Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

domenica 17 febbraio 2019

La Recta Ratio e le variazioni magisteriali

Sono soprattutto i documenti del Concilio Vaticano II a generare il malinteso, per l’uso eccessivo di un linguaggio volutamente oscuro. Tutto questo ha dato ampia apertura, diretta o indiretta ai principi del laicismo e dell’indifferentismo religioso. Fontana ammette che una certa «confusione» dottrinale è oramai dilagante e sembra avere il culmine nel pontificato di papa Francesco. L’insegnamento magisteriale è oggettivamente «diventato lacunoso e impreciso»: si era sempre espresso con chiarezza, ma ora viene «detto al massimo per allusione indiretta quando addirittura non più detto».
* * *
Nota su un articolo di Stefano Fontana con riferimento ad Antonio Muratori e Antonio Livi
di Silvio Brachetta.

Stefano Fontana, “Paradigma metafisico e paradigma ermeneutico: le variazioni nel Magistero sociale postconciliare”, in Fides Catholica, XIII (2018) 2, pp. 389-403

Ludovico Antonio Muratori[1] è autore di uno degli scritti più appassionati in difesa della capacità umana di conoscere con «certezza»: Trattato delle forze dell’intendimento umano, o sia Il Pirronismo confutato[2]. Più che un lavoro generico, si tratta della critica mirata a un testo di mons. Pierre-Daniel Huet, dal titolo Trattato filosofico della debolezza dello spirito humano[3]. Muratori dimostra estesamente l’inconsistenza del pensiero di Huet, di Montaigne e dei pirronisti (o scettici) di tutti i tempi. C’è un’«evidenza» – scrive Muratori – che è il «criterio della Verità»[4]. Non è vero che non è possibile conoscere con certezza e non è vero che resta il dubbio su ogni questione. Al contrario, questa evidenza del vero «risulta dalla Chiarezza della Cosa e dell’Idea» e «per tale è ravvisata dall’intelletto nostro dopo la dovuta attenzione […]»[5].
C’è un’infinità di cose e di proposizioni su cui tutti concordano – spiega Muratori – del tutto evidenti e, per questo, certe: il cinque è maggiore di tre, il tutto è maggiore della parte, il cavallo è diverso dalla capra, quell’uomo è giovane o vecchio, esiste il movimento, ecc… Al netto, dunque, del peccato d’origine e dei limiti umani, la «Ragione per lo più non s’inganna, né inganna»[6]. È piuttosto la posizione scettica «il più assurdo ed insolente dogma, che mai possa immaginarsi»[7]. Da ciò – osserva Muratori – procedono tutti i sofismi, i mali e i disordini del mondo.

Il «senso comune»

Muratori non dà un giudizio isolato, ma incarna la migliore tradizione della filosofia. Il perseguire il ‘vero’ e il ‘certo’, anzi, sono il senso e il significato dell’esistenza di una filosofia. Tutta la teologia medievale, che attinse ampiamente alla metafisica classica, fu impregnata dall’ananke stenai[8] di Aristotele che, seppure espresso a proposito delle cause e degli effetti, è figura generale dell’intelletto, il quale ha la necessità di pervenire a conclusione ferma. Da qui la sentenza di San Tommaso d’Aquino: «Infinitum non est pertransire» – [quanto alle cause] «non è possibile attraversare l’infinito»[9]. Che esista una verità oggettiva lo insegnava lo stesso Sant’Agostino: «Se noi due vediamo che è vero quello che dici tu, ed entrambi vediamo che è vero quello che dico io, dove, io mi domando, dove lo vediamo? Certo né io lo vedo in te, né tu in me: ma entrambi lo vediamo in quella stessa incommutabile verità, che è al di sopra delle nostre menti»[10].

Antonio Livi utilizza il concetto moderno di «senso comune»[11] per esprimere qualcosa di simile alla certezza condivisa di Muratori. Il senso comune, in generale, si oppone allo scetticismo, al razionalismo e all’idealismo, perché presuppone che la conoscenza poggi su principi fondativi. Livi, in particolare, precisa d’intendere il senso comune pressappoco come l’intesero Lorenzo Valla e Giambattista Vico e, cioè, come «l’insieme delle certezze primarie universali dalle quali procede ogni conoscenza umana, sia ordinaria che scientifica»[12]. Il tutto – specifica – «s’inquadra nella logica aletica, che è quella che studia le regole in base alle quali un discorso può essere ritenuto vero […]» e la quale consiste in un «ristretto numero di giudizi che sono di fatto condivisi da tutti come veri […]»[13]. C’è però da verificare – scrive Livi – che effettivamente il senso comune sia tale e non sia negato «come verità»: in tal caso «il senso comune non può più avere coerenza logica» nell’ambito della logica aletica[14]. Questa funzione di controllo è appannaggio della «logica epistemica», il «cui oggetto sono le scienze o la scienza in generale, intendendo sempre per “scienza” la ricerca di qualcosa di razionale che viene dopo il senso comune».

In altre parole, a parere di Livi, non si ha scienza in mancanza di un certo «sostrato incomunicabile di ogni comunità di pensiero»[15], che sta a fondamento e precede ogni ricerca speculativa: altrimenti verrebbe meno il principio di coerenza logica suddetto. E, dunque, la logica epistemica «esamina la filosofia e conclude con lo stabilire», in essa, «il principio di coerenza», secondo il quale «non può avere consistenza scientifica (valore epistemico) un sistema “autoreferenziale”»[16]. Tale sistema è «chiuso», ovvero «costituito con l’esplicito intento di non accettare come vere le certezze del senso comune, rifiutandole quindi come la base epistemica del discorso»[17].

Fede e metafisica

Stefano Fontana, nel suo saggio[18], rileva come la Dottrina sociale della Chiesa, in quanto compresa nella teologia morale, non possa prescindere dalla «logica epistemica della teologia cattolica», che «dal punto di vista filosofico, si avvale della logica epistemica della filosofia naturale». Questa è la «“recta ratio”, intesa come “filosofia cristiana”, ossia come un “filosofare nella fede”». Se c’è infatti qualcosa di cui la teologia morale – e la Dottrina sociale in particolare – può fare a meno è il “pensiero debole” contemporaneo. Non può fare invece a meno di un “pensiero forte”, che è sempre scaturito dalla metafisica. Per questo Fontana cita Del Noce: «La fede suppone inclusa in essa una metafisica, e non si esce dalla fede nel renderla esplicita»[19]. Senza un fondamento metafisico o uscendo dalla fede – scrive Fontana – la ragione «si trasforma in positivismo, ossia nella rinuncia non solo alla ragione teologica ma ad ogni ragione». E allo stesso modo, quando la teologia vuole rompere il suo vincolo naturale con «la logica epistemica della filosofia naturale, cessa di essere un autentico sapere e si trasforma in letteratura».

La Dottrina sociale della Chiesa, dunque, non può tenersi sopra un «pluralismo della verità», che scaturisce da un «pluralismo filosofico e teologico». La stessa enciclica Rerum novarum di Leone XIII non nasce dal nulla, spiega l’autore: il pontefice aveva già all’attivo diversi pronunciamenti, tra i quali l’enciclica Aeterni Patris, che «faceva da fondamento del quadro secondo una chiara epistemologia fondata sul realismo metafisico». Per questo motivo la Dottrina sociale della Chiesa non ha nulla a che fare (o non dovrebbe avere nulla a che fare) con un elenco di proposte sociologiche. Leone XIII non intese scrivere un manuale di sociologia, ma volle fondare la Dottrina sociale «su un quadro di pensiero espressione della recta ratio».

Le «variazioni» magisteriali

È soprattutto il XX secolo che vede mortificata la metafisica della teologia, specialmente con le suggestioni del modernismo, della Nouvelle theologie, e di un certo personalismo, compromesso dalla «svolta antropologica». S’inverte – spiega Fontana – il «rapporto tra essenza ed esistenza». Svanita così l’affezione per la verità, una e ferma, è svilita l’essenza, appunto, intesa come la verità delle cose. Lasciato cadere, poi, l’entusiasmo per la verità, si preferisce affrontare il reale (Dio e il cosmo) attraverso l’«interpretazione» di esso, che si concretizza in un interminabile discutere, senza mai approdare a conclusione. In questo senso, Fontana preferisce parlare di uno slittamento dal «paradigma metafisico», della grande tradizione filosofica e teologica, al «paradigma ermeneutico» della mentalità esistenzialista. Persino il Magistero della Chiesa – sostiene Fontana – ha subito le conseguenze di questo cambio di paradigma, per cui in esso sono sorte alcune evidenti «variazioni».

È variato, ad esempio, il concetto di «bene comune», sempre a proposito di Dottrina sociale. Non che si neghi esplicitamente che la promozione del bene comune va primariamente riferita al fine teleologico, cioè a Dio, ma l’espressione equivoca di alcuni pronunciamenti non rendono esplicita tale verità. Leggendo la definizione di bene comune[20] della Gaudium et spes, non è chiaro se la perfezione da raggiungere da parte dei corpi sociali sia di tipo «naturale» o «soprannaturale». Di tenore diverso e più chiaro sono, invece, i pronunciamenti di Leone XIII – nota Fontana – dove il principio di autorità è riferito a Dio, secondo l’ordine ontologico stabilito: il bene comune è qui descritto in «senso metafisico e verticale», di modo che la politica non si dimentichi di tutelare la religione e l’ordine naturale del creato. Stesso problema si ha nella Caritas in veritate di Benedetto XVI, dove manca un riferimento chiaro al «carattere» metafisico e religioso del senso comune, seppure in alcuni passi dell’enciclica appaia sottinteso[21].

Confusione dottrinale

L’autore esamina altri due principi della Dottrina sociale che fanno problema, se trattati con il «paradigma ermeneutico»: la sussidiarietà e la libertà religiosa. La sussidiarietà, in primo luogo, «ha un aspetto ontologico ed uno operativo», di cui il primo aspetto è prioritario sul secondo. È, difatti, la dottrina che informa l’azione, non viceversa. La prassi odierna, anche in ambito ecclesiastico, è però squilibrata sull’azione, ai danni della dottrina (che si regge sulla “recta ratio”). Così come nel caso del bene comune – precisa Fontana – il principio della sussidiarietà risponde a verità solo se poggia su di un «ordine finalistico», nel senso di avere ben chiaro che i fini soprannaturali precedono quelli naturali.

Secondo il pensiero di Marcel de Corte «la società è anteriore e superiore agli individui che la compongono e il bene comune che ne unisce i membri è per essi qualcosa di divino e di trascendente. Non vi è società senza il legame della trascendenza e senza religione»[22]. Le variazioni del Magistero attorno alla sussidiarietà si riscontrano nei documenti dell’ultimo mezzo secolo, dove il principio viene spesso ridotto a una denuncia formale dell’assistenzialismo statale o, comunque, ad una richiesta di «diritti», senza specificare che il diritto va rivendicato «per esercitare un dovere in vista di un fine».

Evidenti sono pure le variazioni sul tema della libertà religiosa. Non è stato ribadito a sufficienza – scrive Fontana – l’esistenza del principio secondo cui «l’autorità viene da Dio e, quindi, del dovere che l’autorità politica ha nei confronti della religione vera». Quando si parla di libertà religiosa, quindi, ci si limita a riproporre il noto orizzonte orizzontale della questione: è quasi sempre rimosso il discorso sull’autorità e sul dovere politico di promuovere la verità (la creazione ha senso solo in relazione al Creatore). La religione vera (il cattolicesimo) ha un’«esigenza» di cui il mondo politico dovrebbe tenere conto. In questo caso, sono soprattutto i documenti del Concilio Vaticano II a generare il malinteso, per l’uso eccessivo di un linguaggio volutamente oscuro. Tutto questo ha dato ampia apertura, diretta o indiretta ai principi del laicismo e dell’indifferentismo religioso.

Fontana ammette che una certa «confusione» dottrinale è oramai dilagante e sembra avere il culmine nel pontificato di papa Francesco. L’insegnamento magisteriale è oggettivamente «diventato lacunoso e impreciso»: si era sempre espresso con chiarezza, ma ora viene «detto al massimo per allusione indiretta quando addirittura non più detto». - Fonte
_________________________________
[1] 1672-1750, presbitero italiano, scrittore e storico.
[2] Giambattista Pasquali Editore, 1745.
[3] Esce in lingua italiana nel 1724. Muratori, però, non pensa sia stato scritto da mons. Huet, che stima.
[4] Muratori, Trattato delle forze… cit.
[5] Ivi.
[6] Ivi.
[7] Ivi.
[8] «Ανάγκη στήναι», «bisogna fermarsi», «è necessario concludere», Aristotele, Metaph., XII 3, 1070 a 4, Phis., VIII 5, 256 a 1.
[9] San Tommaso d’Aquino, In libros Aristotelis De caelo et de mundo expositio, I, lectio 9.
[10] Sant’Agostino d’Ippona, Confessioni, XII, 25.
[11] Con «Filosofia (o scuola) del senso comune» s’intende «la dottrina elaborata dalla Scuola scozzese, che postula l’esistenza di una speciale facoltà, il senso comune appunto, istinto originario con cui la mente umana riconoscerebbe in maniera intuitiva e immediata i principî fondamentali della conoscenza (in partic., la nozione della realtà esterna), della morale (per es. il principio della libertà dell’agire) e della religione (per es. l’idea dell’essere divino), che sarebbero così sottratti tanto alla dimostrazione quanto alla critica della ragione». Voce «senso comune», in Il Vocabolario Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
[12] Antonio Livi, Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, Armando Editore, 1997, pp. 15-16.
[13] Ibidem. p. 46.
[14] Ivi.
[15] Ibidem. p. 156.
[16] Ibidem. p. 46.
[17] Ivi.
[18] Stefano Fontana, “Paradigma metafisico e paradigma ermeneutico: le variazioni nel Magistero sociale postconciliare”, in Fides Catholica, XIII (2018) 2, pp. 389-403. Tutte le citazioni a seguire di Fontana sono relative a questo testo.
[19] Augusto del Noce, Fede e filosofia secondo Étienne Gilson, in Id., Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Studium, Roma 2005, p. 81. Dalla nota di Fontana.
[20] «Il bene comune comprende l’insieme di quelle condizioni della vita sociale con le quali gli uomini, le famiglie e le associazioni possono raggiungere più pienamente e più rapidamente la loro perfezione.», Concilio ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes, n. 74.
[21] Cf. Benedetto XVI, Lett. Enciclica Caritas in veritate.
[22] Marcel de Corte, La grande eresia – Ovvero la caricatura eretica del cristianesimo, Effedieffe, Viterbo 2015, p. 51. Citazione e nota di Fontana.

3 commenti:

Japhet ha detto...

Ottima recensione di un testo da incorniciare.

Anonimo ha detto...


L'insegnamento magisteriale è diventato lacunoso ed impreciso, si era sempre espresso con chiarezza...

Certamente, si era sempre espresso con chiarezza, ma sino al pontificato di Pio XII.
Dopo sono cominciate le ambiguità, in gradazione crescente, Concilio adiuvante, sino
alla decomposizione attuale, persino stilistica ed estetica.
T.

irina ha detto...

«l’insieme delle certezze primarie universali dalle quali procede ogni conoscenza umana, sia ordinaria che scientifica»

Queste certezze primarie le ricordo nella loro assenza nel periodo della incomunicabilità, in cui sembrava che ciascuno fosse murato in se stesso e in contemporanea si parlava di sè ovunque e con chiunque,con un fratello, con un amico, nel gruppo, dallo psicanalista; ed insieme bisognava tirar fuori il genio, l'artista, quel te stesso che avrebbe cambiato il mondo ed avrebbe avuto successo, grande. La comune fu parte della muratura mentale e della glossolalia vocale. La comune fu il laboratorio di molte perversioni, in queste comuni di debolezze si finì col perdere ogni certezza ed ogni percezione di se stessi e dell'altro, nella fusione del non essere collettivo.Alla morte fisica di milioni di esseri umani nelle guerre mondiali e locali, corrisposero, a mio parere, gli effetti letali di una bomba atomica spirituale che gli uomini lanciarono su loro stessi e sulla civiltà che era riuscita a dar forma ed aveva rigenerato, cristianamente, il contenuto di ogni altra espressione del vivere insieme. L'essere umano, tuttavia, non è completamente scomparso, anche in quelli che l'hanno strangolato in se stessi un filo della sua vita sembra permanere. Molti dicono che siamo all'ultima battaglia, speriamo e combattiamo fiduciosi che le Schiere Celesti combattono con noi, armati di quelle certezze primarie universali, che abbiamo dimenticato, perso, rigettato. Ritenendole superate e noi così evoluti ed avanzati da poterne fare a meno.