, almeno fino a papa Francesco, rientra nel noto progetto teso a correggere l’effetto (battersi contro le cattive leggi morali) senza risalire alla causa (un altro tipo di legittimazione, che ignora la legge di Dio), in linea con le direttive date da Leone XIII ai cattolici francesi, esortandoli ad accettare il nuovo regime, per correggerne le leggi[10].

Lo sforzo inefficace dell’ermeneutica di riforma nella continuità

Il pensiero di Padre de Blignières riassume molto bene la regalità sociale di Cristo come «l’irradiazione nel tempo dell’Incarnazione». Ma si piazza su di una linea spartiacque molto ratzingeriana. Secondo lui, la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa non contraddice in alcun modo la dottrina di Cristo Re. Tuttavia il carattere esclusivo in termini di principio – fatte salve, ancora una volta, tutte le possibili forme di tolleranza – relativo al diritto che hanno coloro che esprimono la verità ed il bene morale di dar loro liberamente voce nello spazio pubblico, viene contraddetto dall’affermazione secondo cui a nessuno può essere impedito d’agire in tale spazio, entro giusti limiti ed in coscienza.

Nel suo ben noto discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, Benedetto XVI distingueva, come si sa, due interpretazioni della riforma conciliare, «l’ermeneutica della discontinuità e della rottura», ch’egli considerava nefasta, e «l’ermeneutica della riforma o del rinnovamento nella continuità», ch’egli faceva sua [vedi, in calce, nota di Chiesa e post-concilio]. Benedetto XVI difendeva, insomma, la sua interpretazione del Concilio su due fronti: contro l’interpretazione «progressista», ma anche contro coloro che si oppongono al Concilio (la minoranza conciliare ed i tradizionalisti).

Ed ha fatto l’esempio della Dignitatis humanae: «Era necessario definire [durante il Concilio] in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno», ciò che è stato fatto, adottando «attraverso il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno». Il papa ha fatto riferimento alle condanne radicali del liberalismo da parte dei papi, che avevano preceduto il Vaticano II, ma spiegava che questo liberalismo era cambiato. Non era necessariamente antireligioso, perché la scienza moderna si era ridimensionata nell’affermare la propria capacità di spiegare il mondo. Di conseguenza, la laicità dello Stato moderno, più neutro che ostile, se si vuole, sul modello dello Stato americano, era divenuta più accettabile. Gli statisti cattolici [tra cui i democratico-cristiani tedeschi e italiani dagli Anni Cinquanta agli Anni Settanta del XX secolo] avevano dimostrato che poteva esistere uno Stato laico, che rispettasse l’etica naturale. Salvo il fatto che, ancora una volta, il riconoscimento di Dio ed il suo culto dovessero esserGli resi dallo Stato, di cui fan parte[11].

Da qui si può sia sostenere l’aspetto della «riforma» nell’«ermeneutica di riforma nella continuità», sia sostenere il suo aspetto di «continuità». François Huguenin si pone nel primo caso, sottolineando come, se Benedetto XVI, in questo discorso, afferma che Dignitatis humanae non contraddice la fede della Chiesa (la dichiarazione conciliare, al n. 1, ricorda, in effetti, «la dottrina cattolica tradizionale a proposito del dovere morale dell’uomo e delle società circa la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo»), egli ammette che «sono state corrette alcune decisioni storiche» dei papi antecedenti.

Padre Basile Valuet, al contrario, insiste sulla continuità di questa ermeneutica con la sua tesi, riassunta ne: Le droit à la liberté religieuse dans la tradition de l’Église[12]. François Huguenin punzecchia Padre Valuet, che spiega come si sia passati dalla tolleranza verso la diffusione dell’errore al diritto di diffusione, affermando che la libertà religiosa è un «diritto alla tolleranza». Ma lo stesso François Huguenin non ricorre ad un gioco di prestigio, affermando che la libertà religiosa rappresenti una rottura, senza essere tale: non una rottura dottrinale, bensì una rottura politica? Poiché bisogna, secondo lui, distinguere «tra ciò che dipende dalla fede e ciò che dipende dall’ethos, che è il carattere, il modo d’essere, l’insieme dei comportamenti abituali di un individuo o di un gruppo». Dignitatis humanæ «chiama in causa, non la fede della Chiesa, identica ed immutabile, ma il suo rapporto con la politica, il suo modo di porsi di fronte al potere civile, la sua maniera di considerare le relazioni tra potere civile e individui[13]». Soluzione, che può sembrare artificiosa, ma che riprende fondamentalmente in un’altra modalità più o meno sovrapponibile, la distinzione di Giovanni XXIII, poi dello stesso Vaticano II tra insegnamento dogmatico ed insegnamento pastorale.

Se non fosse che i papi precedenti dichiaravano espressamente di parlare dottrinalmente dei legami tra politica e religione. Così Leone XIII nell’Immortale Dei: «La prima di tutte [le agevolazioni che lo Stato deve fornite ai cittadini, affinché raggiungano il loro fine] consiste nel far rispettare la santa ed inviolabile osservanza della religione, i cui doveri uniscono l’uomo a Dio. […] Nella sua Lettera-Enciclica Mirari vos del 15 agosto 1832, Gregorio XVI, con grande autorità dottrinale [nostro corsivo], ha respinto ciò che si andava pertanto affermando, cioè che in fatto di religione non ci fosse alcuna scelta da fare: che ciascuno fosse soggetto solo alla propria coscienza e che potesse inoltre pubblicare quel che pensa».

* * *
Il fatto è che la Città cristiana è scomparsa dalla faccia della terra e qualsiasi riflessione per ristabilirla, per quanto ciò sia lontano, sembra derivare da un’utopia. Tanto più che lo stesso cattolicesimo è divenuto quasi estraneo al mondo contemporaneo.

Ma non è alquanto utopico anche volere che lo Stato moderno si sottometta all’ordine naturale? Siamo d’accordo sul fatto che, se questa società rappresenta un disordine istituzionalizzato, il cristiano, che vi si è immerso, pur organizzando una forma di sopravvivenza religiosa e familiare, nonché una trasmissione, può cercare con prudenza di pesare su alcune leve sociali e politiche. Ma si sarà d’accordo anche sul fatto che voler porre fine al disordine richiede un cambiamento di natura e non soltanto un cambiamento di grado nell’ordine delle cose.

Inoltre, una destabilizzazione del disordine stabilito può avvenire ben più in fretta di quanto non si pensi per il semplice fatto che la disgregazione dell’ordine naturale, economico, sociale, familiare, cui si dedica sistematicamente la società politica moderna, è essa stessa un fenomeno suicida. Il che non vuol dire che da un crollo generale, sempre possibile, si generi come per miracolo un’uscita dai regimi moderni. Se la Chiesa divina ha bisogno d’uomini, soprattutto di pastori degni di questo nome, quanto più la Città degli uomini ha bisogno di gente per risollevarla e guidarla. Peraltro anche la Città degli uomini ha forse bisogno prima di tutto di vescovi per uscire da un coma prolungato, proprio come ai tempi del crollo dell’impero romano, ma in un modo completamente diverso. Anche in questo caso non si deve sperare contro ogni speranza?
Don Claude Barthe
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[1] [La grande conversione. La Chiesa e la libertà della Rivoluzione ai giorni nostri], Cerf, 2023.
[2] Pio XII, Mystici Corporis.
[3] «È un dovere [render culto all’unico vero Dio], ciò che obbliga in primo luogo gli uomini presi singolarmente, ma è un dovere anche collettivo dell’intera comunità umana, basata su legami sociali reciproci, in quanto dipendente dall’autorità suprema di Dio» (Pio XII, Mediator Dei).
[4] Nella sua Lettera sulla tolleranza, John Locke solleva lo Stato da qualsiasi dovere religioso, salvo quello d’assicurare la libertà a tutte le religioni ed anche di condannare l’ateismo (ed il cattolicesimo!). Questo concetto di tolleranza è stato largamente adottato dal cattolicesimo americano. La sua influenza, rappresentata al Vaticano II dal teologo gesuita John Courtney Murray, è stata considerevole.
[5] Per tutto ciò che si dice qui sullo Stato, si potrebbero fornire numerosi riferimenti al magistero pontificio da Pio VI a Pio XII. È volontariamente che indichiamo le ultime testimonianze su questa dottrina.
[6] Gregorio XVI, Mirari vos, 15 agosto 1832.
[7] Torino, Einaudi, 1989.
[8] [«Cristo re e la libertà religiosa. La regalità sociale di Cristo, dottrina superata o perenne?»], Claves, 24 dicembre 2023, Le Christ roi et la liberté religieuse – Claves.
[9] O addirittura essere costretti a farlo dalla strada, cosa rarissima, come nel caso del ritiro della legge Savary, che limitava la libertà delle scuole cattoliche nel 1984.
[10] Leone XIII, Tra le sollecitudini del 16 febbraio 1892.
[11] Il Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2105, parla effettivamente del dovere per gli uomini e per le società di rendere a Dio «un culto autentico» per quanto riguarda «la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» (DH 1). Ma il contenuto della bottiglia non corrisponde all’etichetta. Il CEC definisce «culto» l’evangelizzazione attraverso cui si può ottenere d’impregnare di spirito cristiano le istituzioni: «Evangelizzando senza posa gli uomini, la Chiesa si adopera affinché essi possano “informare dello spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui vivono” (Apostolicam actuositatem, n. 10). Il dovere sociale dei cristiani è di rispettare e risvegliare in ogni uomo l’amore del vero e del bene. Richiede loro di far conoscere il culto dell’unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica (cfr. DH 1). […] La Chiesa in tal modo manifesta la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane ».
[12] [Il diritto alla libertà religiosa nella tradizione della Chiesa], Edizioni Sainte-Madeleine, 2005.
[13] La grande conversion [La grande conversione], op. cit., pp. 377 e 378. 

Nota di Chiesa e post-concilio
Nel Discorso di Benedetto XVI del dicembre 2005 si evidenziano due fronti contrapposti, ma la soluzione individuata non è una vera soluzione perché il senso di riforma è ben lontano da quello di aggiornamento che il concilio sbandierava e si proponeva. E parlare di continuità nella riforma può suonare come ossimoro, se non in termini strettamente logici almeno in termini pratici. Affermare l'"ermeneutica della riforma" dicendo: « È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma » lo conferma. E il problema sono proprio i livelli, perché in alcuni casi non si riesce più a distinguere quali sono i principi e quali le contingenze. È questo che viene solo adombrato ma mai dichiarato e/o dimostrato - come invece si dovrebbe - perché il contesto è ormai di consolidata fluidità, che ha sostituito le definizioni certe e fondanti. È un vero e proprio cambio di paradigma: sostanzialmente, con « il rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino », il soggetto-Chiesa (mutevole e evolventesi = storicismo) ha sostituito l'oggetto-Rivelazione (immutabile e non soggetta ad evoluzione).
A proposito della 'praticità' dell'apparente ossimoro, giova l'esempio concreto: il Papa sostiene che i primi martiri, insieme alla fede in Cristo, hanno affermato la "libertà religiosa" e che lo possiamo dire oggi che esiste questa consapevolezza, mentre allora non esisteva. Lo spostamento sull'asse logico costruisce un'ambiguità sostanziale giocando sul fatto che i martiri sono stati sì esempi di libertà religiosa, ma non i loro campioni: quello che essi volevano affermare era una specifica espressione religiosa: la fede in Cristo Signore, non la globalità di tutte le fedi, che invece alla fine sono quelle che vengono difese dalla "libertà di religione" come la Chiesa intende oggi.
La testimonianza dei Martiri non è altro che la confessione della loro Fede in Cristo Signore per la quale hanno dato la vita. Essi seguivano e non rinnegavano una Persona, non un ideale libertario di cui si può rischiare di fare un assoluto. Di assoluto c'è solo Dio. Ed è Cristo-Dio che i martiri cristiani hanno testimoniato con la vita, non la loro libertà di religione... Inoltre a me sembra estremamente pericoloso questo rovesciamento di fronte che induce ad interpretare gli eventi del passato con le categorie odierne. Non vorrei fosse un effetto della “tradizione vivente in senso storicistico”, centrata sul presente e le sue contingenze e che non solo oltrepassa il passato senza tener conto dell’eodem sensu eademque sententia; ma, addirittura, anziché interpretare il presente alla luce del dogma rivelato, reinterpreta anche il Magistero perenne alla luce di quello transeunte e trasferisce la sua contingenza al Dogma svuotandolo di tutta la sua pregnante e feconda vitalità che è la stessa in tutte le epoche. (M.G.)

6 commenti:

da ex studente di Giurisprudenza ha detto...

Secondo me, uno stato cattolico deve essere una monarchia, perchè come è gerarchica la Chiesa,così uno stato che voglia definirsi cattolico deve essere altrettanto gerarchicamente ordinato.

Anonimo ha detto...

Exsurge, Domine, in ira tua; effunde super eos iram tuam (Sal 7, 7; 68, 25).

Anonimo ha detto...


"Uno Stato cattolico d e v e essere una monarchia"?

Ad imitazione della struttura gerarchica della Chiesa?

Questa concezione è contraria alla Tradizione della Chiesa (che non è il "tradizionalismo") secondo la quale la Chiesa non predilige a priori una forma di Stato e governo piuttosto che un'altra. Quest'impostazione deriva dal cap. 13 della Lettera ai Romani, nella quale san Paolo ordina ai fedeli di rispettare l'autorità costituita (al tempo pagana) per ciò che riguarda l'esercizio delle sue legittime funzioni, permesso (od autorizzato) da Dio, dal quale deriva ogni potere.
Per motivi di opportunità e condizionamenti storici la Chiesa ha preferito ad un certo punto la forma monarchica. Ma con lo Scisma Protestante si sono visti re e nobili diventare eretici pur di impadronirsi dei beni della Chiesa e rompere i vincoli matrimoniali col divorzio. La disillusione deve esser stata notevole.

Le città-Stato italiane del Medio Evo non erano cattoliche? E non lo era la Repubblica di Venezia, retta nei secoli da una oligarchia mercantile? Le Repubbliche Marinare italiane erano tutte governate dal ceto mercantile eppure furono Stati ben cattolici, basta vedere i monumenti religiosi che hanno lasciato (a Pisa, per esempio).

Non esiste una forma di Stato e di governo perfetta, che sia immune dalla decadenza e dalla corruzione. Si va sempre per cicli, con un susseguirsi di "forme". I Greci questo l'avevano capito (Polibio).
Certo, si forma presso i vari popoli una mentalità, base di una tradizione che tende a dare alla forma di governo quel suo particolare aspetto "nazionale". In Russia, p.e., si mantiene la mentalità autocratica nella concezione del potere. La vediamo ben presente anche oggi nella "democrazia presidenziale" attuale, con l'esecutivo dotato di ampi poteri e il premier in carica che può essere rieletto ad infinitum.
Nemmeno nella Chiesa possiamo dire sia perfetta la forma monarchica di governo. Essa ha un fondamento divino per cui il papa è un sovrano assoluto, concentrando in se stesso i tre poteri e non avendo nessuna istanza che possa giudicarlo: questo va bene quando il papa è santo e governa bene ma quando non lo è e sgoverna, quando si dimostra cattivo papa, si vede che non ci sono rimedi di tipo istituzionale, la sua deposizione è impossibile.
Come nella monarchie assolute di diritto divino di un tempo, bisogna aspettare che muoia, per liberarsene.
POliticus

Murmex ha detto...

La Chiesa ammette anche la democrazia, purche' si abbia chiaro che la sovranita' non sale dal basso, ma scende dall'alto, e che l'elezione e ' solo una designazione di chi sara' investito di essa. Del resto cio' avviene anche per il Papato

Anonimo ha detto...

Infatti, San Tommaso d'Aquino, nel De regimine principum (lo trova nelle Edizioni Cantagalli con un'ottima introduzione), dice chiaramente che la Monarchia è la miglior forma di goveno. Comunque sia, bisogna diffidare massimamente della politica ecclesiastica. Le ricordo soltanto il pasticcio del ralliement sotto Leone XIII, che invitava i cattolici francesi ad aderire alla République laica e massonica. Sul rallement c'è l'ottimo libro del prof. Roberto de Mattei. Un altro esempio, che non riguarda la Monarchia: i vescovi e i parroci, che, nonostante qualche modesto contrasto, per vent'anni erano andati d'amore e d'accordo col Fascismo, traendone non pochi vantaggi (la Conciliazione, la congrua, etc...), al Nord, subodorata la sconfitta della Repubblica Sociale Italiana, si schierarono dalla parte dei partigiani comunisti (i quali dominavano gli altri incontrastatamente), autori dell'assassino del seminarista Rolando Rivi e di alcuni coraggiosi sacerdoti che non si erano allineati ai rossi, come tutti gli altri. Nel dopoguerra, l'odio nei confronti di chi andava in chiesa, di chi partecipava alle processioni del Corpus Domini e della Madonna Pellegrina si tagliava col coltello. E, difficilmente, le donne che venivano viste in processione venivano ingaggiato dalle Camere del Lavoro locali come mondine o vendemmiatrici. Sono emiliano e potrei raccontarle un bel po' di verità. Che dal Concilio Vaticano II le cose siano peggiorate e che i cambiamenti dottrinali e liturgici abbiano suggellato lo sposalizio della Chiesa Cattolica col mondo non deve farci credere che tutto fosse a posto nei decenni - io direi meglio: nei secoli! - precedenti. Di ambiguità ve ne furono tante. Adrien Loubier in Démocratie cléricale, e in Échec au Ralliement, entrambi alle Éditions Sante Jeanne d'Arc, ne evidenzia parecchie. In ogni caso: viva la Monarchia Tradizionale! Che non ha niente a spartire con le residue ridicole repubbliche coronate odierne.

Anonimo ha detto...


La monarchia miglior forma di governo secondo S. Tommaso d'Aquino

Opinione più che legittima ma pur sempre un'opinione. Allora è migliore la democrazia? Nemmeno.
Allora? La discussione sulla migliore costituzione o forma di Stato e governo dara dai tempi degli antichi greci e non ha concluso nulla di definitivo.
In realtà, una forma di governo che sia migliore nel senso di non cadere nei difetti che alla fine la dissolvono, come nelle altre forme, a ben vedere non esiste.
Bisogna considerare invece la forma più adatta alle esigenze del proprio tempo, da coordinare alle esigenze di una visione cristiana della società.
La monarchia ha indubbiamente determinate qualità ma anche i suoi difetti. Prendiamo il principio dinastico. È un ottimo principio quando garantisce la stabilità di governo e i monarchi sono validi.
Ma pensiamo a quante guerre in Europa sono state provocate sulla base del principio dinastico, comodamente usato come alibi per assalire gli altri e nessuno ci trovava niente da ridire.
Grazie alla sua discendenza normanna, il re d'Inghilterra vantava diritti feudali in Francia, dove possedeva feudi, e, per via di parentele, il diritto al trono di Francia. Da qui, campagne interminabili che ad intervalli durarono circa cent'anni e finirono con la cacciata degli inglesi.
Il megalomane Enrico VIII di Valois quando invase l'Italia nel 1494 lo fece per prender possesso, diceva, dei suoi diritti sul Regno di Napoli, posseduto dagli Aragonesi; diritti che gli sarebbero venuti dagli Angioini. Fu infatti il papa del tempo a chiamare gli Angioini in Italia per sconfiggere gli Svevi, che, in quanto dinastia imperiale, governavano il Sud e il Nord d'Italia, cosa che il papa trovava intollerabile per lo Stato della Chiesa e la "libertà d'Italia". Con l'argoamento dei diritti dinastici, con la venuta di Carlo d'Angiò (fratello di S.Luigi IX re di Francia) si iniziarono in Italia guerre tra francesi e imperiali prima, tra francesi e regni spagnoli che, ad intervalli, sarebbero durate quasi tre secoli, cioè sino alla fine delle Guerre d'Italia con la vittoria della monarchia spagnola degli Asburgo (1530, 1559 con i trattati).
In mezzo a queste guerre, la guerra civile endemica in Italia tra Guelfi e Ghibellini ossia tra partigiani del papa e dell'imperatore.

I monarchi poi si sposavano solo sulla base delle esigenze della Ragion di Stato, cosa che alla lunga si è rivelata deleteria per il matrimonio cattolico.